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Autore: Luana89    16/06/2017    2 recensioni
«Misha, sai cosa dicevano i navajo mentre camminavano in questo preciso luogo?» Sophia ci guardò come se si aspettasse una risposta, io scrollai semplicemente le spalle dando l’ennesimo tiro alla mia sigaretta. La sua voce divenne improvvisamente bassa, era l’eco di ogni mio battito. «Con la bellezza dinanzi a me avanzo. Con la bellezza dietro di me avanzo. Con la bellezza sotto di me avanzo. Con la bellezza sopra di me avanzo – l’aria si fermò improvvisamente, quasi ascoltasse anche lei – Finisce nella bellezza. Finisce nella bellezza» Sophia chiuse gli occhi come se cercasse di assaporarne meglio le parole. Misha corrugò la fronte probabilmente riflettendo sul senso di quel discorso. «E perché me lo stai dicendo?». Il silenzio ci assordò per qualche attimo.
«Sostituisci la parola ‘’bellezza’’ con ciò che ami di più, e avrai la risposta al quesito» gettai a terra la sigaretta allontanandomi da loro, mentre il mio riflesso diveniva simile ad un miraggio.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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ACT XIV

 
Mi ero dileguato da quella festa prima di tutti gli altri, ero sicuro Misha non sarebbe tornato quella notte e nella penombra della mia camera iniziai a togliere la giacca, allentai la cravatta con gesti stanchi e sbottonai i primi bottoni della camicia bianca e linda. Fissai il letto vuoto stendendomi a fissare il soffitto mentre le immagini di quella sera si susseguivano come un disco rotto nel mio cervello, credo fu per questo che sentii il bisogno viscerale di vederla. Volevo fissare i suoi occhi tristi e dirle che sarebbe andato tutto bene; mi alzai strisciando fuori dalla mia stanza percorrendo i metri che mi separavano dall’ala nord, la sua. Il suono dei tacchi mi distrasse, mi voltai e incontrai quel viso che tanto avevo voluto vedere. Le parole sembrarono incastrarsi nella mia gola, che cosa avrei potuto dirle? Di aver fede ancora una volta nonostante i miei atteggiamenti sembrassero dirle esattamente l’opposto? Ci fissammo in silenzio e feci ciò che da una vita mi veniva bene con tutti: ignorai e passai oltre. Tornai nella mia camera strappandomi di dosso la camicia con un gesto rabbioso, la tenevo ancora in mano quando la porta si aprì di colpo lasciando entrare il suo corpo e la sua furia cieca. Mi versò addosso parole che ferivano come acido, corrodevano la mia pelle lasciandomi agonizzante al terreno. Le cose non sarebbero andate come io avevo previsto, non quella notte almeno. Una singola notte che avrebbe cambiato la mia intera esistenza, mi chiedo se col senno di poi avrei rifatto esattamente le stesse cose. Forse si, e questo è il prezzo da pagare per il più atroce dei peccati commessi in questa vita.
Tappai la sua bocca col palmo della mia mano, l’irruenza messa in quell’atto la portò a sbattere contro il muro accanto la porta ancora socchiusa e che richiusi con un boato. I suoi occhi spaventati non mi fermarono.
«Vuoi per caso che l’intera villa assista alla tua crisi di gelosia isterica? Sai chi alloggia qui accanto? Il tuo futuro marito, vuoi per caso venga qui e osservi tutta la scena?». Ringhiai quelle parole ad un centimetro dal suo viso, poggiando le labbra sul palmo della mia mano, alla stessa altezza delle sue ancora sigillate. Mi fissò muovendo istericamente gli occhi, mentre le piccole mani tentavano di scostarmi da lei.
«Sono mezzo nudo al momento, se venissero potrebbero fraintendere. O forse no. Forse non c’è nulla da fraintendere Sophia, e sai perché? Perché per me non è cambiato nulla, ti guardo ancora come quella notte in cui ti regalai il pupazzo, o quella in cui dormimmo abbracciati. Ti ho chiesto di avere pazienza .. PERCHE’ NON PUOI DARMI ASCOLTO ALMENO UNA SINGOLA VOLTA». Lei e Misha erano identici in quel senso. Mi spinse di nuovo e stavolta le diedi la tanto voluta liberà. Mi fissò ansante sfregandosi le labbra col dorso della mano mentre gli occhi lanciavano saette.
«Non toccarmi mai più, mi fai accapponare la pelle». La sua voce sembrava vuota, come l’eco di un barile il cui interno era stato svuotato da tutto. Le sorrisi arcigno avvicinandomi.
«Non vuoi che ti tocchi? E chi dovrebbe toccarti allora, forse Andrej? Ma aspetta .. – mi bloccai continuando a sorridere finché la mia espressione non mutò divenendo rabbiosa. Le afferrai il braccio spintonandola fuori dalla camera – lui alloggia proprio qui. Proprio in quella stanza». Provò a opporre resistenza senza riuscirci mentre la trascinavo esattamente di fronte la camera di quella feccia. La fissai.
«Quindi? Ti chiudo qui dentro e magari ti fai toccare da lui?». I suoi occhi si riempirono di lacrime, e io mi sentii ancora più furibondo. Con me stesso soprattutto.
«Chi diavolo sei tu..». La sua voce impastata dal pianto fu appena udibile in quel corridoio buio e vuoto. Chi ero io? Ero solo un miserabile che si era concesso il lusso di amarla e che adesso provava, con i soli strumenti in suo possesso, a salvare il salvabile.
«Sono Shùra, la persona che ti ama più di chiunque a questo mondo». Smise di singhiozzare e forse anche di respirare mentre mi fissava stralunata e confusa. La riportai in camera mia chiudendomi la porta alle spalle, la camera quasi totalmente oscura gettava ombre tutte attorno a noi. Le ombre erano anche dentro di noi.
«Chi ti dice non volessi farmi toccare da lui?». Mi provocò con occhi carichi di rabbia. La strattonai con forza.
«Se avessi voluto stai pur certa che ti avrei lasciato lì davanti. Smettila con questi giochini, non possiamo più permetterceli». I miei occhi carichi di dolore la soppesarono.
«Sono qui in questa stanza solo per ricordarti che sei un essere ignobile, una persona priva di coraggio che mi ha scartata come la più inutile delle scarpe». Mi spintonò con rabbia, le afferrai i polsi sollevandoglieli sopra la testa, contro il muro, lasciando aderire i nostri corpi.
«Lo sai che non è così, smettila. Ti ho chiesto pazienza, pensi per me sia semplice? Pensi che vederti con un altro uomo sia qualcosa che mi piaccia? Io ti amo Sophia, ti amo». Quelle parole probabilmente servirono a zittirla da qualsiasi altra cattiveria avesse in mente di dire. L'incontro con Sergei al capannone era stato decisivo per la mia mente, il piegarmi a forza, il rinnegare tutto l'amore che provavo per lei, il vedermi ancora una volta solo e malconcio a dover curare in solitudine quelle ferite  avevano provocato un taglio nella mia anima e nella mente difficile da curare o guarire. Sapevo di aver perso il senno, sapevo che le cose non sarebbero mai state facili, lo sapevo eppure continuavo quel cammino incurante di ciò che mi aspettava alla fine; magari avrei trovato la morte, ma era ben poca cosa se paragonata ai momenti con Sophia. La donna che amavo più di me stesso, colei che avevo protetto da tutto e tutti ogni giorno della nostra vita insieme. Era per questo che non potevo rinunciare a lei; neppure per Sergei, né per Misha  non potevo staccarmi da quell'amore nei suoi confronti così reale e forte, sebbene iniziasse a sporcarsi di morbosità e sangue. Ero assolutamente certo che mai nessuno avrebbe amato Sophia come avevo fatto io per anni, nessuno era degno di averla tanto meno quel fantoccio russo che pretendeva di averla e farla sua di lì a poco tempo. Non sarebbe finita così.
«Se mi ami davvero, allora dimostralo..» la fissai in silenzio, come potevo dirle che lo stavo già facendo? Nella mia vita avevo paura di due cose: della verità e di Sonech’ka. E per ironia queste due cose erano strettamente correlate tra loro.
«Balli con me?». Le sorrisi afferrando il cellulare, iniziai a scorrere la lista delle canzoni fino a sceglierne una. Lo stesso lento che avrei voluto ballare in sala con lei. Lo poggiai sul comodino afferrandole la mano, portandola di fronte la grande finestra che dava sul giardino. Non si oppose continuando a fissarmi, mentre le sue braccia cingevano il mio collo, e le mie mani i suoi fianchi. Persi cognizione di spazio e tempo, al chiaro di luna ballavamo in una notte che sembrava destinata ad essere senza tempo, o almeno così mi piaceva credere. L’illusione alle volte è l’unica cosa che ci permette di andare avanti.
Baciai le sue labbra, le saccheggiai totalmente fino ad essere sicuro che persino l’ultimo suo respiro fosse entrato dentro di me. Lei e quel suo odore, quell’odore di vita e libertà che emanava da una vita e mi permetteva di sentirmi umano, amato: una persona con delle speranze.
L’abito bianco cadde giù ai suoi piedi, mentre le mie dita toccavano quella pelle fresca e priva d’imperfezioni, lasciavo le impronte delle mie carezze quasi volessi entrarle dentro, dritto nelle ossa o anche nell’anima e lì restarvi. Riversai in lei ogni mio dolore insieme a quella passione che lentamente non avrebbe lasciato nulla di me stesso.
Ci amammo tutta la notte finché le luci dell’alba non ci videro stanchi e avvinti in un abbraccio che sembrava fonderci l’uno con l’altro, dormendo in apparente tranquillità. La sveglia suonò alle otto in punto, la spensi alzandomi in silenzio, iniziando a vestirmi per partecipare alla riunione che Sergej aveva indotto. La sentii muoversi tra le lenzuola, coprì il suo corpo nudo fissandomi assonnata.
«Ho la risposta alla tua domanda, più o meno». Mi fissò intontita aggrottando la fronte.
«Quale ..delle tante». Mi sorrise con tristezza e io chinai il capo finendo di abbottonare la camicia blu.
«Se io non avessi detto sul serio quelle parole, le parole che hai sentito da tuo padre. Se io non avessi mai detto del tuo essere una ragazzina capricciosa .. questo cosa vorrebbe dire?». La fissai intensamente, i suoi occhi presero consapevolezza e dolore. Allargai le braccia sorridendo in maniera rotta.
«Decidi Sophia, decidi a chi affibbiare l’aggettivo di bugiardo. A me, o a tuo padre? Il padre che da una vita consideri l’eroe senza macchia». Era ora che anche lei compisse delle scelte dolorose, le voltai le spalle uscendo finalmente da lì.

 

Sophia POV

 
La porta si richiuse e con essa svanì l’immagine della sua schiena larga e familiare. Stesa tra quelle lenzuola che odoravano ancora di noi chiusi gli occhi lasciandomi invadere da dubbi e pensieri. La notte appena trascorsa non era scivolata via inutilmente, avevo fissato ogni suo tatuaggio, ogni cicatrice persino le ultime che sembravano in rilievo quasi  a volersi far notare. Dovevo fidarmi quindi di Aleksandr nonostante le cose che iniziavo a notare mi confermassero quanto forse conoscessi poco la vita dell’uomo che amavo? O dovevo fidarmi di mio padre, l’uomo integerrimo che mi amava da una vita, che mi aveva viziata e curata come il gioiello più prezioso della sua corona. L’eroe della mia infanzia, coi suoi occhi verdi e buoni, così diversi dai miei ma ugualmente amorevoli.
Giunsi alla conclusione che probabilmente non mi fidavo più nemmeno di me stessa.
 

 

Aleksandr POV

 
Mi sedetti nella piccola cucina mentre Viktor preparava il caffè, fissai un punto non ben preciso della stanza osservando due bambini sbucar fuori e correre ansanti. Il più grande inseguiva il più piccolo:
 
–  Misha vieni subito qui e cambiati le lenzuola.
–  GIAMMAI, FALLO TU.
 
Sorrisi e l’odore del caffè li fece svanire in una nube fatta di ricordi e rimpianti. Bevvi la bevanda calda e dolciastra sorridendo all’uomo attempato che mi fissava con affetto. Ero passato dalla camera di Misha poco prima trovandola vuota, probabilmente lo avrei visto direttamente alla riunione.
Mi alzai dalla sedia uscendo da quella stanza, abbandonando l'ala ovest del palazzo, il luogo nella quale ero cresciuto e dove avevo vissuto gli anni della mia infanzia e adolescenza, sapevo comunque che il destino mi avrebbe ricondotto ancora lì presto o tardi. Bastava solo avere pazienza.
Gli uomini erano tutti radunati nella grande sala delle riunioni, mi guardai attorno puntando lo sguardo su Misha che a sua volta mi fissò con astio. Gli sorrisi in maniera sprezzante accomodandomi accanto a lui.
«Hai dormito bene Misha?» la mia voce suonava pacata, quasi affettuosa.
«Fottiti». Non mi guardò muovendosi lievemente sulla sedia.
«Non adularmi così, la gente potrebbe capire che sei pazzo di me». Il nostro adorabile battibecco venne interrotto dall'arrivo di Sergei, accompagnato da Nikolaj e Andrej. La mia espressione cambiò drasticamente, fu qualcosa di impercettibile agli occhi degli altri quanto un granello di sabbia che dentro di me però valse come una vera e propria tormenta. La riunione iniziò, tamburellavo le dita contro il legno scuro e laccato del tavolo, ascoltando i comandi dati dal Vor, mentre un angolo della mia mente incamerava altre informazioni di natura ben diversa: quante volte aveva sorriso, era destrorso, gestiva male l'ansia, si muoveva più lentamente di me, aveva lo sguardo attento e furbo e nelle sue mani vi erano i calli tipici di chi sparava abitualmente quindi con tutta probabilità era un bravo cecchino. Curvai le labbra in un sorriso sinistro mentre un brusio si levò nella sala sempre più pressante e fastidioso, la voce di Misha attirò la mia attenzione.
«Dovrò lavorare con Shùra?» sembrava quasi scocciato, schioccai la lingua contro il palato annuendo lentamente, sollevando la mano in un gesto eloquente.
«Per me va bene, faremo noi la consegna con i colombiani ho già trattato con loro. Il prezzo non sembrava andare bene all'inizio, ma con Misha abbiamo trovato il modo di essere convincenti». Calcai il tono sull’ultima parola e vidi Dimitri sorridere. La riunione sembrava finita, ma Sergei richiese nuovamente il silenzio. Io sapevo, sapevo che la bomba stava per essere sganciata.
«Lui è Andrej, ve l'ho presentato ieri verrà anche lui a San Francisco voglio che veda l'andazzo dei nostri affari lì. Shùra occupatene tu, fallo sentire come a casa, avvicinalo a Sophia e mettilo a conoscenza degli affari in agenzia». Quella era una chiara sfida nei miei confronti, strinsi la penna tra le dita sorridendo in maniera ambigua, quasi agghiacciante. Sentii lo sguardo di disapprovazione di Misha su di me, lo ignorai inarcando un sopracciglio.
«E' il benvenuto. Ti farò vedere come tratto io gli affari, Andrej». Sergei e quell’insetto schifoso, avrebbero scoperto presto che quella non era una dichiarazione di fratellanza. Era il preludio della morte.
 
***
 
Tre giorni dopo eravamo tornati tutti alle nostre vite, il che era paradossale visto e considerato che una vita ero sicuro di non averla mai avuta davvero. Non nel senso letterale del termine almeno.
Andrej aveva viaggiato con noi, e mentre si sprecava in complimenti seduto accanto a Sophia io sentivo gli occhi di quest’ultima mandarmi a fuoco la schiena. La ignorai ancora una volta. Misha dal canto suo si teneva alla larga da quel me stesso che stentava ormai a riconoscere; sapevo di stargli facendo male, ma ugualmente non trovavo una soluzione meno dolorosa per portare a compimento il mio piano. Non era ancora il momento di coinvolgerlo, lui in tutta quella faccenda era essenziale e soprattutto era vitale fosse fuori da ogni possibile colpa. Per una volta sarei stato io a sbagliare.
Lasciammo Andrej in albergo con la promessa fatta a Sophia di rivedersi il giorno dopo, la vidi fissarmi come a volermi dire ‘’vedi? Qualcuno che riesce a mantenere una promessa esiste’’. La nostra notte insieme non aveva cambiato le sue idee, forse ne avevo mitigato le paure per qualche ora ma queste erano tornate più forti di prima. A quel punto il bivio che le avevo posto non ero più sicuro sarebbe stato saggiamente ponderato da lei, probabilmente nonostante il mio ‘’ti amo’’ risultavo molto meno credibile dell’integerrimo padre. Non mi toccava poi molto quella consapevolezza, che mi credesse o meno io avrei mantenuto la mia parola: Sophia non avrebbe sposato Andrej né altri.
 
***
 
Avanzai a grandi passi lungo il corridoio diretto nel mio ufficio, Anastasia mi accolse con un sorriso alzandosi dalla sedia.
«Ti porto il caffè?». Annuii fermandomi di fronte la sua scrivania.
«Si, ti aspetto tra cinque minuti. Devo parlarti». Le sorrisi affabile, non tentennò neppure per un secondo e cinque minuti dopo mi sedeva di fronte a braccia incrociate.
«E’ successo qualcosa? Ho fatto male un lavoro..» una punta d’ansia si insinuò nella sua voce, risi scuotendo il capo.
«Per niente. Semplicemente ho degli incarichi per te Anastasia, anzi uno solo per la precisione». Ci fissammo con gravità e la vidi annuire.
«Dimmi tutto». Mi alzai dalla scrivania e feci il giro, piazzandomi accanto a lei poggiandomi proprio sul bordo, chinando il capo.
«La vita è fatta di scelte Anastasia, lavori per me da anni ..a chi va la tua lealtà?». Reclinai appena il viso sorridendole affabile. La vidi confusa.
«A te, è ovvio..» forse pensava di avermi contrariato in qualche modo visto come si torceva le dita.
«Ti ho assunto perché non c’è persona migliore di te quando si parla di roba informatica e altro, anzi .. probabilmente il lavoro di semplice segretaria lede le tue capacità». Non la stavo adulando, ma descrivendo. Anastasia era un hacker, aveva passato metà della sua vita rintanata in casa lavorando su commissione, finché non l’avevo scovata dopo un colpo ai danni della Bratva salvandole però la vita. Invece di ucciderla le avevo offerto un lavoro. Sapevo che un giorno mi sarebbe tornata utile. Perché non c’è un debito più grande di questo, se devi a qualcuno la tua vita quel qualcuno diverrà la tua vita stessa.
«Mi stai adulando?». Sorrise divertita per la prima volta e io la imitai.
«Dovrai sgranchirti le tue belle dita Anastasia, è arrivato il momento di ripagare quel debito che mi devi». Assottigliò lo sguardo sollevando le lenti spesse.
«E come dovrei fare..?». Si sedette ritta e composta, avevo la sua totale attenzione.
«Dovrai prosciugare alcuni conti che ti darò. Per un totale di ..settanta milioni di dollari senza lasciare alcuna traccia. Dieci andranno a te, che te ne pare?». Mi fissò sbigottita e il silenzio pesò su di noi.
«I conti di cui parli, sono… non saranno mica .. Oh Gesù». Annuii e un sorriso cattivo si disegnò sulle mie labbra. Sentivo l’odore della sua paura ma quegli occhi parlavano per lei: avrebbe accettato. Nessuno rifiuterebbe mai dieci milioni di dollari.

 
 

Mikhail POV

 
Che cazzo stava succedendo? Continuavo a ripetermelo mentre smistavo l’ultima partita di droga arrivata dalla Colombia. Un tipo dalla pelle scura e l’aria perennemente fusa mi si avvicinò passandomi due bustine di quella che sembrava cocaina.
«Prendile, è roba di prima qualità». Me le rigirai tra le mani sollevando una piede per dargli un calcio nel culo.
«Ho l’aria di un tossico, testa di cazzo?». Lo vidi chinarsi e ridere, mi auguravo non di me o l’avrei ucciso.
«E’ solo un regalo per voi russi, dalla anche al tuo amico». Osservai le bustine mentre mi rivedevo a darla a Shùra con aria complice. Come minimo mi sarei beccato un cazzotto tale da deformarmi i connotati. Misi quella merda dentro la tasca, l’avrei data a quel coglione di mio ‘’fratello’’ e se ne sarebbe disfatto lui. Al momento avevo troppi pensieri per la testa, come ad esempio il fatto che da tre giorni provavo a mettermi in contatto con Irina e mi rispondeva sempre la voce fastidiosa della segreteria telefonica. Altre volte squillava a vuoto ma di lei nessuna traccia. Questo silenzio mi portava parecchio nervosismo, e a me il nervosismo non faceva per niente bene, mi costringeva a fare cose stupide e poi pagarne le conseguenze. Provai a richiamarla, ancora una volta nessuna risposta arrivò a salvarmi dalla crisi di panico che sentivo arrivare di lì a poco. Osservai l’orologio, era quasi mezzanotte.
Presi l’auto parcheggiata poco distante dalla fabbrica abbandonata e a tutta velocità mi diressi nella casa dove sapevo vivesse mia sorella. Shùra mi aveva dato l’indirizzo quando l’aveva finalmente trovata, non ero però mai riuscito a vederne la dimora perché ad ogni mio appuntamento con Irina una berlina nera veniva a prenderla per scortarla in casa.
Spensi i fari fissando la villetta dallo stile eccessivo e pomposo, scendendo lentamente e con cautela, i miei sensi erano tutti all’erta in quel momento e non ne capivo il motivo. Vidi due uomini uscire dalla casa, parlottavano tra loro e uno dei due sembrava nervoso, l’altro semplicemente spaventato. Il tipo dall’aria nevrotica altri non era che Thomas Jensen, il patrigno della mia Irina.
«Voglio sapere dove cazzo sta». Spinse l’altro uomo sul ciglio della strada e io mi nascosi.
«E’ saltata dall’auto aggredendomi, l’ho cercata dappertutto». La sua voce disperata mi diede la nausea. Mossi un altro passo ma stavolta nella direzione contraria. Sapevo di chi parlavano in quel momento: la mia Irina era sparita. Dovevo trovarla prima che lo facessero loro.
Afferrai il cellulare e chiamai una persona che mai nella mia vita avrei pensato potesse essermi utile:
 
–  Pronto?
–  Sono Misha, senti sgorbio sto per mandarti un numero ..rintraccialo per me.
–  Mikhail è mezzanotte passata..
–  E che cazzo vuoi, lo spuntino? Anastasia trovami quel numero o ballerò sul tuo cadavere.
–  Va bene, mandalo e farò il prima possibile.
 
 

Irina POV

 
Le molle del materasso cigolarono, allungai il braccio toccando la parete spoglia con le dita, delineando i contorni di quelle rose appassite come la mia anima in quel momento. ''La fine di tutto'', non ho mai pensato al giorno della mia morte, e non intesa in senso fisico ma bensì spirituale, eppure da qualche tempo quel pensiero era divenuto un chiodo fisso nella mia mente; con la mano libera rovistai sotto il cuscino estraendo una foto. Il soggetto era un bel ragazzo, dal viso buffo e gli occhi simili ai miei. Il suo nome è Mikhail, Misha lo chiamano i suoi nuovi... fratelli. Era stato divertente vedere il sangue del tuo sangue definito tale da perfetti sconosciuti; una lacrima rigò la mia guancia, non la fermai lasciando che inzuppasse la fodera del cuscino. I ricordi sono tornati lenti alla mia memoria, settimane prima mi ero ritrovata a rovistare tra le carte di ''quell'uomo'', definirlo padre uccideva il mio orgoglio, avevo trovato le prove dei suoi traffici e notizie relative al mio Mikhail. Lo avevo sempre avuto così vicino, e mi ero sempre mantenuta così lontana.. che stupida. Ci sono tante cose che vorrei dirgli: ''come sei stato in questi anni?''; ''sono guarite le ferite della tua anima?''. Il sonno lentamente si impadronì del mio corpo, mi addormentai con la mano attaccata al muro e la foto contro il mio petto.
Il boato della porta mi fece sobbalzare, non ebbi neppure il tempo materiale di ritrarmi mentre la presa ferrea di Thomas Jensen mi trascinava lungo il pavimento, incurante dei miei strepiti. Mi stava vendendo come carne da macello. Ancora una volta.
«Lasciami. HO DETTO LASCIAMI ..ti prego!». A nulla valsero le mie suppliche, quell'uomo senza Dio aveva ormai deciso il mio destino, e sembrava io non potessi far nulla per sottrarmi. Strinsi la foto spasmodicamente tra le dita, quasi sperando che quel viso si materializzasse per salvarmi, ma questo non sarebbe successo. Ero completamente sola. Le sue viscide mani mi spinsero dentro la berlina nera, sentii la sua voce dare indicazioni precise mentre sbattevo le mani contro il vetro cercando di attirare la sua attenzione; era tutto inutile. Non si voltò nemmeno. L'auto partì talmente veloce da farmi rimbalzare sui sedili, rigettandomi contro di essi. Dovevo pensare. Pensa Irina. Pensa. La mia mente era come una matassa aggrovigliata, mi pressai le tempie e all'improvviso ebbi un'unica disperata idea. Mi tenni lo stomaco cercando di frenare i conati di vomito, non mi serviva neppure mentire.. stavo davvero per vomitare. L'uomo si girò a guardarmi dubbioso.
«Ti prego ..accosta, accosta l'auto io ..sto per vomitare». L'aria fresca punse il mio viso, l'uomo mi stava praticamente incollato al culo, neppure la mia ombra sarebbe stata così vicina. Osservai il paesaggio attorno a me, non avevo la minima idea di dove fossi e ormai era pure inutile chiederselo. Dovevo sparire da quel posto, almeno per il momento. Fu questione di pochi istanti, la punta della mia scarpa si scontrò con violenza contro la gamba del mio carceriere, lo spinsi facendolo ruzzolare a terra iniziando a fuggire più veloce di quanto non avessi mai fatto in vita mia. Presi un sentiero pieno di sterpaglie e rovi, le mie gambe si graffiarono, sentivo le sue urla dietro di me. Non poteva raggiungermi, se lo avesse fatto .. sarebbe stata la fine.
Persi il senso di spazio e tempo, ferma sul ciglio della strada tenendomi il petto con la mano girandomi verso il bosco appena passato, ero riuscita davvero a seminarlo..? Strinsi ancora la sua foto tra le mie mani, la sollevai guardandola, accarezzandone i contorni del viso.
«In un modo o nell'altro ci rivedremo. La vita ci sta separando di nuovo, ma adesso tocca a me. Mi hai ritrovata e mi sei stato accanto nonostante per me fossi poco più che un estraneo ..adesso sarò io a ritrovare te. Aspettami fiducioso, io tornerò». Notai poco distante una piccola strada secondaria, non feci in tempo a scrivere il messaggio sul cellulare che un rumore al di là del bosco iniziò a farsi spaventosamente sempre più vicino. Nascosi l’oggetto dietro un po' di sterpaglia, reprimendo le lacrime sollevai il braccio al passaggio di una macchina che si fermò qualche metro più in là. Salii indicando una meta a caso nel mio improvviso viaggio, e mentre la macchina si muoveva allontanandomi dalla mia casa, dai miei amici e da lui mi voltai osservando l'orizzonte che si tingeva dei colori di una calda alba. Ora sapevo. Questo non era un addio. Ma solo un arrivederci.

 
 

Mikhail POV

 
‘’Ho trovato la posizione, ti mando le coordinate’’. Anastasia ci mise ore che per me valsero quasi come un’intera vita.
Impiegai almeno venti minuti per raggiungere il posto isolato lungo la superstrada, scesi dall'abitacolo ormai scomodo ed attraversai la transenna che separava la strada da quello che sembrava un bosco cupo e fitto. Stavo per raggiungere la posizione di Irina a giudicare dalle coordinate, continuavo a chiamare il suo nome ma lei non rispondeva né appariva dinanzi a me.  
Il cuore mi salì in gola, non potevo permettere accadesse di nuovo. Mi fermai per qualche istante, le mie gambe non sembravano voler collaborare nel lavoro, come se fossero anchilosate divenendo arti non collegati al mio corpo. Una lacrima mi rigò il viso, non potevo permettermi il lusso di piangere non in un momento simile. Ripresi a camminare, con fatica sicuramente ma lo feci.
Un punto cieco, un burrone che lasciava intravedere solo le poche luci dei palazzi in lontananza. Chiamai il suo nome guardando giù senza vedere un cazzo.
«No, non sei caduta. Non può essere». Borbottai quelle parole guardandomi attorno e risi forte. La mia era una risata quasi isterica, spezzata dai singhiozzi che in quel momento non mi permettevano di respirare.
Vidi una sorta di riflesso farsi spazio al di là di un cespuglio, mi precipitai ansante. Il cellulare di Irina che annunciava l'imminente spegnimento a causa della batteria scarica.
"Ti voglio ben-", il messaggio incompleto lasciava intendere fosse stato scritto di tutta fretta, scossi il cellulare urlandogli contro, come se tutto ciò fosse possibile a darmi nuove risposte. Come se quell’oggetto infernale dovesse darmi le risposte che cercavo invano. Almeno una riuscì a darmela: il messaggio ero sicuro fosse per me, lei sapeva sarei venuto a cercarla.
Le mie ginocchia toccarono il suolo esauste. Mi voltai e dinanzi a me trovai solo il buio. Un buio che faceva invidia a tutti i miei incubi, a tutte le mie paure. Un buio che partiva dal centro esatto del mio petto.
 
Mi persi.
 

 

Aleksandr POV

 
Irina era sparita. Mi arrivò così quella notizia tra capo e collo, detta in maniera talmente normale e pacata da gelarmi il sangue nelle vene. Il fatto che non fosse stato Misha a chiedermi aiuto la diceva lunga su quanto i nostri rapporti si fossero deteriorati dal viaggio a Mosca. Fissai Anastasia con gli occhi che temevo potessero schizzarmi fuori dalle orbite mentre mi alzavo dalla poltrona nella quale ero rimasto la notte precedente, e tutto il giorno successivo solo per evitare Sophia. E mentre io provavo ad arginare il fiume da un lato, ecco che dall’altro mi si presentava un tornado di proporzioni devastanti.
«Dove sta Misha?». Le andai incontro fissandola con severità.
«Sa dove abbiamo perso le tracce di Irina, è probabile si trovi ancora lì Aleksandr». Annuii uscendo con foga dall’ufficio, ignorando i visi che mi si presentavano davanti.
Il bosco di giorno faceva sicuramente tutt’altro effetto, ma col tramonto ormai sul finire e l’oscurità che piano piano iniziava ad incombere, mi sentivo quasi il protagonista di un film thriller. La mia vita aveva assunto svariati colori da qualche mese a quella parte in effetti, e nessuno di questi presagiva prospettive rosee. Neppure il rosso della mia passione per Sophia.
«MISHA». Iniziai a chiamarlo a gran voce arrancando tra l’erbaccia alta e i rami appuntiti. Nessun suono a parte i versi di uccelli e il fruscio delle fronde. Dove diavolo era? Sapevo bene cosa potesse significare per lui perdere Irina, era già successo una volta e il pensiero che potesse ripresentarsi la medesima situazione mi destabilizzava. Odiavo vedere Misha sofferente. Un rumore attirò la mia attenzione, tesi le orecchie seguendolo finché una sagoma accucciata vicino ad un burrone non mi bloccò. Il sangue mi si gelò nelle vene quando la riconobbi. Era stanco, sporco e con gli occhi spiritati. Lo scrollai con foga costringendolo a guardarmi.
«Misha, che cazzo fai qui». Nessuna reazione, continuava semplicemente a fissarmi. I suoi occhi improvvisamente lasciarono me per poggiarsi sull’apertura oscura a pochi metri da noi.
«Non posso credere sia lì dentro». Non riconoscevo neppure la sua voce.
«Non è lì dentro Misha. Noi la troveremo, fidati di me. Irina non è morta». Ne avevo la totale certezza? No, probabilmente quelle erano parole che servivano solo a quietare le nostre paranoie e ansie. Mi fissò sgomento alzandosi lentamente, sorretto dalle mie braccia.
«Devo ritrovarla..» sembrava incastrato in una sorta di loop mentale. Lo scrollai finché i suoi occhi non iniziarono a dar cenni di vita.
«Non è morta. E adesso andiamo, abbiamo una persona a cui chiedere». Lo sentii afferrare il lembo della mia giacca mentre in silenzio raccoglievamo i cocci dei nostri cuori, uscendo da quel tugurio per entrare direttamente nel successivo.
 
–  Shùra, io ho paura del buio. Vacci da solo a prendere il gelato in cucina.
–  Quanto sei cagasotto? E' per te che vado a prenderlo, mica sono così pazzo da mangiarlo con questo freddo. Se accendiamo la luce ci scoprono.
–  E allora come facciamo a non avere paura?
–  Veramente sei tu che.... ah, lascia stare. Tieni, afferra il bordo della mia felpa e non lasciarlo, in questo modo saprai che sono sempre insieme a te. Se cadi ti aiuto a rialzarti.
 
 
***
 
Erano passate ventiquattrore dalla scomparsa di Irina, scolai il bicchierino di vodka fissando le braci ardenti del camino. Mi tornò in mente il duemilanove, anno in cui Misha venne ferito gravemente durante un agguato. Ricordavo il tragitto in ambulanza, le mie mani completamente inzuppate del suo sangue e la disperazione vera che per la prima volta attanagliava le mie viscere. Quando arrivammo davanti l’ospedale i medici ci misero da parte portandolo in sala operatoria, uno di loro uscì un’ora dopo scuotendo il capo.
«Stiamo facendo tutto il possibile, ma preparatevi al peggio ..ha perso troppo sangue, non troviamo donatori compatibili. Non credo ce la farà». Ricordavo di aver riso come un folle in quell’occasione, mentre Sergej mi fissava attonito. Prepararsi al peggio? Non era sicuro ce l’avrebbe fatta? Chi cazzo era lui per decidere chi poteva e chi non poteva vivere? Scoprii in quell’occasione di essere un donatore compatibile e mentre travasavo il mio sangue dentro di lui, pensai: adesso si che siamo davvero fratelli.
Fratelli, famiglia, un nucleo un qualcosa di indissolubile. Il cellulare squillò in quel momento lasciando svanire i miei ricordi.
«Misha è andato a casa di Irina». Sospirai alzandomi da lì. Fratello e famiglia, questo voleva dire che mai e poi mai avrei potuto lasciarlo indietro. Lasciai invece dietro di me l’eco della voce di mio padre, e di un me bambino:
 
– Sarò un duro papà. Da grande sarò un duro.
– Non voglio che tu sia un duro.. voglio che tu sia giusto.
 
La consapevolezza di non esserci riuscito è la ferita più profonda nel mio cuore.
 

 

Mikahil POV
 

Era giunto il momento di agire e di reagire. Dopo ore passate a crogiolarmi e disperarmi tra troppi "se avessi saputo", "se avessi potuto" qualcosa nella mente fece scattare il mio meccanismo di vendetta. Quel meccanismo sadico che a molti, incluso Sergej, faceva paura per quanto imprevedibile e insensato fosse. Il pensiero di alcune vicende passate mi fece sorridere  in modo raccapricciante, ma non era quello il momento di perdersi in inutili pensieri.
L'aria quella sera era particolarmente fredda,  ricordava la mia Russia, ringraziai il Cristo in cui credevo male per il fatto che Shùra mi avesse regalato quei silenziatori per il mio compleanno. Potei fare fuori in poco tempo e sopratutto in silenzio le guardie che sostavano ai cancelli della villa in cui mi ero diretto. La schifosa villa del padre adottivo di mia sorella.
Non mi ero preparato una piantina della casa, né tanto meno potevo procurarmela eppure non ci misi molto a trovare la camera di Irina. Era proprio come l’avevo immaginata, piena di poster di quei ragazzi che le piacevano tanto, molto rosa e con poche foto della sua vita.
Nella piccola libreria in fondo al letto stazionavano quelli che sembravano essere libri per bambini, un carillon però attirò la mia attenzione. Spostandolo di pochi centimetri vidi spostarsi anche quell'ammasso di infanzia passata.
Ciò che trovai mi spiazzò, una sorta di pannello segreto in cui c'erano soltanto foto, tantissime foto. Collage di me, di Shùra, di Sophia e di lei con me nelle poche uscite fatte.
Irina sapeva. Sapeva che chiamavo altri ‘’fratello’’ e ‘’sorella’’, sapeva che per tutta la vita probabilmente l'avevo cercata e forse nel frangente sostituita da altri affetti. Sentivo  le mani andare a fuoco mentre le strappavo tutte. Una ad una, fino all'ultimo urlo di rabbia che esplose dal mio corpo.
Uno scatto quello di una pistola appena caricata mi fece rinsavire. Mi voltai, il suo patrigno era proprio lì con un sorriso soddisfatto e la pistola che mirava alla mia testa.
«Sapevo saresti venuto a cercarla, quando ci si lascia trascinare dai sentimenti va sempre a finire così». La sua risata sguaiata mi infastidì.
«Dov’è Irina?». La mia voce suonò talmente calma da stupire per primo me.
«Irina chi? Conosco solo Astrid. E Astrid è morta». Avevo la vista annebbiata e la solita rabbia di chi non pensava mai. Avevo una pistola pronta a farmi saltare le cervella, ma quando vidi Shùra dietro a colui che tentava di umiliarmi sentii la paura albergare nella stanza. Quella paura però non era la mia.
«Te lo dico in maniera gentile, approfittane finché trovi il mio animo ancora ammorbidito. Getta la pistola, e non pensare a strampalate vie di fuga, perché prima che il tuo pensiero prenda corpo avrai già l’intero caricatore addosso». L’americano impallidì al suono di quella voce perennemente calma e affabile, metteva i brividi, mentre sentiva la pistola dietro la nuca. Cominciò a sudare e io iniziai quasi a sentire la sua schifosa puzza addosso. Gettò  la pistola come un cane obbediente, Shùra la calciò via col piede facendola scivolare sul pavimento nella mia direzione. Ci guardammo per un singolo secondo: ancora una volta era dalla mia parte.
«Uccidilo». La sua voce fredda, un comando crudele prima di vederlo sparire dalla stanza.
Quando Shùra varcò la porta d'ingresso sentì probabilmente il mio sparo che rimbombò in tutta la casa, dritto al cuore di quel figlio di puttana.
Riuscii ad immaginare il sorriso soddisfatto di mio fratello e la scia di malinconia che aveva lasciato.
 
 

Sophia POV

 
Ebbi il tempo di schizzare fuori dal mio letto e dirigermi in bagno prima di svuotarmi dell’intero contenuto di una cena con Andrej. Ansimai afferrando il bordo della tazza, gli occhi socchiusi vedevano tutto sfocato. Shùra era sparito da giorni, Misha anche, e io mi ritrovavo a recitare la parte della fidanzatina sottomessa che arrossisce ad ogni complimento. Un altro fiotto di vomito mi disgustò.
E la nausea saliva. Si faceva liquido sotto le palpebre. Diventava lacrime che volevo rapprese perché non scendessero a riaccendermi il cuore, riempiendolo di speranze e disperate convinzioni.
È un incubo, un sogno, una favola, una storiella, un romanzo, un qualcosa. Vorrei fosse tutto fuorché la realtà. Vorrei continuare a vivere in questa bugia, con gli occhi chiusi e le orecchie tappate. Per sempre.

 
  
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