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Autore: Luana89    17/06/2017    1 recensioni
«Misha, sai cosa dicevano i navajo mentre camminavano in questo preciso luogo?» Sophia ci guardò come se si aspettasse una risposta, io scrollai semplicemente le spalle dando l’ennesimo tiro alla mia sigaretta. La sua voce divenne improvvisamente bassa, era l’eco di ogni mio battito. «Con la bellezza dinanzi a me avanzo. Con la bellezza dietro di me avanzo. Con la bellezza sotto di me avanzo. Con la bellezza sopra di me avanzo – l’aria si fermò improvvisamente, quasi ascoltasse anche lei – Finisce nella bellezza. Finisce nella bellezza» Sophia chiuse gli occhi come se cercasse di assaporarne meglio le parole. Misha corrugò la fronte probabilmente riflettendo sul senso di quel discorso. «E perché me lo stai dicendo?». Il silenzio ci assordò per qualche attimo.
«Sostituisci la parola ‘’bellezza’’ con ciò che ami di più, e avrai la risposta al quesito» gettai a terra la sigaretta allontanandomi da loro, mentre il mio riflesso diveniva simile ad un miraggio.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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ACT XV

 
 
Osservai la scrivania della mia camera, disordinata come sempre, un moto di rabbia attraversò il mio corpo mentre scaraventavo ogni oggetto presente lungo il pavimento con un urlo. La mia Irina era sparita da tre giorni, con Thomas morto trovarla adesso sembrava impossibile. L’unico a poterci aiutare era Clyde, l’uomo che per ultima l’aveva vista in quella strada desolata. Peccato lo avessero arrestato dodici ore prima per possesso illegale di armi, parlargli adesso sembrava impossibile. Avevo cercato Shùra, mi ero aggrappato a lui nonostante lo detestassi in quei giorni, mi aveva liquidato velocemente dicendo di non disturbarlo. Diceva di sapere già cosa fare. Diceva che dovevo fidarmi e attendere. Era vero? La mia mente era confusa dal dolore,mi sentivo ancora più nevrotico del solito mentre mi fissavo allo specchio con i miei abiti sporchi e consunti che mi ero rifiutato di togliere da quella notte nel bosco. Conservavo il cellulare di Irina, avevo frugato tra chiamate e messaggi ma nulla era saltato fuori, perché non provava a mettersi in contatto con me? Se davvero era viva come credeva mio fratello, allora perché non mi cercava? Il petto mi si strinse in una morsa che sembrò volermi uccidere. Rovistai tra le tasche cercando il mio telefono e toccai qualcosa che non ricordavo di avere, estrassi quelle bustine piene di polvere bianca sollevandole alla luce. Mandai giù il bolo di saliva continuando a guardarle ossessivamente, forse queste sarebbero riuscite a darmi la tranquillità che cercavo?
La gettai sul ripiano della cucina rompendo in due una cannuccia, non mi ero mai sfondato di merda francamente lo consideravo solo un modo idiota per uscire ancora più fuori di testa; io ero già pazzo di mio, come ricordava sempre Shùra, da tossico che diamine sarebbe rimasto di me? Nulla. Ed era il nulla che volevo mentre mi chinavo contro la superficie inalando quella polvere che sperai fosse magica sul serio.  Restai chiuso in casa per due giorni, come un morto che prova a fingersi vivo.
 
C’era la tanto voluta pace adesso?
 

 

Nadja POV

 
Qualcuno bussò alla mia porta in maniera feroce, sembrava volesse sfondarne il legno pregiato, mi gelai restando impietrita. Gli occhi corsero al comodino della mia camera, tenevo lì la pistola, sarei riuscita a prenderla prima che la porta venisse sfondata? I miei battiti si calmarono nel momento in cui il mio nome venne chiamato a gran voce con tono familiare: c’era Misha oltre quella porta. Corsi ad aprire e ciò che vidi mi lasciò più impietrita di qualsiasi possibile ex violento. Il suo corpo sembrava avere convulsioni, su di giri e tremante con gli occhi spiritati. Si gettò addosso a me e per poco non cademmo entrambi contro il freddo pavimento sotto di noi.
«La mia bellissima bionda è in casa allora». Non lo vedevo da giorni, quella mattina ero stata informata della scomparsa di Irina e adesso davanti ai miei occhi avevo la risposta alla mia domanda: come l’aveva presa Mikhail? Puzzava d’alcool a chilometri, ma c’era altro. I miei occhi da medico fissarono le sue pupille dilatate mentre camminava in cerchio dentro il tappeto del salotto.
«Mikhail.. che cosa hai fatto». Andai verso di lui che mi spinse rabbioso, gli occhi sembravano lame pronte a ferirmi.
«NON MI TOCCARE CAZZO». Alzai le braccia in segno di resa, provando a sorridergli. Aveva assunto droghe.
«Non ti tocco, promesso..». Il suo sguardo vacillò cambiando ancora, mi si gettò nuovamente addosso farfugliando delle scuse con frasi sconnesse e un tono eccitato. Quella fu la notte peggiore della mia vita.
Due ore dopo stava accucciato in un angolo della stanza, lo fissavo seduta sul divano cercando di mantenere la calma. Da quanto aveva preso a farne uso?
«Mikhail.. quando hai preso quella roba?». Provai a modulare la voce ma lui non sembrò sentirmi. Scattò in avanti allungando una mano come a voler afferrare qualcuno.
«IRINA VIENI QUI. DOVE CAZZO SEI STATA, EH?». Mi alzai issandolo con le poche forze che avevo per trascinarlo sul divano, non oppose resistenza. Il suo umore era nuovamente cambiato, sembrava spaventato adesso mentre tremava abbracciato a me. Gli accarezzai i capelli scendendo sul collo, approfittando di quel momento per sentire le pulsazioni che notai fossero ancora veloci.
«L’ho vista morire, capisci? La stavano sezionando Nadja. Era .. in un lettino di metallo, c’era un uomo con un coltello ..NO». Si alzò in preda alle allucinazioni iniziando a colpire le pareti. Tornai da lui provando a calmarlo mentre la notte lasciava il posto all’alba e solo quando i primi raggi baciarono il letto lo vidi addormentarsi.
Afferrai il telefono componendo un numero.
 
– Nadja sono occupato al momento.
– Aleksandr, Mikhail non sta bene..
– Lo so. Credi non lo sappia? Non dormo né mangio da quasi due giorni per cercare Irina.
– Non intendo questo..
– Gli ho già detto di stare tranquillo, credo che tra qualche giorno riuscirò ad avere un permesso per la prigione. Troverò Irina.
 
Non riuscii a dirgli nulla e probabilmente commisi un gravissimo errore. Temevo di mettere ancor più nei guai Mikhail facendo la spia, temevo la reazione di Aleksandr se avesse saputo. Ma in qualche modo dovevo porre rimedio.
Si svegliò nel primo pomeriggio, i suoi occhi assonnati si spalancarono di colpo, sgusciò fuori dal letto e lo sentii vomitare per mezzora chiuso in bagno. Quando riapparve il viso livido e le occhiaie mi strinsero il cuore.
«Cosa hai fatto Mikhail..» mi fissò triste e quasi imbarazzato.
«Nulla. Non ricapiterà più, quindi per favore.. non dire niente a lui». Mentre sentivo la porta chiudersi ero consapevole delle sue bugie, lo ero eppure tenni fede alla mia parola. Provai a dargli fiducia, ma si sa .. la fiducia è qualcosa di estremamente relativo alle volte.
 

 

Aleksandr POV

 
Mi ostinavo a non guardare le nostre vite colare a picco, potevo affrontare un solo problema alla volta e al momento Irina deteneva la mia priorità assoluta. Ero convinto non fosse morta, nonostante le ultime parole di quel bastardo lasciassero presupporre fosse in decomposizione da qualche parte, io ero certo che loro non l’avessero ritrovata quella notte. Dovevo solo averne la conferma, e quella poteva darmela solo Clyde chiuso in prigione. Avevo smosso mari e monti, gettato soldi come fossero caramelle e alla fine sembravo esserci riuscito: quel pomeriggio sarei riuscito a parlarci per un colloquio informale, passando come un parente lontano dell’uomo.
Stavo varcando la hall dell’agenzia ma una voce bloccò i miei passi, la stessa che non aveva smesso di battere nel mio cervello. Sophia era sempre stata lì, nonostante tornassi poco a casa, nonostante non la cercassi né sentissi, lei era sempre lì. Niente poteva sradicarla dal mio cuore né dalla mente. Mi voltai e ciò che vidi mi mozzò il respiro: era pallida, aveva occhiaie appena pronunciate sotto gli occhi e mi sentii ancora più mostruoso di quanto già non fossi di mio. Che le stavo facendo?
«Stai andando a pranzo?». La sua voce era dura ma calma, annuii mio malgrado senza riuscire a spiccicare parola per i primi minuti.
«Pure tu?». Non trovai di meglio da dire mentre la vedevo annuire ed indicare la grande porta all’ingresso. Lì parato e fermo c’era Andrej.
«Pranza con noi, Aleksandr». Sentii la cattiveria in quelle semplici parole, e sorrisi. Sorrisi perché non c’era altro da fare, sorrisi per nascondere la morte dal mio cuore mentre i caldi raggi del sole pomeridiano non riuscivano a scongelare i miei arti intorpiditi.
 
«Sophia è una ragazza brillante» era da circa mezzora che Andrej ne tesseva le lodi, mi era chiaro il concetto ma evidentemente lui non sembrava capirlo.
«Quello brillante qui sei tu, Shùra sai che Andrej ha una laurea in ingegneria?». Sorrisi ambiguamente, mi chiedevo se non l’avesse comprata con i punti della benzina visto il soggetto.
«Il cinema per stasera è confermato?». Cercai di non ridere esasperato bevendo dell’acqua, mi aveva invitato solo per ignorarmi quindi? Tipico di lei dar vita a piani così infantili, che purtroppo però raggiungevano il loro scopo. Era difficile liberarsi dalle sue trappole, o semplicemente ero troppo debole per farlo. Continuavo a fissare i suoi occhi spenti e il colorito pallido, stava male per causa mia?
«Shùra non sa cosa sia l’amore, al liceo tutte gli andavano dietro ma lui le scartava e rifiutava freddamente». Sollevai il capo ammonendola con un’occhiata, quindi voleva giocare così?
«Le rifiutavo tutte perché ero già cotto di un’altra». Sorrisi con espressione dura, e lei si zittì. Andrej sembrò non notarlo mentre continuava a gustarsi il suo gelato.
«Sophia ha sempre poco tempo per le nostre uscite a causa del suo lavoro». La sua voce sconsolata mi fece quasi vomitare. Avevo sentito Sergej giusto la sera prima, quale modo migliore per annunciare il suo ennesimo comando? Adesso comunque avevo la conferma ai miei sospetti: era stato quell’infame di Andrej a proporlo.
«Penso che il problema verrà risolto presto, ci saranno tagli consistenti al personale che verranno fatti tra qualche giorno. Credo Sophia vi faccia parte». La vidi trasalire e fissarmi sbigottita, non ci poteva credere e neanche io a dirla tutta. Gettai il tovagliolo sul tavolo alzandomi.
«Vai già via?» Andrej si alzò pronto a stringermi la mano, io lo ignorai continuando a fissare Sophia.
«Si, ho molto lavoro. Non dormo da giorni a causa di questo». La vidi abbassare lo sguardo mortificata e allo stesso tempo delusa ancora una volta da me e dalle mie scelte, voltai loro le spalle pagando il conto per poi andar via.
 
 
La prigione non era un luogo che mi apprestavo a visitare spesso, né contavo di soggiornarvi nei miei futuri anni. Mentre ne varcavo le porte mi ritrovai a pensare a Yuri, ancora una volta c’era lui nei miei pensieri, era stato arrestato durante una retata e a distanza di anni nessuno riusciva a capire chi potesse aver fatto la spia. Era rimasto comunque stoicamente in silenzio mentre la polizia investigava, dalla sua bocca il nome di Sergej non uscì mai nonostante gli venisse citato ad ogni interrogatorio; eppure il fratello lo aveva ripagato con la morte.
«Avete mezzora». La guardia aprì la porta e io scorsi l’uomo seduto e ammanettato.
«Credo ci metterò anche meno». Sorrisi affabile entrando, aspettando che fossimo soli per poi accomodarmi di fronte a lui.
«Chi diavolo sei tu? Non ho nessun cugino io». Assottigliò lo sguardo e io mi sporsi verso di lui.
«Secondo te?». La mia cadenza russa gli fece capire chi fossi immediatamente, sorrise arcigno poggiandosi comodamente alla sedia.
«Non ho un cazzo da dirti, figlio di puttana». Immaginavo più o meno una risposta simile, quindi mi sporsi poggiando i gomiti sul tavolo e mi accinsi a distruggerlo. Pezzo dopo pezzo.
«Sono qui perché ho una storia da raccontarti.. La storia di Irina, una ragazza scomparsa misteriosamente, vuoi sentirla?». Lo vidi sorridermi, si credeva furbo.
«Questa storia.. la conosco già». Stavolta sorrisi io scrollando appena le spalle.
«Ne sei sicuro? Il finale potrebbe stupirti più di quanto pensi». Il seme del dubbio si insinuò in lui.
«Cosa stai dicendo». Restai in silenzio qualche istante, come a voler ponderare le mie stesse parole.
«Tuo figlio .. era molto giovane. Ma lo era anche Irina in fondo, e lo sai molto bene». I suoi occhi si affilarono, e la paura passò come un lampo sul viso pietrificato fino a quel momento. Si sporse verso di me ma lo bloccai.
«Prima che una singola parola esca dalla tua bocca, ti consiglio di dirmi tutta la verità. C’è poco da fare ormai». Lo fissai in maniera calma, quasi serena.
«Chi cazzo sei tu..». il suo tono cambiò improvvisamente.
«Sono il tuo incubo. Non sai neppure questo?». Sussurrai quelle parole e i nostri visi divennero ancora più vicini.
«Dimmi dove cazzo si trova Irina, figlio di puttana. Se non lo avessi ancora capito, chiedere adesso clemenza è tempo sprecato. Ciò che hai fatto è ricaduto sulle spalle di innocenti, e posso assicurarti che soffrirai come un cane per questo.  Ma nonostante ciò ..NON SCIOGLI LA TUA LINGUA, BASTARDO? – il pugno della mia mano sbatté con forza sul tavolo, mi ricomposi quasi subito puntandogli contro il dito, sorridendo – Vuoi sapere come ho ucciso tuo figlio?». Mi fissò con occhi lucidi ridendo.
«Pensi io ti creda? Thomas lo proteggerebbe a qualsiasi costo». Stavolta toccò a me ridere.
«Come tu hai strappato la vita di Irina, così ho fatto io con quella del tuo giovane figlio. Violentemente». Il suo viso si pietrificò.
«Non ti credo..» lo vidi tentennare, suppongo l’animo umano si aggrappi spesso alle speranze inutili.
«Chi scava una fossa vi cadrà dentro e chi rotola una pietra, gli ricadrà addosso. E’ un versetto della bibbia, gliel’ho recitato mentre lo facevo a pezzi. Tra urla e lacrime .. ma probabilmente non credi neanche a questo, vero?». Rise in maniera affannata.
«Tu sei solo un pazzo bastardo». Annuii rovistando nella tasca interna della mia giacca, estrassi un pezzo di carta che gli passai. Lo vidi scorrerla con occhi tremanti e angosciati, finché non lesse un nome. Ciò che gli avevo appena dato non era altro che il certificato di morte del figlio.
«Fammi vedere come soffri adesso bastardo, ho proprio voglia di godere oggi». Incrociai le braccia al petto ascoltando le urla e i singhiozzi disperati di quell’uomo.
«Mio figlio..il mio bambino..COME HAI POTUTO».  Questo è il senso del vivere ragionevolmente la propria esistenza: non fare mai agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. L’uomo in se è bizzarro, commette ogni genere di atrocità senza il minimo guizzo di pietà, ma quando la stessa lama si abbatte su di lui ..ecco che si risvegliano umanità e sentimenti. 
 
– Sono appena uscito dalla prigione, dove sei?
– Irina?
– Era come pensavo, Irina non è morta. Né lui né quel bastardo di Thomas Jensen sapevano dove fosse.
– Che vuoi dire?
– Che Irina è fuggita Misha, è riuscita a scappare. La ritroveremo sana e salva.
– Quel ragazzo ..lo hai ucciso davvero?
– Tu che ne pensi?
– Penso tu non l’abbia fatto. Non tocchi i bambini, sei cambiato ma non fino a questo punto.
 
 
Cercammo Irina senza sosta, ma sembrava essersi volatilizzata. Personalmente ero convinto fosse una sua scelta quella di non rendersi reperibile, probabilmente pensava che il patrigno fosse ancora vivo e pronto a catturarla,ma non ci arrendemmo. Avremmo continuato a cercare fino a che la sua figura non sarebbe riapparsa nelle nostre vite, e in quella di Misha che lentamente sembrava andare allo sbaraglio senza che io me ne rendessi conto. Almeno finché le voci dei suoi atteggiamenti bizzarri non arrivarono a me.
Lo vedevano cambiato, aggressivo e perennemente eccitato da qualsiasi cosa. Ammazzava gente anche senza che gli venisse richiesto durante i nostri lavori, bastava una singola parola messa male per farlo scattare. Più ci riflettevo e più mi rendevo conto che qualcosa non andava, ma cosa? I miei sospetti non fecero altro che aumentare, semplicemente non riuscivo a catalogarli. O forse non volevo. Non volevo avere la conferma dei miei sospetti, non volevo credere si fosse sul serio lasciato distruggere con i metodi che io per primo avevo sempre condannato. Gli avevo insegnato a compiere ogni genere di atrocità, ma anche a comportarsi alla stregua di un essere umano, a sopportare i dolori strenuamente senza lasciarsi piegare. Mi resi conto mentre varcavo la porta della sua casa di non esserci probabilmente riuscito. La puzza in quell’appartamento mi soffocava, da quanto non permetteva alla cameriera di pulire e riordinare?
«Misha?». Lo chiamai a gran voce ma nessuno rispose al mio appello. In fondo ero entrato di soppiatto nel suo appartamento proprio per quel motivo, io non volevo vedere lui: volevo cercare le prove dei miei sospetti. Era passato quasi un mese dalla scomparsa di Irina, e per quanto potesse essere sconvolto nulla giustificava quegli strani atteggiamenti.
Entrai nella sua camera, era silenziosa e buia, aprii le tapparelle lasciando circolare l'aria; da quanto non lavava anche lì? La puzza di stantio impregnava ogni mobile, ogni tessuto lì dentro, mi tappai le narici andando verso l'uscita ma qualcosa bloccò i miei passi. Guardai la scrivania assottigliando lo sguardo, il sole filtrando metteva in evidenza la polvere (Da quando la polvere è così fottutamente bianca?), mi avvicinai con passo malfermo ma la mano non tremò quando con il mignolo raccolsi un po' di quella sostanza portandomela alle labbra; l'assaggiai con la punta della lingua allargando appena le narici. Cocaina.
 Il fiume inarrestabile ruppe la diga. I pezzi del puzzle si incendiarono senza lasciare la minima traccia. Vidi la fine, vidi il fallimento e vidi Misha. Mikhail morto. Urlai a gran voce il suo nome, probabilmente persino Sergej da Mosca lo aveva sentito. Uscii come un tornado dalla stanza pronto a scovarlo in qualsiasi fogna si fosse rintanato ma andai a sbattere proprio contro il soggetto interessato. Era tornato quindi? Lo scrutai a fondo, aveva le occhiaie, sembrava stanco e tremava appena, gli occhi lucidi e quel fastidioso modo di tirare su col naso.
«Che cazzo ci fai nella mia stanza?» era nervoso e guardingo.
«Ricordi cosa ti dissi tempo fa vero?» mi avvicinai vedendolo arretrare.
«.. Cosa?» La voce di Misha vacillò, che avesse percepito la mia rabbia letale?
«Ti avevo detto che solo io avrei avuto il piacere di ammazzarti, e lo farò. Adesso». Non gli diedi neppure il tempo di replicare, caricai il peso sulla testa schiantandola contro il suo naso, lo vidi barcollare indietro. Il sangue iniziò ad uscire abbondante, lo guardai come se lo vedessi per la prima volta e fu lì che capì di essere stato beccato.
«Ti ho chiesto solo di non essere un coglione – un  calcio dritto sullo stomaco seguì quelle parole. Misha cadde e non si rialzò – ti  ho chiesto di avere cura di te mentre io mi facevo il culo per risolvere i fottuti casini al posto tuo». L'ennesimo calcio al basso ventre sferrato con forza, quasi cattiveria.
«TI HO CHIESTO DI DIVENTARE UN FOTTUTO ESSERE UMANO». La mia mano andò a serrarsi tra i suoi capelli iniziando a sbattergli la testa contro il muro, volevo sul serio ucciderlo. Continuava a non reagire, non ci provava neppure perché forse aspettava quel momento. Era convinto da sempre che con me riuscisse ad arrivare la pace, la consapevolezza e con essa la fine che tanto agognava da una vita. Lo vidi chiudere gli occhi stringendo i denti senza emettere il minimo lamento, lasciando che le mie parole lo colpissero più dei pugni. Era un paradosso, ma quella violenza era solo un modo per fargli capire che qualcuno lo amava. Ansimai di rabbia, sferravo calci uno dopo l'altro e mi fermai solo quando mi sembrò abbastanza.
«Oggi muori». Corsi nella sua stanza, il sangue gli colava dalla fronte, dal naso e dalle labbra ma lui continuava a non muoversi. Uscii con una delle sue pistole tra le mani, gliela poggiai sulla tempia lasciando che sentisse il gelo dell'acciaio.
«Tu vuoi morire no? Lo dici sempre, e adesso sto poggiando contro di te un'arma così verrai accontentato. Ripeto, vuoi morire? BENE CAZZO, MUORI ADESSO PAZZO BASTARDO» per la prima volta si mosse e mi guardò, le dita tremanti circondarono la canna della pistola fredda come le sue mani, la strinse singhiozzando.
«Ammazzami ti prego. Ammazzami perché non vedo la fine della sofferenza, ho fallito in tutto, ammazzami adesso prima di diventare ancora più feccia di quanto io già non sia». Iniziò a piangere e la sua voce sembrò rompersi come il cristallo gettato a terra. Lasciai fuoriuscire l'aria che avevo trattenuto tornando a respirare, gettando la pistola sul pavimento per accasciarmi contro il muro. Lo afferrai per il bordo della maglia avvicinandolo e abbracciandolo. Lo strinsi come in Russia da bambini. Continuavo a ripetergli ''Sssst, ssst'' e non seppi dire se tranquillizzassi lui o me stesso in quel momento. La fine era arrivata inesorabile, ma essa portò con se un barlume di pace in quella landa desolata che era la nostra vita adesso. Solo per cinque minuti.
 
Poi tornò la guerra.
 

 

Sophia POV

 
– Aleksandr è in un ufficio?
– Sophia! Ho saputo.. mi dispiace davvero tanto.
– Ma figurati, sono cose che capitano! Beh, allora, è in ufficio o no? Devo portargli qualche foglio e prendere delle cose che ho lasciato dentro.
– No, mi dispiace ma è fuori credo sia con Misha. Se vuoi puoi lasciarmi i fogli, a quelli ci penso io.
– No, no, molto gentile da parte tua ma preferisco far da sola.. posso vero?
– Non saprei, lo sai anche tu che non può entrare chiunque..
– .. Ti sembro chiunque?
– Sophia non puoi entrare, sul serio.
– Va bene, lo aspetterò qui allora.
 
Avrebbe dovuto intuire, ma non lo fece. Mi fissava di tanto in tanto finché qualcuno non la chiamò. La fissai serenamente dondolando le gambe e quando la vidi sparire lungo il corridoio i miei piedi si mossero veloci entrando nell’ufficio.
Un sorriso gentile, tanta calma in apparenza ed un tono pacato; non sono mai stata brava con le bugie, eppure questa volta mi sarei meritata un bel premio per la recitazione. Se mi sentivo in colpa? Un pochino, forse, ma nel peggiore dei casi sarei finita col dire tutto quanto a Shùra scusandomi dell’irruzione nel suo ufficio. A dire il vero in quel momento le scuse erano l’ultimo dei miei problemi. Non rientrava a casa da diversi giorni ed ormai non lo vedevo neanche più; da vero uomo aveva persino trovato il coraggio di licenziarmi per messaggio, come se la forza per dirmi certe cose in faccia fosse venuta a mancare all’improvviso. E lui che si vantava così tanto del suo cuor da leone e della sua sfrontatezza. Ovviamente fece il tutto senza lasciar nemmeno una spiegazione valida, a parte la stronzata del ‘’taglio di personale’’. E se le risposte non venivano da sé, beh, sarebbe stata Sophia ad andar da loro.
L’ufficio odorava di pulito. Sull’immensa scrivania non c’era neanche un granello di polvere. Tutto era perfettamente in ordine, tutto era così tipico di lui. Mi guardai in giro per qualche secondo, come se le risposte che cercavo fossero attaccate ed incorniciate sulle pareti sobrie ed eleganti, poi sospirai profondamente. Non sapevo neanche io cosa stessi cercando esattamente, ma ormai che c’ero tanto valeva approfittarne al massimo. Mi sedetti sulla poltroncina in pelle, quella che “se ti siedi su quella sedia ti licenzio seduta stante”, parole sue, e posai le mani sulla superficie liscia e pulita, pronta a farmi gli affari altrui – un po’ come al solito.
Aspettai diversi minuti con la vana speranza di vederlo tornare e poter discutere con lui da persona “civile”, il ché implicava una gran forza di volontà da parte mia. La convinzione che mi stesse scaricando così, senza un motivo valido, banalizzando tutte le promesse che mi erano state fatte non mi rendeva di certo tranquilla e serena. Aspettai, sì, cinque minuti esatti e poi la mia pazienza si esaurì. Davanti a me il computer, quindi tutto quello di cui avevo bisogno. La prima cosa che mi chiese fu la password ed in quel momento non seppi se ridere o piangere; 28012003. 28 gennaio 2003, la morte di suo padre.
Una decina di cartelle macchiavano lo sfondo monocromatico e rigorosamente blu scuro del computer. Nessuna possedeva un nome particolare, ad eccezione di quella che attirò la mia attenzione: Семья, famiglia. Con un nome del genere mi aspettavo vecchie foto in bianco e nero passate allo scanner, qualche immagine con suo padre, magari il volto della madre, le nostre foto d’infanzia, Misha, papà, lo zio Yuri, la tata e così via. Ma non trovai nulla di tutto ciò. Non c’era nessuna foto, nessun ricordo felice, nessuna memoria malinconica; solamente tanti documenti, uno più strano dell’altro. C’erano nomi di donne, tabelle piene di numeri, “ore di servizio” per la precisione e “quote da versare a fine serata”. Altri documenti dicevano “armi”, “progetto in corso” ed alcuni erano persino in lingue che neanche comprendevo. Un nome solleticò però la mia memoria, ovvero: Bratva. Persino una povera idiota come me sapeva cosa fosse la mafia. La Russia ne era assurdamente prostrata, gente che veniva chiamata Vor o Imprenditore, spadroneggiava senza mai venir punita. Perché quel nome si ripeteva così spesso?
Passai alle mail con la speranza di capirci qualcosina di più; nella lista dei mittenti c’era quasi sempre il nome di mio padre: Syergyej Mihajlov 'Mikhas.
 
24 sᴇᴛᴛᴇᴍʙʀᴇ 2016.
— Occupati di Yuri e dì a Misha di sbarazzarsi del suo corpo. Sai già come fare con i membri della Famiglia. Non scordarti di Sophia. Conto su di te. La Bratva conta su di te, Shùra.

 
La bolla dove crebbi, che racchiudeva in sé un mondo utopico così perfettamente progettato, scoppiò lasciandomi priva d’ogni riparo. Le mie certezze scomparvero tutte, dalla prima all’ultima, rimpiazzate solamente da dubbi. Tutte le verità divennero copioni recitati alla perfezione, tutte le persone che stimavo o che, ancor peggio, amavo non erano altro che attori in quella vita così non mia. Quella era una commedia degna del drammaturgo Molière! Gli attori erano così bravi, così naturali e semplicemente perfetti che non sapevo più se stessi vivendo in una realtà o se fossi la protagonista – quella bigotta e stupida, ovviamente! – immedesimata sul palcoscenico dell’Opera di Mosca. Che siano diventati un tutt’uno con la loro maschera?
Shùra non era Shùra, Misha non era Misha e mio padre.. Mio padre, già, chi era? Chi erano? Chi ero?
Il respiro venne a mancare, la gola si seccò e le gambe rifiutarono di restare al loro posto. Mi alzai. Provai a respirare a pieni polmoni. Mi rifiutai di credere alla realtà dei fatti, scritta nero su bianco. Cacciai a forza ogni lacrima e provai a trovare una spiegazione logica a tutto ciò. “C’è sempre una spiegazione logica a tutto quanto”, continuavo a ripetermi convinta più che mai.
La verità è che le “spiegazioni logiche” erano proprio quelle che non volevo sapere.
La verità è che tutto quel che per me era fondamentale non era altro che un cumulo di merda nauseabonda.
La verità è che per anni mi ero rifiutata di aprire gli occhi.
A distogliere la mia attenzione ci pensò quel dolore all’addome appena accennato, un fastidio leggero ed inopportuno che inspiegabilmente mi turbò. Avvertii una sensazione di calore scorrere lungo le gambe, dall’altro verso il basso, accompagnata da uno strano senso di vuoto. Solleticava. Mi sfiorai la coscia ed il dito s’inumidì macchiandosi di un rosso cremisi così acceso e vivo da farmi venire il voltastomaco. Spensi quel dannato computer e mi poggiai nuovamente sulla sedia, pallida più che mai. Qualsiasi cosa avessi in quel momento rifiutava di fermarsi. La macchia di sangue continuava a diventare sempre più vasta ed il tessuto dei jeans sempre più intriso di quel liquido dall’odore acre. Il gusto acido del vomito invadeva il mio palato.
Effettuai una sola chiamata col poco fiato rimasto in gola.
«Aleksandr, credo di non stare bene » dissi. Poi buttai tutto fuori, come un fiume in piena.
Vomitavo disgustata da me stessa,
dagli altri,
da tutto quanto.

 

 

Aleksandr POV

 
Misha seduto sul divano continuava a tamponarsi le ferite che io stesso gli avevo procurato. Non mi sentivo sicuramente in colpa mentre fissavo lo zigomo lacerato, gonfio e adesso violaceo venir pressato dal ghiaccio.
«La prossima volta spaccami direttamente la faccia e facciamo prima». La sua voce appena strascicata mi fece ridere.
«Non ci sarà una prossima volta Misha ..la prossima coinciderà con la tua morte». La sua smorfia e il mio sorriso coincisero con lo squillo del mio cellulare. Mi alzai rovistando nelle tasche della giacca, fissai il nome di Sophia e per un secondo tentennai. Non so cosa mi portò a rispondere sinceramente, ma quando lo feci la vita nel mio corpo sembrò risucchiarsi totalmente al suono di quella voce flebile. Rimisi giù correndo verso l’ingresso.
«DOVE CAZZO VAI?» Misha si sporse allarmato, mi bloccai ansante.
«Non è successo nulla, Sophia ha un po’di febbre credo, torna a riposare». Perché non glielo dissi? I miei pessimi presentimenti sembrarono tapparmi la bocca rendendomi improvvisamente omertoso. Afferrai il cellulare chiamando Nadja.
«Sophia sta male. Vieni immediatamente»
 
 
Emergere da un abisso e rientrarci: questa è la vita.
 
 
  
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