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Autore: Adeia Di Elferas    20/06/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il cancelliere Cardella chiuse il discorso con una scrollata di spalle e solo quando vide lo sguardo concentrato del fiorentino ebbe il dubbio di aver parlato a sproposito.

Colpa il caldo, colpa la stanchezza dovuta alla malattia appena passata, colpa l'aspetto rassicurante dell'ambasciatore, Cardella aveva risposto alle sue domande senza chiedersi se fosse o meno lecito farlo.

“Sia chiaro – aggiunse l'uomo, asciugandosi la fronte con il dorso della mano – questi sono affari della Contessa e non...”

“Certo, certo...” si affrettò a dire Giovanni, che infatti non aveva alcuna intenzione di far riferimento a quel fatto nella sua lettera, già pronta per essere inviata a Lorenzo: “Anzi, perdonate la mia curiosità, è che quando ho sentito dei problemi con i contadini, ho subito pensato a quando accadde una cosa simile nelle campagna di Firenze...”

Il cancelliere fece allora un sorrisetto di circostanza e poi di scusò con il Medici e andò per la sua strada.

Il fiorentino aveva voluto sapere tutto il possibile sulla questione dei Cavalcanti che pareva angustiare così tanto la Tigre. E Cardella, con una facilità sorprendente, aveva vuotato il sacco, spiegando come i riscossori dei tributi si fossero nel tempo macchiati di molti crimini, diventando autori di inutili soprusi e prevaricazioni.

Gli aveva anche detto che in prima istanza la Contessa aveva pensato di sostituire i Cavalcanti, ma ovviamente il problema si sarebbe riproposto, perché dopo poco ogni uomo sembrava trasformarsi in un rapace, quando veniva investito di quella carica.

Meditando su quello che si sarebbe potuto fare per risolvere la questione, il Popolano percorse quasi per intero il perimetro interno della rocca. Quell'andatura lenta e costante sembrava un toccasana per le sue povere articolazioni e gli conciliava i ragionamenti.

Fuori il vento continuava a soffiare con forza, mentre la sera si tingeva di scuro. Quando fu stanco di camminare, Giovanni rientrò nella sua camera e vi si chiuse dentro, convinto che una soluzione esistesse e fosse lì a portata di mano.

 

Caterina teneva gli occhi puntati sulla fiala con dentro la sua pozione a far dormire.

Aveva fatto rassettare la sua stanza e aveva fatto cambiare l'aria. Eppure non riusciva né a prendere sonno né a distrarsi con la lettura.

La tentazione di prendere o fare qualcosa che la stordisse, come faceva ormai praticamente ogni notte da quasi un anno, era fortissima, ma non voleva più arrendervisi.

Che senso avrebbe avuto? Giacomo era morto e così sua sorella Bianca con la sua bambina, sua madre Lucrezia e suo figlio Livio.

Aveva davvero senso provare a non pensarci?

Respirando lentamente, Caterina si stese nel mezzo del letto, gli occhi chiusi e le mani intrecciate sull'addome.

Non voleva bere altro vino. Non voleva né annusare né sorbire la sua pozione. Non voleva nemmeno la compagnia di un uomo.

Anche se il suo corpo stava reclamando con forza tutte e tre le cose, la sua mente riusciva a tenere a bada i sensi, anche se a un prezzo molto alto.

La finestra era socchiusa e vi entrava un pungente sentore d'estate. Era sempre meglio del tanfo della pestilenza e dei cadaveri che aleggiava pressoché in tutti gli altri ambienti di Ravaldino.

A un certo punto, mentre la Tigre era ancora intenta ad ammonirsi da sola per i propri aneliti, un improvviso odore di pioggia le fece spalancare gli occhi.

Saltando giù dal letto come una molla, Caterina raggiunse la finestra appena in tempo per vedere il primo lampo dividere in due il cielo nero e sentire il primo rombante tuono. Nel giro di mezzo minuto, Forlì fu sferzata da una pioggia battente e violenta.

Tornando a respirare, come se fosse riemersa dai fondali marini, la Contessa restò al davanzale a lungo a fissare il cielo scuro che riversava sulla sua terra una quantità d'acqua sufficiente a riempire il letto di dieci fiumi.

A distoglierla da quell'ipnotica visione fu il suono ripetitivo e sordo del bussare. Voltando di malavoglia le spalle alla finestra, la Tigre andò a vedere di chi si trattasse.

Senza perdere tempo a chiedere a voce l'identità del visitatore, la donna spalancò la porta e si trovò davanti l'ambasciatore di Firenze.

L'uomo, con ancora indosso gli abiti di quel giorno e coi ricci tutti spettinati, portava in mano una candela che gli illuminava il volto stanco, ma la sua espressione, anche con quella fioca luce, pareva entusiasta.

Proprio mentre il rombo di un tuono assordava Forlì, Giovanni esclamò: “Ho la soluzione per la storia dei Cavalcanti!”

La Contessa trovò quell'affermazione tanto assurda, detta a quell'ora e da un fiorentino conciato in quello stato, che per poco non scoppiò a ridere.

Tuttavia si trattenne e, facendosi seria, domandò: “E che ne sapete voi, della questione dei Cavalcanti?”

“Il vostro cancelliere mi ha spiegato tutto. Ah, a proposito – fece il Popolano, a mo' d'inciso – fossi in voi gli farei un bel discorso in merito alla segretezza degli affari di Stato.”

Caterina non poté evitare di sentirsi un po' confusa da quella situazione. E anche un po' infastidita.

Benché negli occhi chiari dell'ambasciatore brillasse quella che pareva semplice buona volontà, alla Contessa quell'ennesimo tentativo di intrusione, per quanto in buonafede, parve solo un modo di prevaricarla.

Era anche vero, però, che quella faccenda era da sistemare e che ogni consiglio doveva per forza di cose essere ben accetto.

Perciò pensò che ascoltare le parole del Medici non sarebbe certo stato un errore, e che, al massimo, lo avrebbe rimesso al suo posto in un secondo momento.

“Entrate e parliamone con calma.” propose a quel punto la Tigre, facendosi da parte e permettendo al toscano di passare.

Giovanni si mosse con leggerezza, cercando di limitare gli sguardi incuriositi. Non era mai stato negli alloggi della Contessa. Ora che poteva vedere coi suoi occhi, però, il tutto gli parve molto impersonale, come se quella fosse più una camera d'appoggio che non una dimora definitiva.

“Ditemi quello che pensate.” lo invogliò Caterina, mentre un lampo illuminava il fiorentino, mettendone in risalto il profilo asciutto.

“Vendete ai contadini lo stesso tributo del danno dato – iniziò Giovanni, usando gli stessi termini tecnici che aveva imparato poche ore prima da Cardella – allo stesso prezzo che la vostra Camera incassa ogni anno. Sopprimete la figura dei Cavalcanti una volte per tutte. Invece di riscuotere le tasse per tramite loro, appaltate la cosa direttamente ai contadini, che riscuoteranno la cifra per comprare ogni anno il tributo.”

“Così rischiamo, però, di non riscuotere la stessa cifra che i Cavalcanti ci assicurano.” controbatté Caterina, mentre si trovava a pensare che una trovata simile sarebbe dovuta venire in mente a lei, e molto prima.

“Anche se ci fosse un piccolo ammanco, evitereste le tensioni e gli scontri che ci sono adesso nelle campagne.” spiegò Giovanni, che aveva appoggiato la candela sulla scrivania e si era messo davanti alla Contessa in modo da poterla guardare bene direttamente in viso, per leggerne le reazioni: “In più, un contadino che non si sente oppresso come una pecora dal cane da gregge, lavora meglio e paga più volentieri.”

“In pratica sarebbe come illuderli di non avere più il giogo dello Stato, ma di fatto costringerli ugualmente a versare i tributi.” parafrasò la Tigre, mentre la validità di quel piano si faceva sempre più evidente.

Il Popolano sollevò un sopracciglio e mostrò i palmi delle mani: “Detta così suona come una cosa sleale, ma sappiamo che per governare bisogna fare anche cose come questa.”

Caterina annuì lentamente. La pioggia che scrosciava oltre la finestra scorreva rapida come aveva cominciato a battere in fretta il suo cuore. Quella nuova prospettiva la stava facendo sentire leggera.

Il temporale avrebbe aiutato a spazzare via l'epidemia e Giovanni le aveva dato la soluzione a uno dei due grandi problemi che stavano affliggendo il suo Stato in quelle settimane.

Per qualche secondo, la Contessa riuscì perfino a dimenticare il proprio dolore.

Sollevando gli occhi verdi verso quelli del Medici, Caterina sorrise e fu sul punto di ringraziarlo con lo stesso entusiasmo con cui lui si era presentato nella sua camera, ma quando provò a parlare, la voce le morì in gola.

C'era qualcosa di strano nel modo in cui Giovanni la fissava. Teneva le labbra socchiuse e anche alla pallida luce delle candele si poteva vedere un forte rossore che gli saliva sul collo fino al centro delle guance.

Smossa dal turbinio delle emozioni contrastanti che le si agitavano nell'anima, la Tigre sentì il bisogno di colmare la distanza tra loro.

Fece quel mezzo passo che bastava per sfiorarsi, ma, proprio mentre stava per fare qualcosa di più, un tuono rabbioso la riportò indietro negli anni, mostrandole una scena a cui si era sforzata di non ripensare più, per non soffrire più del necessario.

Rivedendosi davanti agli occhi Giacomo, appena diciassettenne e fradicio di pioggia, bellissimo e ancora da scoprire, Caterina fece due passi indietro, vanificando il suo precedente avvicinamento, anzi, andando ad aumentare la distanza tra sé e Giovanni.

Il fiorentino non fece e non disse nulla, malgrado fosse chiaro che si fosse accorto del cambiamento repentino d'idea della Contessa.

La Tigre si morse le labbra. Stava ripensando alla prima volta in cui aveva baciato Giacomo. Anche quella notte c'erano stati tuoni, fulmini e pioggia.

Era stata la prima volta in cui aveva capito cosa significasse desiderare così tanto qualcuno da non curarsi più di nulla, dimenticandosi di tutto il resto, fino a diventare così irresponsabili da agire senza pensare alle conseguenze.

Ora, a distanza di anni, le stava quasi per capitare la stessa cosa.

Scuotendo il capo, Caterina si spostò ancora un po', facendo finta di voler andare a chiudere la finestra.

Giovanni sospirò, lasciandola fare e cercò di rimettere a tacere ciò che gli gorgogliava nel petto. Ci aveva quasi sperato. Per un glorioso istante gli era parso che la Contessa stesse per...

Ma poi non era successo nulla.

“Vi ringrazio per il vostro consiglio.” fece la Tigre, con un sorriso affettato: “Ci penserò sopra.” e gli indicò la porta con la mano.

Il Popolano ricambiò il sorriso con un po' di tristezza e, accompagnato dal suono invadente e prepotente della pioggia, batté in ritirata.

Caterina inspirò con forza, appoggiandosi alla porta chiusa. Attese che le immagini di Giacomo sparissero di nuovo dalla sua mente e invece, più provava a scacciarle, più quelle si ripresentavano, vivide e presenti, proprio come se suo marito fosse di nuovo lì con lei.

Risentì il suo sapore e il calore della sua pelle. Il panico unito alla felicità pura che aveva provato quando le loro labbra si erano sfiorate la prima volta.

Con il respiro accelerato, la Contessa si sentì una sciocca a pensare a quelle cose quando da poco aveva perso un figlio e una madre. Però non poteva evitarlo.

Prendendo un mantello leggero, tanto per proteggersi un poco dalla pioggia, la donna uscì dalla camera e poi dalla rocca, diretta alla chiesa di San Girolamo.

Zuppa di pioggia, la Leonessa arrivò davanti al portale chiuso della chiesa. Attese qualche minuto ancora, incurante della pioggia. Forlì, sepolta dall'acqua e dal lutto, era silenziosa come un cimitero.

Risolvendosi infine a entrare, la Contessa batté sulla porta più volte fino a che non arrivò uno dei preti ad aprire.

Riconoscendola, l'uomo la lasciò passare senza chiedere nulla e Caterina gli disse di lasciarla sola.

“Devo pregare, per i morti della pestilenza.” si sentì in dovere di mentire.

Il prelato non commentò e, sciabattando di nuovo verso la canonica, la pregò solo di andare a chiamarlo quando avesse finito, in modo da poter richiudere.

Appena i passi del prete furono lontani e il porticino dietro cui era sparito non cigolò più, la Tigre andò verso la cappella privata dei Feo.

Non era più stata lì dal giorno del funerale di Giacomo.

Con il cuore che martellava contro le coste e saltava a ogni rombo di tuono, Caterina raggiunse, illuminata solo dai lampi e dai candelotti votivi, la lapide di suo marito.

Guardò la pietra e poi lesse il nome. Rivide il momento in cui Giacomo era stato tumulato. Poi lo rivide squartato e sfatto, nella chiesa di San Bernardino, che per prima lo aveva accolto. E poi, come andando ancor più a ritroso, lo rivide vivo, gli occhi castani che la fissavano e le sue labbra che dicevano il suo nome, mentre le sue braccia la stringevano e il suo corpo la cercava.

Cadendo in ginocchio, Caterina giunse le mani sul petto e provò a pregare.

“Giacomo, aiutami tu.” sussurrò, pensando che un uomo che in vita era stato così devoto potesse davvero darle un mano in quel genere di cose.

Ripeté a memoria qualche preghiera canonica e si fece il segno della croce. Non aveva provato nulla, nel farlo, ma era già un passo avanti rispetto a quello che le capitava di solito. Di norma, infatti, quando tentava di approcciarsi a Dio a quel modo, finiva solo per arrabbiarsi anche con lui.

Si rimise in piedi e si avvicinò alla tomba. Pensare che dietro a quella pietra ci fosse ciò che restava del corpo di Giacomo dava a quella notte di tempesta un tocco di irrealtà.

Caterina passò la mano sulla pietra fredda. Lo fece come se stesse accarezzando suo marito, come se lui potesse davvero sentirla.

E, come se fosse davvero lì con lei, gli confessò: “Ho paura.”

Quasi a risponderle, un lampo, caduto molto vicino, illuminò la chiesa a giorno per una manciata di istanti.

La Tigre appoggiò la fronte al sepolcro, come in cerca della sua protezione, e poi, con lentezza, diede un leggero bacio al nome di Giacomo.

Tirando su con il naso, la donna si staccò dalla lapide e diede un ultimo sguardo al magnifico lavoro di scultura che i mastri avevano fatto in memoria del suo defunto marito.

“Non posso dimenticarti. Non lo farò mai.” sussurrò: “Sarai sempre una parte di me. Se davvero esiste qualcosa, dopo questo mondo, allora ci rivedremo là. Fosse anche l'avello infuocato dell'inferno. Ci incontreremo di nuovo e non ci lasceremo mai più. Ma per ora io sono ancora qui. E adesso devo andare avanti.”

Fece un debole sorriso e lasciò la cappella, andando a chiamare il prete.

“Fatto quel che dovevate?” chiese lui, stancamente, accompagnandola all'uscita, più per complimento che non per reale interesse.

Ricalandosi il cappuccio del mantello, ancora gocciolante, sulla testa, Caterina rispose: “Sì.”

 

Lorenzo Medici emise un lento sospiro, rileggendo con attenzione alcune parti della lettera del fratello.

La saletta del palazzo in via Larga era immersa nel silenzio più completo. Semiramide stava ricamando, assorta e tetra, com'era ormai quasi sempre.

La finestra era stata lasciata chiusa, nel tentativo di tenere il caldo fuori e di trattenere dentro quella poca frescura che si era accumulata durante la notte.

Con un suono gutturale di insofferenza, Lorenzo lasciò la sua poltrona e andò fino a quella su cui stava la moglie. Le porse la missiva di Giovanni e le fece un cenno con il capo.

La donna comprese che il marito desiderava il suo parere e così, avvezza a essere coinvolta nelle decisioni di Lorenzo, lasciò da parte il lavoro di ricamo e prese la lettera tra le dita sottili.

Lesse tutto con grande attenzione. Conosceva il cognato molto bene e capì subito da cosa fosse scaturita l'espressione cupa che aveva alterato i lineamenti di Lorenzo.

Giovanni aveva scritto di come avesse dovuto interrompere la sua missione per la repubblica a causa della gotta. E fino a quel punto, Semiramide non trovò nulla per cui insospettirsi o indisporsi.

Poi, però, diceva anche che aveva dovuto lasciare il letto di dolore in anticipo per correre a Forlì, dove una strana epidemia era insorta all'improvviso e attanagliava tutt'ora la città, tanto che per riuscire a spedire la sua lettera, Giovanni aveva dovuto corrompere a suon di fiorini una guardia cittadina.

Spiegava con parole abbastanza formali i motivi che lo avevano spinto a tornare in città malgrado la malattia e più leggeva, più Semiramide stringeva le labbra in segno di disapprovazione.

Quando arrivò in fondo alla pagina, la donna guardò il marito, che si era messo a fare avanti e indietro con lentezza, nell'attesa di sentire il suo parere, e disse: “Dobbiamo fare qualcosa.”

“Io glielo avevo detto di stare attento. Me lo sentivo. Quella donna è una vipera, ma lui non se ne rende conto.” fece Lorenzo, quasi parlando tra sé: “Ha dovuto aspettare trent'anni per poi innamorarsi di quella... Di quella...”

Siccome non trovava un termine che fosse abbastanza suggestivo, il Popolano alzò le braccia al cielo e sbuffò sonoramente.

Semiramide iniziò a picchiettarsi il ginocchio con la lettera ripiegata e a pensare.

Suo cognato si stava mettendo in una posizione molto scomoda. Con Savonarola che stava prendendo sempre più piede, rischiando di diventare a tutti gli effetti il Governatore di Firenze, i Medici non potevano permettersi di fare gli interessi di un altro Stato trascurando quelli del proprio e tanto meno per un motivo così puerile come l'amore.

Tuttavia, mentre pensava a questo, Semiramide si trovò a guardare il marito.

Lorenzo non era bello, non lo era mai stato, e non era nemmeno particolarmente forte. Era però intelligente, aveva un buon carattere e sapeva riconoscere i suoi limiti.

Quando si erano sposati, Semiramide aveva ventun anni e Lorenzo ventidue. Suo marito era già stato truffato dal cugino, il Magnifico, e convolare a nozze con lui era parso un azzardo, ma il padre di Semiramide era morto da anni e lei non voleva gravare più su suo fratello Jacopo. E, soprattutto, si era innamorata in modo così violento di Lorenzo, che l'avrebbe seguito ovunque, perfino all'inferno.

Immersa nei ricordi dei primi tempi in cui lei e il marito avevano imparato a conoscersi e ad amarsi, Semiramide si sentì improvvisamente ammorbidita nei confronti di Giovanni.

“Mandiamo a Forlì Simone.” propose alla fine la donna, pensando che la presenza di un parente e di un amico avrebbe potuto far rimettere la testa a posto al cognato.

Lorenzo si accigliò: “Credi che basterà?”

Semiramide comprendeva bene l'apprensione del marito. Giovanni poteva giocarsi non solo la propria vita, ma anche le loro, se avesse agito in modo azzardato. Stava giocando con il fuoco e forse non se n'era ancora accorto.

“Cominciamo così. Mandiamoglielo assieme a delle consegne da parte della Signoria. Diciamogli che lo vogliamo solo sollevare da qualche peso, che nelle sue condizioni di salute precaria gli ci vuole un uomo fidato che lo aiuti.” disse Semiramide, annuendo tra sé.

“Giovanni capirà.” obiettò Lorenzo.

“Se capirà, allora sarà anche abbastanza intelligente da seguire il nostro velato consiglio.” ribatté la donna, rimettendosi a lavorare sui suoi ricami.

Lorenzo fissò la moglie per un lungo momento. Era molto invecchiata, da quando Averardo era morto, eppure lui la trovava ancora bellissima. Era una donna forte, capace di adattarsi a tutto e, quando necessario, sapeva essere molto più decisa e lungimirante di lui.

L'amava ancora così tanto...

Con un sospiro spezzato si chiese se suo fratello avesse davvero trovato una donna capace di suscitargli gli stessi sentimenti che Semiramide risvegliava in lui. Se così era, si trattava di una vera sfortuna. La Leonessa di Romagna non era una donna da amare, ma da temere. Una belva feroce può essere ammirata, desiderata, forse, ma amata, quello no.

“Facciamo come dici tu.” convenne alla fine Lorenzo, gonfiando le guance piene e andando alla porta.

Chiamò il suo segretario e gli ordinò: “Fate venire a palazzo mio cugino Simone Ridolfi. Ho bisogno di parlargli con urgenza.”

 

“Una tregua di trenta giorni non risolverà nulla.” scosse il capo Virginio, andando avanti come nulla fosse a fare il filo alla sua spada: “Vi hanno preso per i fondelli.”

Il Montpensier gonfiò il petto e ribadì, con ostinazione: “I rinforzi francesi arriveranno.”

Orsini perse la calma, come non gli capitava da anni. Da giovane, era stato uno degli uomini più irruenti d'Italia, ma poi gli anni lo avevano fatto calmo e riflessivo, almeno fino a quel giorno.

“I francesi ci hanno scaricato!” sbottò, gettando in terra la spada ed ergendosi dinnanzi all'altro, che fece istintivamente un passo indietro.

“Voi correte dietro a ombre di fantasmi! Non lo vedete che ci hanno lasciato soli?!” continuò Virginio, i baffetti che vibravano e le mani che prudevano: “Per loro, tanto vale lasciarci morire qui ad Atella, piuttosto che spendere soldi per pagare i rinforzi da mandarci!”

“Voi non...” cominciò il Montpensier, ma l'Orsini non lo lasciò finire e gli sferrò un fortissimo pugno sulla mascella.

Proprio come quando era ragazzo, Virginio sentì prepotente il bisogno di scaricare la tensione con una rissa e il suo collega non si fece pregare.

Si presero a pugni e calci per almeno mezz'ora e il Montpensier rimase sconvolto nel saggiare in prima persona la forza ancora viva che animava i muscoli del vecchio Orsini.

Alla fine, poiché il signore di Bracciano aveva avuto la meglio, l'altro si arrese, sollevando le braccia e Virginio smise di menar le mani.

Asciugandosi un piccolo rivolo di sangue che scendeva dal labbro spaccato, il Montpensier sollevò le sopracciglia e, con un tono decisamente meno bellicoso e più dimesso, chiese: “E dunque che proponete di fare?”

L'Orsini stava ancora riprendendo fiato. Aveva la volontà ferrea di un ragazzo, ma il suo corpo era quello di un uomo della sua età.

Appena fu in grado di parlare, Virginio decretò: “Voglio scendere a patti con la Lega. Voglio trattare la resa. Che si prendano Atella, non mi interessa nulla di questa città. Iniziamo a uscirne vivi, poi si vedrà.”

Il Montpensier strinse i denti, ma riaprì subito la bocca, dolente per un dente scheggiato e poi fece un cenno di assenso: “Come volete voi, Orsini.”

 
   
 
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