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Autore: Adeia Di Elferas    22/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Francesco Gonzaga incrociò le braccia sul petto e, stringendo gli occhi contro il vento ancora spruzzato di pioggia che lo tormentava da un paio di giorni, guardo di nuovo verso Atella.

Il patto stretto con suo cognato Gilberto di Montpensier non gli piaceva. Vedeva bene quanto le truppe che guidava si stessero facendo insofferenti. Quando avessero scoperto che era stata accordata una tregua tanto lunga sarebbe stato difficile contenerli.

Dopo aver sconfitto in campo aperto con cinquecento stradiotti una misera colonna guidata da Paolo Orsini e Paolo Vitelli, i soldati del Gonzaga si erano insuperbiti e si dicevano pronti a radere al suolo Atella senza lasciare nemmeno un sopravvissuto.

Se non fosse stato per Francesco, nessuno avrebbe accettato l'accordo proposto da Gilberto.

Il Marchese di Mantova sapeva molto bene che quei trenta giorni erano stati chiesti solo per permettere l'arrivo dell'aiuto francese. Ma sapeva altrettanto bene che l'aiuto non sarebbe arrivato.

Quindi, il risultato finale non sarebbe cambiato. Bastava avere pazienza. Solo che aspettare trenta giorni...

“Mio signore – fece l'attendente, arrivandogli alle spalle – c'è un messaggio per voi.”

“Da parte del Duca di Sessa?” chiese Francesco, trovando scontato che si trattasse dell'ennesimo tentativo di mediazione messo in atto da Gilberto, magari per allungare la tregua da trenta a quaranta giorni.

“Dal signore di Bracciano, Virginio Orsini.” lo corresse l'attendente.

Gonzaga voltò il mento sporgente verso il suo sottoposto e si fece consegnare subito il pezzo di pergamena che teneva in mano.

Lesse in fretta quello che l'Orsini aveva scritto e poi chiese: “Hanno mandato un messaggero affinché attenda la risposta?”

“No, era un verrettone.” rispose l'altro.

Francesco sospirò e guardò da sopra la propria spalla le mura di Atella. Chiese all'altro di seguirlo e andò fino al suo padiglione. Prese carta e inchiostro e scrisse una risposta. Poi la piegò con cura, arrotolandola fino a farne un cilindro sottilissimo e lo consegnò all'attendente.

“Devo parlare con gli altri comandanti – spiegò – ma appena mi vedi fare un cenno, fai partire questo messaggio.”

Il giovane annuì e prese il cilindro portogli dal Marchese. Lo sistemò con cura dentro il giubbetto e poi seguì il suo signore fino alla tenda in cui si stava discutendo la campagna.

 

L'epidemia a Forlì, dopo solo un paio di giorni di forti piogge, sembrava già andare spegnendosi.

Era bastato molto poco per permettere alle morti di diminuire e la Contessa convenne con il medico di corte nel pensare che uno dei fattori preponderanti nell'esito infausto della malattia fosse stata per parecchi, soprattutto per i più deboli, proprio il caldo asfissiante.

Appena era stato possibile, Caterina aveva ordinato di riaprire le porte della città. Era fondamentale far ripartire il commercio il prima possibile.

Gli ultimi malati erano stati isolati in un'unica zona, nella speranza di arginare una volta per tutte il contagio, e i corpi di chi non ce l'aveva fatta erano stati smaltiti, dopo i funerali a tappeto in cui erano stati impegnati pressoché tutti i preti della città, 'a norma di legge', come Luffo Numai aveva reso noto quella mattina.

La Tigre aveva ascoltato con apparente distacco quella notizia, tenendo solo per sé un silenzioso gemito nel pensare a come anche Livio avesse dovuto seguire il destino degli altri, e poi era andata a presiedere il primo Consiglio dopo quelli che le parevano secoli.

Non aveva ancora avuto il coraggio di incontrare i suoi figli. Prima voleva sistemare qualche questione di ordine più pratico, per evitare che un'eventuale blocco mentale le rendesse difficile anche dare ordini ai suoi sudditi, poi si sarebbe occupata di loro.

Il Consiglio si aprì con una lunga discussione sulla testa di Pavagliotta e sul suo crollo in mezzo alla strada al primo soffio di vento.

Visto che i rappresentanti tanto degli Anziani, quanto delle famiglie più in vista di Forlì non accennavano a mollare la presa su quel punto, la Contessa si vide costretta a concedere, con una certa esasperazione: “E sia! Faremo fissare le teste con maggior cura. Andiamo avanti, adesso!”

Così si passò a parlare di problemi più seri, primo fra tutti i danni strutturali subiti da alcune torri e dal rivellino di San Pietro nel corso della prima tempesta.

Caterina permise ai costruttori che si stavano occupando della demolizione del suo vecchio palazzo di dirottare i loro sforzi nella messa in sicurezza e nella ristrutturazione non solo delle torri, ma anche di tutte le altre costruzioni che ne avessero necessità.

“Il palazzo in cui è morto il mio primo marito è rimasto qui per anni – fece la Contessa, battendo il palmo sul tavolone che stava nel mezzo della sala del Consiglio, una delle poche rimaste ancora illese dal progetto di demolizione – potrà aspettare ancora qualche mese.”

E infine si era giunti alle richieste dei contadini, che non avevano perso occasione di farsi avanti per perorare la loro causa, approffittando subito delle porte appena riaperte.

Chiedendosi se stesse facendo davvero la cosa giusta, la Tigre prese fiato e, dopo un solo momento di esitazione, durante il quale il rumore della pioggia – ora lenta e costante – che arrivava dalla piazza la rassicurava come il dondolio monotono e piacevole di una culla, ripeté, quasi con le stesse parole che aveva udito lei stessa, la proposta di Giovanni.

I contadini guardarono il più anziano tra loro e poi borbottarono l'uno con l'altro per parecchi minuti.

Quando la Contessa stava per convincersi che avrebbero rifiutato, il portavoce fece un cenno risoluto con il capo e accettò: “Come dite voi. Compreremo il danno dato e che si aboliscano i Cavalcanti!”

Sollevata da quel risvolto positivo, Caterina scambiò uno sguardo con Cardella e Luffo Numai, che erano quanto meno sorpresi da quella decisione, ma parevano altrettanto ben disposti verso l'idea che pensavano fosse scaturita dalla mente della loro signora.

Dopo altre poche faccende, e dopo aver lasciato ancora in sospeso il problema delle riserve di sale che iniziavano a scarseggiare, la Tigre chiuse la riunione e tornò alla rocca.

Ora che un altro peso le era scivolato via dalle spalle, si sentiva pronta ad affrontare i suoi figli.

Tutti quanti.

 

Quel 13 luglio, Isabella Este s'era svegliata con una strana sensazione al ventre. Il suo tempo era vicino, eppure la sua pancia non si era fatta prominente come nel corso della prima gravidanza e il bambino sembrava anche muoversi meno.

Per tutta la mattina restò nei suoi appartamenti, in abiti da camera, a leggere qualche poesia e a ricontrollare alcuni conti del Marchesato.

Suo marito era ancora lontano e a lei certe incombenze non sarebbero pesate più di tanto, solo che quel giorno, un po' per il caldo che avvolgeva Mantova e un po' per i doloretti all'addome, la Marchesa non riusciva a concentrarsi su nulla.

Prima che fosse pomeriggio, Isabella entrò in travaglio.

Per tutto il tempo, mentre la levatrice la incitava a spingere e poi a respirare, la donna non fece altro che sperare che quello fosse finalmente un maschio.

Amava la sua prima figlia, Eleonora, ma il Marchesato aveva bisogno di un erede.

Francesco poteva anche essere già morto su un campo di battaglia, per quello che ne sapeva Isabella e allora cosa ne sarebbe stato di lei e di Mantova?

Con un ultimo grido strozzato, la Marchesa portò a termine il parto. Una delle cameriere prese il neonato tra le braccia e lasciò la levatrice, che aveva appena tagliato il cordone con le forbici che teneva legate alla cinta, libera di aspettare la placenta, mentre altre due serve avvicinavano il mastello di acqua calda con cui detergere il nuovo arrivato.

“Che cos'è? È maschio?” chiese Isabella, troppo debole per sollevarsi sui gomiti e guardare in prima persona: “Ditemi che è un maschio...”

Il silenzio che accolse la sua domanda la fece impensierire. Le domestiche si muovevano veloci e una chiese l'intervento della levatrice.

La donna, anziana e d'esperienza, lasciò una delle serve a controllare Isabella e si dedicò al bambino.

Trafficò per qualche minuto e poi disse, piano, ma abbastanza forte da essere sentita anche dalla Marchesa: “Per fortuna ora respira...” e come a darle ragione si sentì un debole pianto, simile a un miagolio.

“È un maschio?” chiese di nuovo la Marchesa, mentre il suo corpo ricominciava a rilassarsi, dopo il lungo lavoro.

“No, mia signora, è una femmina.” rispose finalmente la levatrice, prendendo la piccola e portandola vicino alla madre: “State attenta... Sembra molto fragile.”

Isabella non volle prendere tra le braccia la bambina. La guardò attentamente, però, e la trovò gracile, molto piccola. La sua carnagione pareva bluastra e stava riprendendo il colore rosato che avrebbe dovuto avere solo in quel momento. Aveva la pelle sottilissima e il suo esile torace sembrava far troppa fatica a contrarsi e rilasciarsi a ogni respiro.

“Portatela di là.” ordinò la Marchesa, voltando il viso dall'altra parte: “Affidatela alla nutrice.”

La levatrice strinse le labbra, ma, avvezza alle reazioni più strane e disparate da parte delle partorienti e delle puerpere, lasciò correre e chiese alle domestiche di far quello che la signora comandava.

Con un sospiro tranquillo, poi, l'anziana si rimise al suo posto e, con una carezza incoraggiante al ginocchio di Isabella, le disse piano: “Avanti, abbiamo quasi finito...”

 

Caterina aveva appena passato il ponte e stava per dirigersi verso la sala delle letture, dove credeva di poter trovare almeno la figlia Bianca e forse anche Sforzino.

Da quando le porte cittadine erano state riaperte, la rocca non ospitava più nemmeno un malato.

Tutti gli ambienti erano stati, per quanto possibile, arieggiati e ripuliti e la Contessa aveva costretto tutti gli abitanti di Ravaldino ad armarsi di sapone e farsi un lungo bagno in modo da debellare eventuali ritorni di fiamma della malattia.

Qualche soldato non era stato molto contento e anche Cesare Feo aveva storto il naso, ma alla fine la donna aveva avuto la meglio, minacciando a chi non si fosse sottoposto a quel trattamento l'esilio, se non dallo Stato, almeno dalla rocca.

Andò nel corridoio che portava alla sala delle letture, ma, prima di arrivare a destinazione, riconobbe la voce di suo figlio Sforzino. Da come singhiozzava, probabilmente stava piangendo.

Seguendo il suono come se fosse sulle tracce di una preda in un bosco, Caterina arrivò all'angolo e, senza far accorgere nessuno della sua presenza, si mise a guardare la scena.

L'ambasciatore si Firenze era davanti a Sforzino, con un ginocchio a terra e le mani sulle spalle del bambino. Questi stava piagnucolando e aveva le guanciotte tonde tutte arrossate. Alle loro spalle stava Bianca, il volto privo di espressione, ma le mani strette tanto saldamente l'una nell'altra da far capire a Caterina quanto fosse tesa.

“Basta piangere...” fece a un certo punto Giovanni e, con un movimento gentile, si sporse verso il bambino e lo abbracciò.

La Contessa rimase immobile a guardare il fiorentino che consolava Sforzino e che poi si alzava, gli dava un buffetto sul mento con un sorriso malinconico e poi si rivolgeva a Bianca, le diceva qualche parola e alla fine abbracciava anche lei.

Ciò che lasciò più di stucco la Tigre, fu vedere come anche sua figlia si sciolse in pianto, quando Giovanni la prese tra le braccia.

In quel preciso momento, la donna trovò assurdo il fatto che un ambasciatore fosse arrivato prima di lei a dare conforto ai suoi figli.

Proprio mentre si allontanava dal Popolano, la ragazzina vide la madre in fondo al corridoio.

Giovanni, incuriosito dal cambio di espressione della figlia della Contessa, si voltò e capì che cosa l'avesse fatta smettere all'istante di piangere.

Anche se le conosceva entrambe ancora relativamente da poco, il Popolano trovava lampante certe somiglianze negli atteggiamenti di madre e figlia.

Bianca guardò un momento il fiorentino, poi Sforzino. Il bambino, molto prima di lei, reagì alla vista della madre con spontaneità. Le corse incontro e la strinse con le braccia tozze e grassotte.

Bianca ci mise più tempo, ma alla fine raggiunse anche lei Caterina e l'abbracciò.

La Tigre ricambiò le strette dei figli, senza poter dire nulla. Se avesse parlato, forse non sarebbe riuscita a frenarsi più e non voleva.

Diede una rapida occhiata a Giovanni, per ringraziarlo o rimproverarlo, non lo sapeva neppure lei, ma l'uomo si stava già allontanando, le mani dietro la schiena e la testa china.

“Avanti, ora tornate nella sala delle letture...” fece Caterina, dopo un po', convinta che avrebbe fatto bene a tutti tenersi occupati in qualche modo.

Sforzino si asciugò il naso con la manica e fece subito quello che la madre gli aveva detto. Bianca, invece, lasciò che il fratello la precedesse e rimase un momento indietro.

“La nonna ha sofferto?” chiese, senza avere il coraggio di guardare la Contessa in viso.

La Tigre sospirò e rispose: “No. Se n'è andata mentre dormiva.”

“Dov'è il suo corpo adesso?” chiese la ragazzina che, con i suoi quattordici anni e mezzo era alta quasi quanto la madre.

Caterina, guardinga, controllò che a parte loro non ci fosse nessuno in corridoio. Anche se i suoi fedeli lo sapevano già, voleva che la notizia si spargesse con la maggior calma possibile, magari addirittura dopo che il cordoglio cittadino per i morti di quell'epidemia si fosse stemperato.

Luffo Numai – vestendo temporaneamente e a titolo volontario e gratuito il ruolo di Governatore di Forlì – le aveva detto che alla fine dei conti non c'erano state grosse perdite per la città. A soccombere erano stati più che altro bambini e anziani o persone già malate, dunque la forza lavoro e quella militare erano rimaste pressoché intatte.

Caterina era felice di sapere che almeno i campi e le caserme non si sarebbero svuotati, ma, a dispetto di quello che sembrava aver fatto il Consigliere, lei non voleva sottovalutare il peso del lutto. Anche se numericamente i morti non erano stati tanti, lo Stato aveva bisogno di tempo per piangerli.

“L'ho fatto portare a Imola.” spiegò la Contessa.

La figlia annuì lentamente e poi chiese, con maggior timore: “E Livio ha sofferto?”

La Tigre strinse i denti e fu sul punto di interrompere bruscamente la conversazione, come avrebbe fatto qualche mese addietro. Questa volta, invece, si impose di mantenere la calma e di affrontare quello che Bianca le stava chiedendo di ricordare.

Avrebbe potuto dire una menzogna qualsiasi a sua figlia, per farla stare meglio. Avrebbe potuto dirle che anche suo fratello Livio era morto come Lucrezia, nel sonno. In modo pacifico e senza potersene accorgere.

Però così non era stato e Caterina non voleva più mentire a sua figlia, su nulla.

Risentendo quasi l'abbraccio disperato di Livio attorno a sé, la Contessa rispose, con una sincerità che le fece accapponare la pelle per quanto lei stessa la trovò cruda: “Sì, ha sofferto, e anche molto.”

Bianca soffiò, gli occhi blu scuri che saettavano da un angolo all'altro. Probabilmente lo aveva immaginato, ma averne conferma pareva averla agitata molto.

“Dove sono i tuoi altri fratelli?” chiese a quel punto la Tigre, non sapendo come poterla consolare.

“Ho visto Galeazzo andare con Bernardino nella sala delle armi – fece Bianca, trattenendo a stento le lacrime, mentre il pensiero di Livio che moriva tra atroci sofferenze prendeva il possesso della sua mente – mentre Cesare dovrebbe essere in Duomo.”

Caterina la ringraziò e decise di cominciare dalla parte più semplice.

Trovò, come Bianca aveva predetto, sia Galeazzo sia Bernardino nella sala delle armi.

Il primo, di dieci anni e mezzo, si atteggiava ad adulto, mentre uno dei soldati gli spiegava le qualità di una spada che si stava passando da una mano all'altra. Il piccolo, che aveva più o meno la metà degli anni del fratello maggiore, guardava con gli occhi spalancati tutti e due come se stessero parlando di argomenti importantissimi.

“Per favore...” fece la Contessa, indirizzandosi all'armigero.

Questi comprese quel che la donna voleva e si scusò coi due bambini, defilandosi in fretta con un sorriso un po' imbarazzato.

Solo quando l'uomo ebbe lasciato la sala, a Caterina venne il dubbio che fosse uno di quelli con cui aveva condiviso il letto, qualche mese addietro. Se lo era, doveva essere uno di quelli che aveva spedito al fronte e che poi aveva fatto ritorno dopo la riconquista messa a punto dal Giacomaccio.

Punzecchiandosi il collo con due dita per l'imbarazzo nel pensare che episodi come quello avrebbero anche potuto ripetersi in futuro, Caterina si avvicinò ai figli e li guardò.

Bernardino ricambiava lo sguardo con la stessa espressione un po' confusa che Giacomo aveva avuto in viso molte volte, quando cercava di leggere oltre l'espressione neutra della moglie.

Galeazzo, invece, fissava la madre con serietà e, parlando per primo, la sorprese dicendo: “Io sono qui, madre. Non vi lascio. Potrete sempre contare su di me e sulla mia spada.”

La Contessa dapprima si accigliò, poi si commosse, pensando che quel figlio più di tutti sembrava aver preso dagli Sforzi l'ostinato orgoglio che imponeva di apparire forti anche quando non ci si sentiva tali, e si abbassò per abbracciarlo.

La stretta durò pochi istanti e fu lo stesso Galeazzo a ritrarsi, ma senza repulsione, solo perché, forse, trovava quel genere di esternazioni eccessive. Caterina rispettò il suo atteggiamento e poi passò a Bernardino.

Il piccolo, un po' per l'età e un po' per diversa indole, si abbandonò invece tre le sue braccia in modo molto più docile e le domandò, le piccole labbra contro l'orecchio: “Nonna Lucrezia è morta, vero?”

Caterina rispose di sì e il bambino si nascose ancor di più nel suo abbraccio, chiedendo: “Ma tutti quelli che mi vogliono bene muoiono?”

La Contessa si sentì gelare il sangue nelle vene nell'udire quelle parole. Con decisione, seppur cercando di non spaventarlo con i suoi modi un po' bruschi, allontanò Bernardino da sé e lo fissò nei grandi occhi castani.

Con fermezza gli disse: “La vita è ingiusta, Bernardino, ricordatelo sempre. E così è la morte. Non colpisce solo chi ci ama, ma può capitare che lo faccia. Tu devi essere forte. Sei mio figlio, dunque so che puoi esserlo. È giusto sentirsi tristi, ma non lasciare che quello che provi ti renda debole.”

Il bambino ascoltava e pareva prendere come oro colato il discorso della madre, benché, forse, non lo stesse capendo a fondo.

La Tigre rimase coi due figli ancora qualche minuto, terminando il discorso sulla spada da una mano e mezza che il soldato aveva cominciato prima di lei. Per tutti e tre poter parlare di una cosa del genere fu un modo per ritrovarsi, anche se per pochi istanti.

Alla fine, Caterina li lasciò e decise di uscire dalla rocca. Come se stesse gettando dalla rupe un masso dopo l'altro per farsi la via, voleva fare quel passo con tutti i suoi figli, quel pomeriggio.

Poteva non significare nulla, forse era una cosa che si poteva rimandare, ma lei voleva farlo quel giorno, fintanto che ne aveva la forza e il tempo. La morte di Livio le aveva ricordato che la vita poteva finire all'improvviso e che non bisognava perdere nemmeno un istante.

Arrivò davanti al Duomo. Il portale era aperto. Le strade erano deserte e le uniche voci che si sentivano erano quelle dei mastri costruttori che stavano portando via gli attrezzi dalla zona del palazzo per spostarsi verso le torri da riparare.

La pioggerella fine che stava cadendo in quel momento oscurava la vista della Leonessa e cominciava in modo infido a inzupparle gli abiti.

Con un profondo respiro, sperando che nessuno la vedesse, così da non poter essere tacciata di aver infranto la parola data anni prima, entrò in Duomo.

Attraversò in fretta la navata e dovette tornare sui suoi passi, quando si accorse con la coda dell'occhio del figlio, in ginocchio accanto a una delle colonne, le mani giunte davanti al capo e gli occhi chiusi, mentre le labbra si muovevano febbrilmente pur senza profferir parola.

Gli si mise dinnanzi e attese. Cesare ci mise qualche momento, tanto era immerso in preghiera, ad accorgersi che qualcuno gli si era piantato davanti.

Timoroso, aprì con lentezza prima un occhio e poi l'altro e quando riconobbe sua madre, saltò in piedi.

Caterina guardò il viso smunto e patito del suo secondogenito. Le ricordava sempre di più Raffaele, il cugino del suo defunto marito.

Malgrado ciò, riuscì a forzare la propria mano a farsi avanti. Poggiò il palmo sulla guancia scavata e calda di Cesare e poi provò a parlare. Ancora una volta sentì un groppo salirle in gola e le parole non arrivarono.

Avrebbe voluto essere più forte, ma non ci riusciva. Aveva i nervi a pezzi, e affrontare uno per uno i suoi figli si stava dimostrando via via più difficile.

Però la sua volontà sapeva essere ferrea e dunque non avrebbe desistito fino all'ultimo.

“Volevo molto bene a mio fratello. E anche a mia nonna.” sussurrò Cesare, la voce roca, che in quei mesi stava cambiando: “Ho chiesto a Dio perché è dovuto accadere, ma non mi ha dato risposta.”

Il ragazzo, che avrebbe compiuto sedici anni quell'agosto, aveva lanciato un'occhiata di fuoco all'altare, lontano, e poi aveva posato di nuovo le pupille sul viso della madre.

Caterina, per la prima volta, poteva scorgere in Cesare la rabbia, la stessa rabbia cocente e pura che anche lei aveva provato molte volte nella sua vita.

Rivedere quel tratto di sé anche lui, per quanto non fosse una cosa di cui essere felici, glielo fece sentire più vicino.

“Non ti ha dato una risposta perché una risposta non c'è.” argomentò la Tigre, lasciando cadere la mano che aveva posato sulla guancia del figlio.

Cesare sollevò le sopracciglia e abbassò le spalle. Mentre voltava il capo di lato, Caterina vide la sua tonsura e notò, per la prima volta da tanto tempo, i suoi abiti scuri da religioso.

“Sei sempre sicuro di voler entrare a far parte della Chiesa?” chiese la donna, pensando che l'astio che il ragazzo sembrava provare verso Dio poco si conciliasse con il desiderio di farsi prete.

“Credevo che il mio futuro non fosse più affar vostro.” ribatté Cesare, con un distacco e una freddezza che Caterina mai aveva sentito nella sua voce.

Comprendendo di essere su un terreno cedevole e difficile da attraversare, la Contessa pensò che fosse meglio rimandare certi discorsi.

Stava per andarsene, quando Cesare non si trattenne più e sentenziò: “Spero che anche voi adesso vi sentiate in colpa per qualcosa.”

“E per cosa?” chiese la Tigre, tornando in fretta sui suoi passi e piantando le iridi verdi in quelle più scure del figlio.

“Non credo che quello che è successo sia castigo di Dio per quello che avete fatto a Forlì, come invece dicono gli uomini di Santa Madre Chiesa.” sputò il ragazzo, sollevando con ribrezzo l'angolo della bocca: “Ma so per certo che mia nonna ha sofferto molto per le colpe di cui vi siete macchiata e per la distanza che avete poi tenuto nei suoi confronti e so anche che Livio ha sempre desiderato la vostra attenzione, come tutti noi, e voi non gliel'avete mai concessa.”

Caterina sentì le mani tremare difronte a quelle accuse, ma non sapeva come ribattere a tono. Ciò che Cesare aveva detto non era una novità. Lei stessa sapeva di aver commesso quegli errori imperdonabili.

“Ti aspetto per cena alla rocca.” disse solo, passandogli accanto e lasciandolo a rosolarsi nella rabbia.

Quando fu al portone, vide il ragazzo rimettersi in ginocchio e ricongiungere le mani con un gesto stizzito, e si chiese se mai sarebbe riuscita di nuovo a trovare in lui una traccia del bambino dolce e affettuoso che era stato da piccolo.

Forse no. In fondo nemmeno lei era mai più stata la stessa, dopo che la crudeltà del mondo aveva bussato alla sua porta.

Tornò a Ravaldino con passo lento e cadenzato. Si ritirò per un momento nelle sue stanze, dove si cambiò d'abito, per togliersi di dosso l'appiccicaticcia sensazione di umido lasciatale dalla pioggia.

Ci pensò e ci ripensò e alla fine si decise a portare a termine ciò che aveva iniziato.

Con il cuore simile a un tamburo da guerra che le rimbombava nelle orecchie, la Contessa raggiunse il corridoio in cui si affacciava la stanza in cui stava recluso Ottaviano.

Le due guardie ai lati della porta tenevano in pugno le armi e si misero sull'attenti quando la videro.

“Avete detto qualcosa a mio figlio?” chiese Caterina, con un filo di voce.

Uno dei due restò impassibile, mentre l'altro, portandosi una mano ai grossi baffi, confessò, con l'aria di chi teme una tremenda punizione: “L'ho fatto io, mia signora.”

La Contessa sapeva bene che quella era un'infrazione ai suoi precisi ordini, ma non avrebbe preso conseguenze, perciò continuò, con tono calmo: “Cosa gli avete detto di preciso?”

La guardia deglutì e poi vuotò il sacco: “Che vostra madre e vostro figlio erano morti e così vostra sorella prima di loro.”

La Tigre strinse le labbra e poi si avvicinò alla porta: “Datemi le chiavi.” ordinò.

La guardia che era stata zitta staccò subito il cerchio di metallo con le chiavi dal gancio del suo cinturone e le porse alla sua signora.

Caterina stava per metterle nella serratura, quando sentì la necessità di aggiungere: “Andatevene, adesso.”

“Verrete a chiamarci, quando dovremo ricominciare il turno?” chiese quello che portava le chiavi, dato che quello coi baffi cespugliosi ancora non riusciva a credere di averla passata liscia e quindi non era in grado di aprir bocca.

“Se ce ne sarà bisogno...” fece la donna, lasciando in sospeso la risposta.

Appena i due soldati furono abbastanza lontani, Caterina mise la chiave nella toppa e la fece girare tre volte.

Con un profondo sospiro, richiamò a sé tutto il coraggio che le era rimasto, e aprì la porta.

 

 
   
 
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