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Autore: Ibuki Satsuki    05/07/2017    3 recensioni
«Non hai proprio niente da fare, di sabato pomeriggio? Ce l’avrai, qualcun altro da importunare?» Gli domandò, in un sibilo. Lo vide stringersi nelle spalle, con nonchalance.
«Sì» annuì. «Te» aggiunse poi, guardandola arrossire ancora di più. Quello spettacolo gli stava piacendo fin troppo. Se non avesse iniziato a fare qualsiasi altra cosa, l’avrebbe presto acchiappata per i fianchi per baciarla. Lì davanti a tutti.
«Prima o poi, ti metterò le mani addosso» mormorò la mora, con un perfetto timbro da serial killer e l’espressione omicida. Si chinò a raccogliere lo skate nuovo di zecca che Adrien avesse depositato in terra, sollevandolo e rigirandoselo fra le mani. Tuttavia, quella battuta non fece altro che aumentare il divertimento che il biondo stesse ricavando, dall’intera faccenda.
«Non vedo l’ora» commentò lui, giocherellando col piercing al labbro.
[bands!AU | university!AU | punk!Adrien | skater!Marinette | humans!Tikki/Plagg]
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Un po' tutti
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Black Flag






 
❚❚The Clash - Complete Control
«Ooh ooh ooh someone's really smart
Ooh ooh ooh complete control, that's a laugh»



 


 

Marinette Dupain-Cheng aveva ricevuto un soprannome, dalla sua comitiva del park. La chiamavano “Ladybug”, termine inglese per indicare la parola “coccinella”. Il quale, era stato impietosamente rubato al nome della famosa supereroina dell’universo fumettistico. E lei si era talmente affezionata, a quelle otto lettere, da aver deciso d’impiegarle come tag personale; decorando i muri della periferia con gli stessi, disordinati, caratteri colorati. Lasciando dunque un’impronta indelebile del proprio passaggio, in diversi vicoletti disastrati. La storia, dietro quel nome, era buffa e per niente inusuale. Non aveva compiuto alcuna grande impresa o azione leggendaria, per ottenerlo. Si era semplicemente limitata a sfrecciare così velocemente sul suo skateboard, per non perdere la lezione pomeridiana di letteratura, da aver attraversato un semaforo con il rosso. Raggiungendo il marciapiede giusto un istante prima che le macchine riprendessero la propria corsa, evitandosi l’ospedale per un soffio. Veloce come il vento. Meglio di una coccinella in volo. Quando l’aveva raccontato in giro, con la sua classica ingenuità, gli amici avevano quasi avuto una crisi respiratoria, per il troppo ridere. Perché quell’azione era così propria del suo carattere, da risultare ilare.
La ragazza non aveva idea di cosa fosse il pericolo. Non era una variabile considerata, nella sua realtà. Il cervello di quella giovane procedeva su dritte linee di calcoli, pianificando qualsiasi mossa al millimetro, senza lasciare nulla al caso. Perfino quell’episodio da cui fosse nato il suo soprannome, era stato passato al vaglio da svariati e complessi computi, tutti cerebrali. Ella aveva semplicemente analizzato la situazione, cercando di elaborare il giusto algoritmo che le fornisse una soluzione adeguata. Giungendo alla conclusione che, se avesse sfruttato la velocità del proprio corpo, piegandosi in un certo modo e distribuendo il peso secondo un’altra particolare maniera, sarebbe riuscita ad attraversare indenne. E così era stato.
Marinette Dupain-Cheng era un genio della matematica. La studentessa di cui i docenti, al liceo, avevano paura. Perché trovare un errore sul suo compito, sarebbe equivalso ad una loro svista, non alla sua. Quegli esercizi erano precisi ed impeccabili, proprio come lei. Le cui orecchie si rifiutassero di ascoltare scorrettezze numeriche e non accettavano le spiegazioni approssimative o eccessivamente semplificate. Tant’era, che ella finisse spesso per correggere i docenti direttamente a lezione, alzandosi dal banco e raggiungendoli alla lavagna. Spezzando un pezzettino di gesso e iniziando a scrivere con la mano sinistra, invadendo lo spazio del frustrato insegnante di turno, seccato dall’impudenza di una comunissima ragazzina. Lo stesso professore che, a dimostrazione terminata, si sarebbe infilato le mani nei capelli, istupidito dinanzi alla mole di calcoli che una mente così giovane fosse stata in grado di elaborare.
Per Marinette era tutta questione di cifre, da sempre. Lo era stata da bambina, quando aveva formulato un’espressione che le permettesse di tener su un castello di carte con svariati piani, senza colpo ferire. Medesima situazione al liceo, quando aveva suggerito al playmaker della squadra scolastica di lanciare la palla da basket un millimetro più a destra del canestro, mandando all’aria un’occasione d’oro per vincere la partita. Ottenendo la scusa adatta per farlo mettere in panchina e potersi dunque sedere accanto a Nathanaël Kurtzberg, il senior per cui aveva preso una cotta. L’unico momento in cui i suoi calcoli sfuggivano alla disciplina, era quando ascoltava la musica. Riusciva a ridurre in cifre solo le sonate di Bach. Ma a lei non piacevano poi così tanto. Adorava l’indie americano, quelle sonorità movimentate che strizzavano l’occhio al pop; si divertiva a sentire le svariate storie di gioventù sgangherata di cui i cantanti parlavano, suonando la loro chitarra. Oppure le storie tormentate dei rappers della scena underground internazionale, senza fare distinzioni di lingua. Le piacevano anche le atmosfere che gruppi come gli XX o artisti sul genere di Flume riuscissero a creare, trasportandola in dimensioni così diverse dalla propria. La quale fosse talmente strutturata e solidamente definita, da venirle spesso a noia.
Andare sullo skateboard, disegnare graffiti ed ascoltare la musica, costituivano le sue uniche vie d’uscita alla rigida prigione di numeri che il suo cervello costruiva di volta in volta per lei, senza che ella lo chiedesse. Sfrecciare sulla tavoletta e compiere quegli articolati e bizzarri salti, le permettevano di beffarsi della fisica. Diversi “ollie”* e superfici da grind* facevano a cazzotti con il suo buonsenso matematico. Spingendola automaticamente a lanciarsi nell’impresa, col sorriso sulle labbra e le ginocchia sbucciate, le mani sporche di polvere. A volte, le pareva che cadere e farsi male fosse l’unico modo per sentirsi viva. Si lasciava giacere sul pavimento grezzo del park, abbastanza lontana dalle rampe per non infastidire gli altri skaters, troppo impegnata a bruciarsi la retina per guardare il cielo ad occhio nudo.
I suoi familiari le davano della “strana”. Marinette era più che strana. Era un frammento vagante della stessa sostanza di cui fossero fatti i buchi neri, alla costante ricerca della voragine da cui fosse scaturita. Renoir, il suo migliore amico, la chiamava “mina vagante”. E André, suo cugino infermiere, “Einstrauma”. Appellativo creato fondendo il nome del celebre fisico con la parola “trauma”, a causa delle innumerevoli volte in cui si fosse presentata in ospedale da lui, al reparto traumatologia. Esibendo un entusiastico sorriso sbilenco e qualche lembo sanguinante di pelle o un arto fracassato. A volte, la mora considerava una fortuna che un suo parente quasi coetaneo lavorasse lì. Almeno, non aveva bisogno di allertare i propri genitori ogni qual volta uscisse sconfitta dalle sue sfide contro la fisica e il mondo dei numeri. Ma c’era qualcos’altro che Marinette detestava, più del non riuscirsi a liberare delle cifre, compagne di vita. Ed era arrivare in ritardo, non importava dove.
Ogni mercoledì pomeriggio, ella seguiva la lezione di letteratura inglese alla facoltà di lingue. Un modo amichevole e ricreativo di distrarsi dalla sua imminente laurea in matematica, le due ore che lei adorava di più in assoluto. Aspettava quel giorno della settimana con particolare piacere ed anticipazione, assaporando la gioia che avrebbe provato a buttare all’aria le derivate ed integrali con cui avrebbe dovuto avere a che fare quotidianamente. Abitando relativamente vicino all’ateneo, lo raggiungeva in skateboard, tagliando per alcuni vicoletti del suo centro abitato. Eppure, ogni volta riusciva incredibilmente ad arrivare in ritardo o con quell’anticipo così leggero, da risultare in orario. Se ne accorgeva dalla presenza dell’imponente autobus che le avanzava parallelamente al fianco, mentre lei acquisiva velocità sulla tavoletta. Quell’indiretto contatto durava solo pochi secondi, forse una decina, prima che ella potesse svoltare in un vicoletto, allontanandosi dal bus. Non riusciva mai ad alzare la testa in tempo per vedere chi ci fosse, all’interno dell’automezzo. Particolare che l’aveva, invece, sempre affascinata. Adorava spiare i pendolari dai vetri del trasporto pubblico, chiedendosi cosa ne fosse dei loro sogni, se fossero dove avrebbero voluto essere e se avessero una vita sentimentale felice. Era sciocco formulare simili pensieri, ma anche quello era solo un modo come un altro per combattere quella debilitante razionalità che minacciava di schiacciarla, come il terriccio sotto le rotelline del suo skateboard. Marinette era prigioniera della sua stessa gabbia dorata, alla ricerca di un qualsiasi stratagemma pur di mettere le mani sulla chiave, se mai ne fosse esistita una. Per essere finalmente libera. “To break free”, come diceva il testo di una canzone di cui lei avesse solo un vago ricordo, troppo presa a crogiolarsi nella sua musica alternativa, da approfondire nuovi orizzonti come avrebbe potuto fare.
Rallentando lievemente la sua andatura, lanciò un’occhiata al suo orologio da polso. Se fosse arrivata in università in un massimo di cinque minuti, avrebbe potuto lasciare lo zaino sul banco e farsi un caffè alla macchinetta, insieme a Renoir. Iniziò già a calcolare quale percorso avrebbe potuto intraprendere per accorciare i tempi, ricominciando a prendere velocità. Era vero che, il più delle volte, il suo stesso dono fosse una greve condanna, sulle proprie giovani spalle. Tuttavia, era costretta ad ammettere che risultasse piuttosto utile, in determinati frangenti.
Si congratulò con se stessa quando, giungendo dinanzi all’ateneo nel tempo previsto, il suo orologio le avesse confermato, ancora una volta, la solida esattezza dei suoi calcoli. Scese giù dalla tavoletta, puntando poi il piede in modo particolare, affinché il legno scattasse in avanti e lei potesse acchiappare il muso dello skate con la mano. Si abbassò le grosse cuffie, mettendo in pausa il brano “Complete Control”, dei Clash. Scosse i ciuffi che il vento le aveva spostato negli occhi, con un abitudinario movimento del capo. Poi, infilò la mano libera della tasca dei suoi jeans rattoppati e vissuti, estraendone una Big Babol miracolosamente intatta. La scartò e se la portò alle labbra, ammorbidendola quanto bastasse per poter gonfiare una rosata bolla fluo e si addentrò nel giardino dell’università. Camminando con la caratteristica nonchalance che la contraddistingueva; proprio lei, che sarebbe stata in grado di calcolare la giusta posizione in cui la pianta del suo piede sarebbe dovuta atterrare al suolo, per non rovinarsi la schiena. E invece no. Il suo, era lo stesso passo svogliato con cui si trascinassero gli amici del park, sguazzando nelle loro Vans dalla tomaia bucata e ormai slargata dall’uso. Marinette Dupain-Cheng era un’ottima attrice, da sempre. Soprattutto, quando fingeva di essere più svampita di quanto non fosse realmente. Per evitare che la sua natura analitica erompesse fuori, simile a ghiaccio all’interno di un bicchiere di vetro dalle pareti sottili. Tutto sotto controllo. Come sempre. 


 




 


✿ Ibuki's little letter: eccoci qui, al secondo capitolo! Non mi aspettavo di certo un'accoglienza tanto calorosa, devo proprio ammetterlo! Ero convinta che l'AU così particolare e la stranezza dei caratteri dei protagonisti non avrebbe riscosso molto successo, ed invece è andata molto, molto meglio di quanto mi aspettassi! Adesso, anche Marinette ha fatto la sua comparsa: che ne pensate del nostro eclettico genietto della matematica? Sembra perfetta, vero? Aspettate qualche capitolo, e vi renderete conto di quanto sia brava a fingere. Ma non voglio spoilerare nulla. Anzi, sì, una cosina piccina picciò: la storia del povero Nathaniel rifiutato mi ha rattristata oltre ogni dire. Ragion per la quale, ho voluto rendergli una piccola rivincita: al liceo, Marinette aveva una cotta per lui, il misterioso senior dai capelli rossi (più avanti avrete occasione di conoscere anche lui... in versione Black Flag). Basta, niente più spoilers! In caso non l'aveste notato, creare situazioni strambe ed AU ancora più fuori di testa è uno dei miei passatempi preferiti, avrete modo di rendervene conto, man mano questa storia andrà avanti. Bene, non mi resta che lasciarvi a questo nuovo capitolo, sperando che Marinette non abbia deluso le vostre aspettative! 
Ringrazio moltissimo chiunque abbia inserito la storia nei propri elenchi e chi l'abbia anche recensita: m'impegnerò affinché sia sempre all'altezza delle vostre opinioni! Come sempre, qualsiasi parere è estremamente ben accetto ed io non mordo... a quello ci pensa Adrien! 
Alla prossima!
*ollie: il trick più facile da eseguire sulla tavola, che consiste in un semplice salto.
*grind: percorrere superfici come corrimani o bordi di oggetti (tipo panchine o tavoli, banchi...) o costruzioni con la tavola.


 


 
   
 
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