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Autore: TheSlavicShadow    06/07/2017    2 recensioni
Caso: Terra-3490.
Il 47esimo modello pacifico ha beneficiato principalmente dalla relazione tra Capitan America, Steve Rogers, e Iron Woman, Natasha Stark.
Agendo da deterrente per i comportamenti più aggressivi degli altri, ha consentito al Reed Richards di questa Terra di portare a termine con successo il programma di registrazione dei supereroi e di avviare l’Iniziativa dei 50 Stati.
{Il ponte - Capitolo due da Dark Reign: Fantastic Four n. 2 del giugno 2009}
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wherever you will go'
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Marzo/Maggio 2000

 

Steve Rogers l’aveva presa in parola. All’inizio non gli aveva creduto. Credeva fosse l’impeto del momento e l’intimità che stavano condividendo. Era quasi convinta che il mattino dopo, una volta aperti gli occhi, il letto sarebbe stato vuoto. Era quasi convinta che il letto sarebbe stato freddo, che nella stanza non ci sarebbe stata alcuna traccia di Steve Rogers. Era convinta che il suo cuore si sarebbe spezzato ancora una volta a causa dello stesso uomo.

Ma quando aveva aperto gli occhi, Steve Rogers le sorrideva dolcemente.

E così era stato per molte mattine, anche se Jarvis gli aveva preparato una stanza. Una stanza che era spesso rimasta inutilizzata perché Steve davvero non aveva mai lasciato il suo fianco. Anche se le prime settimane erano state un inferno e Steve era stato un santo.

Era nervosa. Aveva passato diverso tempo con la sensazione di avere l’acqua alla gola. Doveva finire un dottorato. Doveva prendere in mano la direzione delle Stark Industries. Doveva fare la parte dei suoi genitori nelle serate di beneficenza che si sarebbero svolte nei mesi a venire.

Ma soprattutto erano le conferenze stampa e i giornalisti appostati davanti alla casa e alla sede dell’azienda che le davano fastidio. Non poteva muovere un passo senza che un microfono le fosse sbattuto in faccia o senza che qualcuno cercasse di fotografarla.

Steve aveva cercato di essere premuroso, ma lei fin troppo spesso era stata nervosa all’inverosimile per apprezzare i suoi gesti.

“Pensavo ti avrebbe fatto piacere assaggiare i dolcetti della nuova pasticceria in fondo alla strada.”

“Strozzatici.”

“Ti ho comprato questa collana, penso che ti donerebbe molto con l'abito per la cerimonia di presentazione di domani sera.”

“Puoi usarla attorno al tuo collo. Per impiccarti.”

“Ti ho portato dei fiori, erano così belli che mi hanno fatto pensare a te.”

“Li metterò sulla tua tomba.”

“Ah, mi sono permesso di spostare un po' di scatoloni dal corridoio per evitare di inciamparci.”

“Erano lì apposta.”

Era stata pessima. Sapeva di esserlo stata, ma nonostante tutte le orrende risposte che gli aveva dato, Steve Rogers non aveva mai smesso di starle accanto. Aveva anche preso un periodo di vacanza dallo S.H.I.E.L.D.. Nick Fury non le era sembrato troppo arrabbiato o infastidito. Non più del solito almeno.

E Steve era rimasto alla Stark Mansion per tutto quel tempo. Avevano passato serate tranquille sul divano, guardando film assieme a Jarvis. Steve l’aveva accompagnata ad un paio di serate di gala a cui non aveva potuto rinunciare, ma che avrebbe tanto desiderato boicottare se non fosse stato che ne dipendeva il futuro dell’azienda. Steve aveva passato ore intere in officina con lei, mentre lei lavorava e assumeva troppa caffeina, come Steve le aveva fatto notare più volte.

Stavano praticamente convivendo, senza che nessuno dei due osasse mai dare una definizione alla loro relazione. Più di una mattina si era alzata e aveva trovato Steve in cucina che preparava la colazione, parlando con Jarvis del più e del meno, ed era rimasta sulla porta ad osservarlo. Era tutto troppo bello per poter essere vero. Per avere quell’Adone nella sua cucina che preparava pancake e caffè doveva sicuramente aver firmato qualche patto con un qualche demone mentre era troppo ubriaca per ricordarsene.

“Che è successo ai tuoi capelli?”

Aveva alzato lo sguardo dal suo ultimo progetto, per vedere Steve entrare nel suo laboratorio/officina con un vassoio pieno di cibo. Aveva guardato solo allora l’orologio, ed effettivamente l’orario del pranzo era passato da un po’.

“Non ne parliamo, ti prego. Ho rischiato di tagliarmi un orecchio perché quello stupido bot ha tirato il cavo del seghetto elettrico che stavo usando e nel movimento brusco che ho fatto con corpo e braccio ho dovuto dire addio alla mia bellissima treccia.” Aveva guardato male il braccio meccanico che se ne stava in un angolo, con addosso un cappello con la scritta “somaro”. “E non farmi prediche sulla sicurezza sul lavoro che sono probabilmente nata in un’officina visto quanto tempo ci ho sempre passato.”

“Ma i tuoi capelli…?”

Lo aveva guardato male. Steve sembrava divertito mentre la guardava. In cuor suo sapeva che era preoccupato. Si era sempre preoccupato quando si era fatta male in qualche modo mentre lavorare. Anche se ora sembrava divertito.

“Ti prendo a calci, Rogers. Ho solo cercato di sistemarli.”

“Passandoci sopra un tosaerba?”

Lo aveva guardato male. Lo aveva guardato come se avesse potuto incenerirlo con solo lo sguardo. Aveva appoggiato la saldatrice sul tavolo da lavoro e aveva incrociato le braccia al petto, mentre appoggiava la schiena comodamente alla sedia.

“Dimmi, tu avresti saputo fare di meglio?”

“Mangia intanto, appena finisci te li sistemo io.” Aveva scosso la testa, appoggiando il vassoio sul tavolo che aveva portato in officina proprio per situazioni come quella, in cui Natasha si dimenticava di mangiare e doveva occuparsi lui della sua nutrizione.

Era diventata normale amministrazione.

“Mi hanno telefonato da Los Angeles stamattina. La costruzione della casa sta procedendo bene.” Si era alzata da una sedia solo per sedersi su un’altra, iniziando subito a mangiare.

Aveva comprato un terreno a Malibu subito dopo la morte dei suoi genitori. Era stato solo uno degli acquisti impulsivi che aveva fatto in un momento non propriamente lucido della sua esistenza. Aveva deciso di farci costruire una villa da utilizzare come luogo in cui scappare ogni volta che New York le stava stretta. “Dicono che il mese prossimo sarà abitabile.”

“Possiamo andarci quando vuoi allora.” Steve le si era seduto di fronte, rubando qualche patatina fritta dal suo piatto. Natasha lo aveva osservato. Aveva osservato le sue mani, le sue braccia, il suo viso. Adorava la linea virile della sua mascella e la pienezza delle sue labbra. “Come procede il tuo progetto per quell’intelligenza artificiale di cui parli anche mentre dormi?”

“Bene, direi. Devo solo capire come estenderla a tutta la casa.” Stava costruendo e programmando un’intelligenza artificiale che avrebbe gestito la casa al posto di Jarvis. L’uomo aveva ormai una certa età, e Natasha trovava che fosse ingiusto che il maggiordomo continuasse a lavorare come aveva sempre fatto. Gli aveva più volte detto di andare in pensione, che avrebbero trovato qualcun altro a occuparsi della casa. Ma Jarvis aveva sempre rifiutato, dicendo che per lui era un onore continuare a lavorare per la famiglia Stark e che lo avrebbe fatto fino a quando si fosse retto in piedi. “Una volta esteso alla casa vedrò come estenderla anche nella casa nuova e anche nei miei dispositivi portatili. Per ora è operativa qui in officina. E funziona. Se ordino di fare qualcosa esegue. Stamattina dovevo fare una ricerca, e mi ha dato più risultati di Google in tempo molto minore. Sono un genio, lo so, non serve che tu me lo dica.” Si era riempita la bocca di cibo, inarcando un sopracciglio e guardandolo. Steve aveva scosso la testa e aveva riso.

Adorava vederlo ridere.

“Capitano Rogers, il Colonnello Fury l’attende al telefono.” Jarvis era entrato nell’officina e Natasha lo aveva guardato male. Lo faceva ogni volta che Jarvis pronunciava il nome di Fury.

Steve aveva sospirato e si era alzato dalla sedia.

“Torno subito. Tu finisci di mangiare.”

“Signorsì, signore!” Aveva fatto una saluto militare nella sua direzione, osservando poi la sua schiena. E il suo fondoschiena.

Jarvis aveva finto un colpo di tosse e lei lo aveva subito guardato.

“Un po’ di contegno, signorina.” L’uomo aveva scosso la testa. “Almeno questa volta non ho interrotto nulla.”

Natasha aveva riso al ricordo di un piacevole pomeriggio passato in attività molto rilassanti sul suo tavolo da lavoro. E della faccia rossa di Steve quando Jarvis aveva finto un colpo di tosse rimanendo fermo sulla porta.

“J, devo farti vedere una cosa!” Si era alzata anche lei da tavola, prendendo in mano la tazza di caffè e avvicinandosi al proprio computer. Aveva inserito un paio di codici, e aveva sorriso soddisfatta mentre sorseggiava il proprio caffè.

“Signorina Stark,” una voce proveniente dagli altoparlanti aveva riempito la stanza, “sta bevendo troppo caffè oggi.”

“Signorina Stark, l’ho già detto a suo padre molto tempo fa, non ho intenzione di passare la mia vita come una voce registrata.”

Natasha aveva sorriso di più. Il primo sistema di sicurezza di suo padre, nella sua casa di Los Angeles, era la voce di Jarvis che intimava a chiunque di andarsene.

“Ho deciso di chiamarlo Just A Rather Very Intelligent System, o più semplicemente J.A.R.V.I.S..”

L’uomo aveva sospirato, passandosi una mano sugli occhi.

“Mi sta davvero mandando in pensione, signorina.”

“No, ho la sensazione che non vorrai mai farlo anche solo perché non so badare a me stessa. Ma con J.A.R.V.I.S. sarà più facile. Se riesco a farlo funzionare come spero, potrà rispondere al telefono, occuparsi della sicurezza della casa, ricordarmi quando mangiare e andare a letto, così tu puoi anche riposare un po’.” Si era avvicinata al maggiordomo e gli aveva sorriso. Quell’uomo l’aveva cresciuta. Le era stato accanto da tutta la vita. E l’aveva amata come una figlia. “E’ programmato per rispondere a me e te. Ci sono dei protocolli, dei codici che verranno inseriti, e che solo noi due potremmo sovrascrivere se succede qualcosa. Nei prossimi giorni lo renderò operativo in tutta la casa, garage e giardino compresi. E poi mi occuperò della casa di Malibu e andremo a farci una tanto meritata vacanza.”

“Natasha, ho sempre pensato che suo padre esagerasse dal volere sempre di più da lei. Lo penso ancora. Penso sempre che avrebbe dovuto lasciarla avere almeno un’infanzia normale, ma ora la sento parlare di intelligenze artificiali che possono gestire una casa e sono davvero stupito. A soli 19 anni sta costruendo molte più cose di quelle che suo padre ha anche solo immaginato. Guardi Dum-E. E’ ancora perfettamente funzionante, ed è solo un robot costruito per una gara. Sono davvero orgoglioso di lei. Anche se i suoi capelli in questo momento sono orrendi.”

Aveva alzato gli occhi al cielo, passandosi una mano tra i capelli tagliati peggio di come li avrebbe tagliati un cieco.

“Steve ha detto che me li sistema dopo. Ne uscirò con un taglio militare del periodo bellico.”

“Spero nel buon senso almeno del Capitano.” Le aveva sorriso di nuovo. “Sono felice che stiate andando d’accordo. Anche se forse sono ancora un po’ vecchio stampo e trovo strana questa convivenza senza matrimonio.”

“La trovo strana anch’io, ma è capitato e chi sono io per rifiutare un’occasione del genere?”

“Almeno così non riempie le pagine dei giornali con il suo nome seguito da quello di qualche uomo a caso.” Jarvis aveva inarcato un sopracciglio e lei aveva solo alzato gli occhi al cielo.

“Non è colpa mia se appena esco di casa qualcuno mi fotografa.” Di solito stava attenta. A meno che non uscisse per andare a delle serate di gala o a divertirsi, usciva vestita molto semplicemente. Jeans o tuta, maglietta, berretto e occhiali da sole. E puntualmente qualcuno la riconosceva. Poteva uscire di casa anche con un sacco dell’immondizia addosso e non cambiava nulla. La riconoscevano e fotografavano ogni volta. “Almeno ora sono sempre con Steve quando mi fotografano. Non sono più interessante per i pettegolezzi.”

“Meno male, oserei dire.” Jarvis aveva scosso la testa e poi si era voltato verso la porta da cui era appena rientrato Steve. Aveva un’espressione che non le piaceva per nulla.

“Steve, se hai qualcosa da dire, dilla subito. Anche se ho la sensazione che non mi piacerà.” Aveva mormorato l’ultima parte più a sé stessa che a Steve.

“Dovrei assentarmi per un paio di giorni.”

Jarvis li aveva guardati, e poi si era scusato e se ne era andato. Sapeva che, qualsiasi cosa si fossero detti, l’avrebbe saputo da Natasha stessa.

“Sono stupita che Polifemo ti abbia dato quasi tre mesi di ferie, sai? Però sono anche sempre più convinta che dovresti licenziarti dallo S.H.I.E.L.D. e fare altro. Magari riprendere l’accademia e darti seriamente all’arte.” Era davvero stupita del fatto che Nick Fury non lo avesse richiamato prima. Senza che Steve lo sapesse era entrata nel database dello S.H.I.E.L.D. ed era informata sulla maggior parte delle operazioni che avevano in corso. Se lo richiamava, voleva dire che avevano davvero bisogno di Steve e non perché Fury fosse stronzo. E neppure lei era così infantile ed egoista da battere i piedi per terra dicendogli di non andare.

“L’arte non dà da mangiare.” Steve le aveva sorriso. Avevano più volte fatto quella conversazione nel corso degli anni. Natasha aveva visto i suoi disegni e li adorava.

“No, ma puoi essere il mio mantenuto.”

Steve l’aveva guardata, rimanendo un attimo in silenzio e poi era scoppiato a ridere.

“Questa non me l’aspettavo!”

“Oh, dovresti sapere che sono una sorpresa continua.” Gli si era avvicinata e lo aveva attirato a sé per la maglia. “Mi basta che torni. Fai tutte le missioni che devi, ma torna qui.”

“Sai che lo farò.” Steve aveva accorciato la distanza tra di loro abbracciandola e baciandola.

 

✭✮✭

 

Aveva osservato Steve sdraiarsi sul letto accanto a lei. Osservava il suo petto muoversi mentre riprendeva fiato e l’unica cosa che aveva saputo fare era stata accoccolarglisi contro, appoggiando la testa sul suo petto. Le piaceva restare ad osservarlo dopo il sesso. Le faceva sembrare tutto ancora più reale di quanto non lo fosse già. Adorava ascoltare il battito del cuore di Steve. Sentire le sue mani che le accarezzavano la schiena o i capelli. Osservare il modo in cui le sue labbra si distendevano in un sorriso.

Soprattutto adorava quei momenti quando Steve era di ritorno da qualche missione. Non erano mai lunghe. Due, tre giorni al massimo. Non erano le missioni lunghe di una volta, in cui per settimane non aveva sue notizie e rimaneva in attesa di un messaggio che la informasse se Steve fosse rientrato o meno. Ora tornava dopo pochi giorni. E tornava sempre da lei.

Lo guardava e passava la punta delle proprie dita sulla sua pelle, mentre le dita di Steve passavano tra i suoi capelli corti.

“Mi mancano i tuoi capelli lunghi. Non che corti ti stiano male, ma lunghi ti stanno meglio.”

“Lo so, infatti li lascerò crescere di nuovo.” Aveva sorriso al ricordo di Steve che le tagliava i capelli per sistemare il disastro che aveva creato. Aveva giurato che non si sarebbe mai più tagliata i capelli da sola. Poteva essere un genio in diversi campi, ma quello della parrucchiera non faceva decisamente per lei. Steve sembrava invece un mago anche in quell’ambito. Era riuscito a dare una parvenza di decenza alla sua testa fino a quando non aveva avuto tempo di andare da una parrucchiera vera. E solo perché aveva una riunione importante con dei clienti giapponesi e voleva essere al massimo della sua professionalità. Aveva anche dormito quella notte e si era presentata puntuale alla riunione, stupendo tutti, Obadiah compreso.

“Sì, approvo.” L’uomo le aveva sorriso e lei sapeva che avrebbe potuto anche uccidere per continuare ad avere quel sorriso solo per lei ogni volta che ne aveva bisogno.

Spesso evitava di parlare a Steve del proprio lavoro. Anche perché Steve più volte le aveva detto che gli sembrava strano che lei, che inventava e migliorava così tanti macchinari per la medicina, contemporaneamente fosse il fornitore principale di armi dello Stato. Quello che non sapeva era che non ne producevano solo per gli Stati Uniti, ma anche per altri Paesi appartenenti alla NATO. E molte armi dello S.H.I.E.L.D. erano uscite dai suoi laboratori e officine.

Ma del resto neppure Steve le parlava delle sue missioni. Le risposte variavano da “bene” a “male” passando per “poteva andare peggio o meglio”, dipendendo dalla situazione. A volte tornava a casa ferito, mai nulla di grave, ma lei se ne preoccupava sempre.

Oggi era una delle missioni andate bene. In cui era tornato a casa solo con qualche graffio che era già completamente svanito.

E avevano passato pomeriggio e sera in camera da letto, facendo solo una pausa quando Steve era sceso per prendere qualcosa da mangiare. Si sentiva in quel momento come la rosa del Piccolo Principe. Amata e piena di attenzioni. E Steve era un principe azzurro in piena regola.

Le era venuta in mente una frase del libro di Saint-Exupéry. Lo aveva riletto dopo aver trovato Steve a leggerlo un pomeriggio, seduto sotto un albero in giardino. “Ma quando si diventa rossi vuol dire sì, giusto?”. E voleva proprio vedere come reagiva Steve.

Si era alzata un po’, quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi.

“Steve, io ti amo, ma tu non mi hai mai detto cosa provi per me. Mi ami?”

Lo aveva visto spalancare gli occhi e arrossire di colpo. Un rossore che aveva coinvolto tutto il suo viso, orecchie comprese. E Natasha aveva sorriso. Non le serviva sentirselo dire a voce alta se quella era stata la sua reazione.
Si era chinata e lo aveva baciato con dolcezza.

 

✭✮✭

 

Le cose stavano andando fin troppo bene perché potessero continuare a proseguire così per altro tempo.

Steve era partito per una missione più lunga. Le aveva promesso che sarebbe tornato prima del suo compleanno, ma a questo mancavano ancora due settimane.

E nelle due settimane dalla partenza di Steve, New York le era stata ancora più stretta.

Obadiah Stane l’aveva invitata a cena. Una cena di lavoro, le aveva detto. Una cena di lavoro a cui c’erano solo loro due e una candela in mezzo al tavolo. Non era la prima volta in cui Obadiah faceva qualche allusione ad una loro unione per guidare ancora meglio le Stark Industries. E questo l’aveva schifata. Quell’uomo aveva abbastanza anni da poter essere suo padre eppure aveva più volte fatto allusioni che le avevano fatto venire la pelle d’oca.

Avrebbe voluto liberarsi di lui. Anche se l’aveva vista crescere. Anche se era stato un amico di Howard e suo braccio destro per anni. Anche se più volte da ragazzina aveva potuto usare i laboratori dell’azienda proprio grazie a lui. Avrebbe voluto liberarsene, ma non poteva.

Fino al compimento dei suoi 21 anni non avrebbe potuto ereditare la carica di CEO delle Stark Industries. Quel ruolo era passato proprio a Obadiah Stane nel momento in cui Howard era morto. E anche una volta preso il ruolo di CEO, Howard aveva lasciato scritto nel suo testamento che Obadiah doveva rimanere al suo fianco per almeno cinque anni, per aiutarla a guidare al meglio l’azienda. Anche se la realtà era che nessuno si fidava di una ragazzina alla guida di un’azienda multimilionaria. Era geniale, ma era giovane e spesso finiva sui giornali per i più disparati motivi.

Quella sera con Obadiah c’era stata un’atmosfera strana. Era una di quelle situazioni che sperava di non dover vivere mai. Ma eccola lì, con il braccio destro di suo padre che mette una mano sulla sua e le dice che insieme avrebbero potuto fare grandi cose. Che con il cervello di lei, e le conoscenze di lui, le Stark Industries avrebbero potuto espandersi. Le aveva parlato anche di lavoro, dei nuovi contratti con l’Esercito, delle nuove armi da costruire. Appoggiava la sua idea di trasferirsi in California e gestire anche da lì l’azienda. Un po’ di sole le avrebbe fatto bene e magari poteva trovare anche un nuovo trastullo con cui passare il tempo. A Obadiah non era mai piaciuto il fatto che Steve si fosse trasferito alla Stark Mansion. Lo aveva ribadito più volte. Anche di fronte a Steve. Non faceva bene alla sua immagine convivere con un uomo a quell’età. Un uomo di cui nessuno sapeva niente, anche se prima o poi qualcuno avrebbe scoperto la sua vera identità.

Obadiah diceva di parlare per il suo bene, ma lei sapeva che non era così. Intuito femminile o qualsiasi cosa fosse, sapeva che non avrebbe mai dovuto fidarsi di quell’uomo. Non come aveva fatto Howard. Non mentre teneva la mano sulla sua e le proponeva di fare una gita nel weekend, per farle cambiare aria e aiutarla a distrarsi.

Gli aveva sorriso, come aveva fatto molte volte con molte altre persone. Aveva spostato la mano dalla sua ed era indecisa se fare finta di nulla o andarsene. Ma era rimasta. Stupidamente era rimasta e Obadiah questo doveva averlo interpretato come una vittoria dal modo in cui sorrideva. O dal modo in cui aveva molto esplicitamente proposto di prendere una camera da qualche parte. Immaginava che l’avesse anche già prenotata.

Quella sera era tornata a casa in taxi. Aveva lasciato la macchina al ristorante e si era stupita della lucidità che era riuscita a mantenere nel momento in cui aveva capito che c’era qualcosa di strano nel suo ultimo drink. Non lo aveva neppure finito quando lo aveva appoggiato sul tavolo e non aveva intenzione di bere oltre. Sapeva benissimo cosa stava succedendo. Anche quando era all’università le era capitato un paio di volte, ma quella volta c’era sempre Rhodes al suo fianco.

Questa volta avrebbe dovuto salvarsi da sola.

Si era alzata. Si era scusata. Aveva preso la propria borsa e quando Obadiah aveva proposto di accompagnarla a casa aveva rifiutato con un sorriso. A volte si stupiva di come riuscisse a fare sorrisi smaglianti in qualsiasi occasione. Anche in una simile.

Aveva fatto chiamare un taxi e poteva già immaginare i titoli dei giornali per il mattino dopo. “Tasha Stark esce ubriaca da noto ristorante della città”. E non avrebbe smentito nulla. Era più facile così che spiegare che il CEO della sua azienda aveva cercato di drogarla. Sarebbe stato solo uno degli ennesimi articoli su quanto la ragazza fosse fuori controllo, su quanto lo fosse sempre stata. Gli eccessi dei ricchi erano sempre un’ottima cosa con cui riempire la cartastraccia.

Quando era rientrata la casa era silenziosa, ma sapeva bene che Jarvis era ancora sveglio, anche se gli aveva detto di non aspettarla. Gli aveva mentito. Gli aveva detto che aveva bevuto troppo. Ma era sicura che l’uomo non le stesse credendo minimamente. L’aveva vista ubriaca più volte, e sapeva com’era da sbronza. Non le aveva tuttavia detto nulla. L’aveva guardata preoccupato e l’aveva mandata a letto.

Inutile dire che non lo aveva ascoltato. Si era rinchiusa in officina e aveva dormito lì. Aveva sempre trovato rassicurante rinchiudersi tra le proprie creazioni. Le dava tranquillità.

Mentre Steve non c’era aveva passato diverse notti rinchiusa lì dentro. Jarvis le portava da mangiare e restava a farle compagnia per vederla mangiare effettivamente qualcosa. Le diceva di andare a letto, ma fin troppo spesso si addormentava con la testa appoggiata al tavolo su cui stava lavorando.

Maggio non era stato un buon mese.

Dopo la cena con Obadiah si era vista rifiutare diversi progetti. Per motivazioni spesso assurde. Tipo l’aspetto estetico di un missile. Era un missile, non doveva vincere un concorso di bellezza. Non era stata neppure avvertita di una riunione piuttosto importante con degli investitori cinesi. E tutto ciò iniziava a darle fastidio. L’azienda era sua. C’era il suo nome sull’edificio. Ma nessuno la trattava come tale.

Era solo la viziata e problematica erede di Howard Stark di cui non sapevano cosa fare.

Ma lei sapeva quanto valeva. Sapeva che avrebbe fatto grandi cose in futuro, dovevano solo dargliene l’occasione. E ora capiva come doveva essersi sentita Peggy Carter quando era tornata a New York dopo la guerra. Come aveva dovuto lottare per avere il rispetto che meritava in un mondo maschilista che l’avrebbe preferita a casa a fare la moglie e madre perfetta.

Si sentiva allo stesso modo. Dopo aver mandato al diavolo uno del consiglio d’amministrazione quando le avevano rifiutato il progetto del missile, si era sentita dire di tornare a casa a giocare con i propri robot e di non intromettersi in affari che non capiva.

Per questo aveva passato più di una notte a studiare economia aziendale, finendo per addormentarsi con il viso sui libri. Voleva capirci di più e prendere lei in mano le redini dell’azienda. Non che le interessasse particolarmente. Lei voleva solo costruire, ma non voleva e non poteva dare a quei vecchi la soddisfazione di metterla da parte.

“Signorina Stark.” Aveva aperto gli occhi di scatto quando J.A.R.V.I.S. aveva abbassato la musica e aveva parlato. Poteva ancora sentire Blue (Da Ba Dee) in sottofondo e continuava a chiedersi come potessero gli Eiffel 65 essere diventati così famosi in tutto il mondo con una canzone simile. Non erano decisamente il suo genere, ma aveva finito per adorare quella canzone.

“Sì, J? Lo so, me ne vado subito a letto.” Si era passata una mano sugli occhi e aveva chiuso il libro che aveva di fronte.

“Questo sarebbe opportuno, ma dubito lo farà. Un’ambulanza sta arrivando. Il signor Jarvis ha avuto un malore ma ora è stabile. Le consiglierei di raggiungerlo nella sua stanza.”

Non se lo era fatto ripetere due volte. Ancora prima che l’intelligenza artificiale avesse finito di parlare era già uscita e stava correndo verso la stanza del maggiordomo. Aveva esteso l’intelligenza artificiale a tutta la casa. Lo aveva perfezionato e ora riusciva anche ad analizzare lo stato di salute di una persona. Perché le era comodo quando effettivamente dimenticava di bere o mangiare.

Non pensava che avrebbe sentito la voce di J.A.R.V.I.S. dirle che la sua controparte umana stava male e aveva addirittura bisogno di un’ambulanza.

 

✭✮✭

 

Maggio era stato un mese pessimo.

Quando l’ambulanza era arrivata, lei era salita assieme a Jarvis. Si rifiutava di lasciarlo da solo. Anche perché aveva semplicemente paura di rimanere da sola. In un momento simile non lo avrebbe sopportato. E non credeva di essere nelle condizioni psicofisiche per mettersi alla guida e seguire così l’ambulanza.

Era rimasta in sala d’attesa per quella che le era sembrata un’eternità. Aveva fissato il muro. Aveva bevuto il caffè delle macchinette e voleva denunciare chiunque avesse osato chiamare quell’intruglio caffè. Aveva camminato lungo il corridoio, avanti e indietro per diversi minuti, fino a quando si era stancata anche di quello.

Era rimasta da sola fino a quando non aveva visto arrivare l’agente Coulson e aveva fatto una smorfia. Non voleva lo S.H.I.E.L.D. attorno in un momento simile. Coulson le aveva spiegato che la sua intelligenza artificiale aveva informato Fury dell’accaduto, e il caso volesse che Coulson fosse a New York giusto in quei giorni.

Erano stati tutti molto attenti a non lasciarla da sola in situazioni di forte stress, soprattutto emotivo. Lei faceva finta di non accorgersene, ma non era stupida. Aveva notato il modo in cui tutti le giravano attorno, trattandola normalmente, ma stando attenti alle sue mosse.

Tutto perché si era rifiutata di vedere uno psicologo dopo la morte di Howard e Maria e aveva preferito affrontare la cosa a modo suo. Feste e alcol. E Steve era stato un santo a sopportarla in quelle prime settimane.

Coulson era rimasto anche se lei gli aveva detto che non c’era bisogno, che poteva tranquillamente tornare al lavoro, che se era a New York c’era sicuramente qualche missione in corso, che era in ospedale e che non avrebbe potuto fare nulla di pericoloso, e che non vendevano alcolici in quel posto. Ma Coulson era rimasto. Le aveva sorriso e si era seduto con lei sulle scomode sedie della sala d’attesa. Parlavano del più e del meno. Parlavano di Malibu e di come la casa fosse finita. Lo aveva invitato a fare un salto quando voleva. Che c’era una piscina con una bellissima vista sull'oceano. Che nella spiaggia privata poteva anche fare il nudista che lei non lo avrebbe spiato.

Avevano parlato così per giorni, cercando di ignorare il fatto che le condizioni di Jarvis stessero lentamente peggiorando. Jarvis era sempre stato in forma, ma l’età era impietosa per tutti.

Lo aveva riportato a casa dopo qualche giorno. Era convinta che un ambiente familiare potesse fargli del bene, e così sembrava in un primo momento.

Natasha passava la maggior parte del suo tempo nella stanza di Jarvis. Seduta sul letto accanto a lui e gli faceva vedere tutte le cose nuove su cui stava lavorando. L’uomo le sorrideva dolcemente, facendo qualche osservazione e spesso erano idee a cui lei non aveva proprio pensato.

Steve era tornato a casa prima della fine della missione. Fury lo aveva rimandato a casa. E lei li stava odiando tutti perché si sentiva come se la stessero trattando come una bambina che aveva bisogno che qualcuno la controllasse in continuazione.

Se la sarebbe cavata anche da sola. Sapeva cavarsela. Aveva anche vissuto completamente da sola per qualche tempo, ed era sicura che sarebbe stata in grado di farcela anche in quel momento. Aveva assunto qualcuno per occuparsi della casa e dei pasti. Anche se fin troppo spesso era stato Steve a cucinare qualcosa e portarlo su nella stanza di Jarvis in modo che potessero mangiare tutti e tre assieme. Nonostante le proteste dell’anziano maggiordomo che avrebbe preferito che loro due passassero del tempo anche da soli, senza la sua costante presenza.

Ma Natasha non ci riusciva. Non riusciva a staccarsi da lui e accettare l’idea che quelli sarebbero stati gli ultimi giorni che avrebbero passato insieme. Non riusciva a smettere di parlargli, di parlare della villa di Malibu e tutto quello che avrebbero fatto insieme. Non smetteva di parlare anche di tutte le invenzioni che non aveva ancora costruito e che lui avrebbe dovuto vedere. E non smetteva di ripetergli quanto gli volesse bene. Quanto gli aveva sempre voluto bene e che fin troppo spesso aveva desiderato avere lui come padre.

Jarvis aveva gli occhi lucidi mentre le diceva che lei era sempre stata la figlia che lui e Ana non avevano mai potuto avere, che era orgoglioso della donna che stava diventando e che lo rattristava sapere che non avrebbe passato molto altro tempo con lei, ma che era felice perché la stava lasciando in ottime mani.

Avevano seppellito Edwin Jarvis in una bellissima giornata di sole. Natasha aveva pianto. Questa volta non le importava di sembrare forte. Stringeva forte la mano di Steve mentre osservava la lapide con sopra scritti i nomi delle due persone che aveva amato come se fossero stati davvero i suoi genitori.

Steve le era rimasto accanto per tutti i giorni successivi mentre lei inscatolava per proprie cose. Aveva deciso che sarebbe partita come avevano predisposto prima di tutto quello che era successo nell’ultimo mese. Aveva deciso di lasciare tutto il resto com’era. La stanza dei suoi genitori. Lo studio di Howard. La stanza di Jarvis e Ana. La cucina con la vecchia radio ancora sulla mensola.

Le uniche cose che aveva inscatolato erano le sue. I suoi libri. I suoi vestiti. I suoi attrezzi.

Steve l’aveva aiutata con le cose più pesanti, lasciando poi tutto in mano ai corrieri che avrebbero spedito tutto in California. Dum-E compreso.

Non si era quasi resa conto di quel trasloco. Le sembrava tutto come avvolto nella nebbia. Come se non fosse reale. Come se tutto fosse solo un sogno strano da cui si sarebbe svegliata.

Neppure il calore del corpo di Steve era riuscito ad ancorarla alla realtà.

Era rimasta a guardarlo dormire. Non riusciva a prendere sonno anche se Steve la stringeva tra le proprie braccia.

E lo guardava. Cercava di scolpire nella propria memoria ogni centimetro del suo viso. Le labbra piene. Il naso perfetto. Le ciglia lunghe. Cercava di imprimere nella propria pelle il ricordo del calore della pelle di Steve. Del modo in cui le sembrava di bruciare quando Steve la toccava.

Cercava di memorizzare tutto, perché questa volta ad andarsene era stata lei.

 
   
 
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