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Autore: Koa__    06/07/2017    11 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Il dolore di Victor Trevor
 

 
 

 
Il più grande condottiero è quello che vince senza combattere
[L’arte della guerra]
 
 
 


Sembrava, e in fin dei conti era proprio così, che il piano che capitan Holmes aveva ideato per sconfiggere Moriarty fosse molto più elementare di quanto chiunque si fosse aspettato. Dopo aver occupato una manciata di minuti per rivestirsi e nel contempo occhieggiare John con più di un mezzo sorriso addolcito da un vago rossore, si decise a prender parola. Lo fece con quella maniera spiccia e svogliata che era tipica del personaggio che si era costruito e le cui sfaccettature erano sempre imprevedibili. Anche allora pareva che stesse compiendo uno sforzo disumano e che semplici spiegazioni gli gravassero sulle spalle in modo quasi eccessivo. John ritenne stravagante persino quel suo soffermarsi per un discorso, che giustificò convincendosi del fatto che, in quanto capitano, nutrisse una sorta di obbligo morale nei confronti del proprio equipaggio. Senza nascondere un certo interesse per quel suo atteggiamento, si ritrovò non troppo segretamente ad ammirarlo. Nel vederlo severamente impettito, così come s’era sistemato, con le spalle diritte e tirate indietro, pareva un Re o un importante dignitario. Sembrava per davvero qualcuno che era stato investito dall’Impero britannico di un qualche titolo e che dovesse a tutti i costi mantener austera persino la postura. Per quanto bello e maestoso egli si levasse al di sopra di loro, John non poté trattenersi dal trovarlo buffo. Aveva un atteggiamento alquanto sciocco e tanto diverso da come gli si offriva nell’intimità. Dopo più di due settimane di viaggio e conoscenza, ancora non aveva del tutto compreso il senso di quel modo di fare. Sherlock non mentiva di certo quando parlava con la propria ciurma e si atteggiava a quel modo. Anzi, era sincero. Tuttavia manteneva sempre quello strano comportamento rigido e impettito e che lo faceva assomigliare a un qualche tipo di uccello selvatico. Si aspettava sempre che da un attimo a quell’altro che si mettesse a danzare come gallo che vuole attirare la propria femmina o che gli spuntasse una cresta sopra la testa. Al pensiero fu costretto a trattenere risata e tanto da doversi mordere le labbra, distogliendo lo sguardo altrove. Ignorò stoicamente anche un’occhiataccia da parte Victor, il quale aveva preso a fissarlo di sbieco prima di accennare a un ghigno carico di furbizia. Non badò a nulla, agli altri pirati e nemmeno allo stesso capitano che ora lo fissava con fare interrogativo. Semplicemente rise. E rise ancora. Ma proprio mentre quel divertimento scanzonato gli si allargava in viso, la realtà tornò prepotente. Come la mannaia di un implacabile boia, ogni paura gli crollò nuovamente addosso facendolo vistosamente tremare. Un sussulto e poi il sorriso che si spense sino a divenire un cruccio arricciato, erano il chiaro segno che un qualcosa era drasticamente mutato in lui. Gli occhi, allegri sino ad allora, divennero tristi e intrisi di una preoccupazione malamente trattenuta. Inaspettatamente fu Victor a trascinarlo fuori dal baratro nel quale era caduto e proprio lui che non era mai serio fino in fondo, in quel momento si preoccupò d’intrecciare la mano con la sua e di stringerla con forza.

«Lo so» disse in un mormorio mentre John si faceva avvolgere di consapevolezze. Era un gesto piccolo, a stento visibile e probabilmente di ben poca importanza. Ma gli permise di non crollare e di rimanere ancorato a dove stava. Victor non aveva aggiunto nessuna parola, taceva e guardava avanti a sé fissando le acque della cascata. Eppure, ciò che aveva detto era stato sufficiente. Fu incredibile ma John si sentì capito. Lui era la prima persona dopo Sherlock a non aver bisogno di troppe spiegazioni, gli bastava un’occhiata per intuire il suo stato d’animo. Lui sapeva. Certo che sapeva. Victor Trevor sapeva molte cose. Nessuno aveva idea di quale sconquassante terremoto sentimentale gli si agitasse dentro, e cos’era in grado di fare la paura quando ben istruita da un amore totalizzante. Lui solo sapeva che cosa volesse dire amare Sherlock Holmes e vivere nel continuo terrore di perderlo. E proprio a loro due insieme iniziò a pensare, in un modo come un altro di tener duro. Avevano trascorso una notte meravigliosa. Sotto la cascata a fare l’amore ci sarebbe rimasto per il resto della vita e tra un bacio e una carezza di troppo, era riuscito persino a fargli promettere che qualsiasi cosa fosse successa con Moriarty, nessuno di loro avrebbe mai dimenticato quei momenti insieme. John ci sperava davvero, era convinto di poter salvare tutti in un qualche modo e che ce l’avrebbe fatta a tenere lui e Victor in vita. Anche se non aveva nessuna idea di come fare o di come Moriarty avrebbe agito, quella era la sola consapevolezza che gli era rimasta. Ora, però, e con quella felicità a corrergli sotto pelle e che non la voleva smettere di sconquassargli lo stomaco, pareva quasi difficile rimanere con i pensieri volti al presente. Ci riuscì unicamente grazie a quelle dita che, delicate, si strinsero attorno alle proprie. Padre Trevor non aggiunse altro, sebbene avesse potuto indugiare. Quel silenzio unito a quel leggero sfregarsi di mani, permise a John di respirare. Con lentezza, un alito dopo l’altro ritornò a vivere. Fu allora che lo disse, per la prima volta ad alta voce, quelle parole che da troppo stava trattenendo uscirono fuori.
«Sono innamorato di lui.» Lo aveva detto come in una confessione, a bassa voce. Mormorato su labbra bagnate di lacrime e umide ancora dei baci di Sherlock. Lo aveva detto a cuore più leggero e col fiato grosso di chi compie una fatica. Finalmente aveva ammesso di amare il pirata bianco e non c’era cosa più bella se non dirlo al diretto interessato, ovviamente (ipotesi che al momento era impraticabile). In tutta risposta, Victor stirò un sorriso e non rimase inerme, anzi, subito si portò la mano alla bocca baciando delicatamente le punte delle dita di John. In una carezza lieve, uno sfiorarsi impalpabile.
«Anche io, dolcezza e sono innamorato anche un po’ di te se vuoi saperlo. Siete le mie due mogli.»
«Smettila di scherzare!» lo rimproverò con una punta d’irritazione. Detestava sinceramente simili discorsi perché, in tutta onestà doveva davvero dirlo, non aveva ancora capito dove cominciasse lo scherzo e dove si nascondesse invece una punta di verità. C’era sempre un fondo di realtà nelle parole di Victor Trevor e le volte in cui tirava fuori i sentimenti e l’amore che lo univa al capitano, le volte in cui lo baciava o gli diceva di amare persino lui, uno Watson qualsiasi, John era sinceramente confuso. Anche in quel momento faticò a comprendere, era sicuro del fatto che fosse una burla e che non considerasse nessuno come “la propria moglie” ma doveva essere onesto quando aveva ammesso di amare anche lui.
«Caro, devi rilassarti» riprese qualche attimo più tardi, spezzando con prepotenza il flusso dei suoi pensieri. «Cristo santo, hai la giovialità di un condannato a morte o di uno che ha avuto la sventurata idea d’invitare il diavolo a cena. Andrà benone, vedrai. Il nostro Sherly sa quel che fa e poi credi forse che un uomo che ha appena scoperto le gioie della copula, permetta a un signor nessuno di ucciderlo? Dolcezza, se lo pensi è perché non lo conosci affatto. Adesso che gliel’hai dato non ti mollerà più, fidati del tuo Victor che le cose le sa tutte e per benino. È come quando ha scoperto l’onanismo, uguale uguale. Per una settimana non ha fatto altro che toccarsi. Quindi, tesoro, stai tranquillo perché non ha senso che muoia. Gliel’ho anche detto: “che vuol dire che muori?” Proprio nessuno. Ness…» No, a quello non rispose. Non disse nulla, perché la voce di Victor si era rotta e aveva tremato appena, accentuando unicamente la stretta alla mano di John che non aveva smesso di tenere saldamente. Non sapeva davvero cosa fare perché non era mai stato bravo a stemperare la tensione con dell’umorismo e tanto meno aveva idea di comportarsi per rassicurare le persone. Proprio lui che durante la guerra, al suo massimo della compassione mostrata, aveva guardato i soldati negli occhi brontolando una qualche bugia nella speranza che morissero in fretta. Pertanto non disse nulla, fidandosi ben poco della propria voce e ancor meno della sensatezza dei propri discorsi. Però si voltò. Di poco. Appena verso un Victor che ancora tremava e che si martoriava le labbra coi denti, in un tentativo malriuscito di non piangere. Eccola lì, tutta la fiducia e le parole naturalmente sincere. Tutti i bei discorsi sul doversi fidare del capitano e delle decisioni che prendeva. Ogni parola pronunciata, ogni convinzione fino a quel momento serbata gelosamente, tutto era crollato in un pianto silenzioso. Il dolore aveva la straordinaria capacità di convertire l’animo di chiunque e di stravolgere sicurezze e buoni sentimenti. In particolare, il dolore di Victor Trevor gli arrivò dentro al pari di una stilettata. Poteva sanguinare il cuore senza che fosse effettivamente ferito? John in quel momento, e gettando all’aria anni di studi, fu certo di sì.

«Stai peggio di me» gli disse, ironizzando un poco e strappandogli un mezzo sorriso che subito andò a spegnersi, tanto in fretta che pareva quasi la fiamma d’una candela in balia della tempesta.
«Scherzi, John? Sono almeno tre notti che non dormo e ogni volta che lo guardo, sento il lacerante desiderio di prenderlo con la forza e portarlo via. Lontano da tutti. Al sicuro da quel dannato Moriarty. La sai la verità? Che sono una pessima persona perché credo davvero che lui ce la farà, mi fido ciecamente della sua intelligenza perché so cos’è in grado di fare. Però ho paura lo stesso e nonostante io sappia. Ma nonostante ciò, più ci avviciniamo a quella montagna e più ho paura.»
«Non credere che non ti capisca, perché per me è lo stesso.»
«Una promessa» disse a quel punto il prete con rinnovata determinazione, prima di voltarsi con uno scatto verso di lui e fronteggiarlo occhi negli occhi. Occhi così grandi e azzurri, umidi di pianto. Dannatamente espressivi. «Giurami che qualsiasi cosa accadrà lassù, che l’uno si occuperà sempre dell’altro. Sherlock è un uomo straordinario, ma il suo animo è così fragile… se dovesse succedermi qualcosa lui potrebbe non prenderla bene.»
«E se dovesse succedere a lui questo maledetto qualcosa?» annuì John, tremando vistosamente e senza mascherare rabbia. Sussurrando tanto forte da gridare quasi «e se morisse, Vic? Se lui morisse.»
«Vorrà dire che farò quanto in mio potere per volerti bene, dolcezza e che ci sarò sempre per te, perché lui vorrebbe questo.» Il discorso cadde allora, con troppe paure e tormenti a oscurare i pensieri di John. Finì con quella promessa sussurrata appena, mormorata con la furia disperata di chi si aggrappa a tutto. Come un naufrago preda d’una mareggiata. Poco dopo, quando capitan Holmes prese a parlare, lui e Victor ancora si tenevano per mano.

A un dato momento di quel mattino presto, appena prima che si mettessero in marcia, il capitano prese posto accanto al focolare ormai del tutto spento. Senza che nessuno lo avesse concordato precedentemente, ogni pirata de la Norbury gli si fece vicino sino a formare un cerchio attorno alla sua importante figura. In un attimo lo avevano circondato e nel mentre, con sguardo caricato di una certa ansietà, lo studiavano attenzione. Coloro che aveva scelto di portare con sé, oltre a essere i più abili nella lotta e nei combattimenti, erano i più straordinariamente attenti alle esigenze altrui. Persino, e aveva dell’incredibile, a quelle del semi sconosciuto dottor Watson, la cui presenza a bordo era stata alquanto invasiva (almeno per i primi giorni). La loro reverenza nei confronti del capitano era a dir poco assoluta, era come se star su di un’isola deserta e per giunta divorati dagli insetti, fosse la loro unica ragione di vita. Il che lo si intuiva perfettamente dalla maniera che avevano di guardarlo, come se pendessero dalle sue labbra. Probabilmente mai ci si sarebbe abituato.
«Miei nobili pirati» esordì Sherlock Holmes, prendendo parola. Aveva in sé tanta determinazione, oltre che a un certo fare stoico nel tono della voce. Al solito, a John faceva impressione e così come gli era già successo si domandò come fosse possibile per una persona essere tanto diversa a seconda delle occasioni. Vederlo lì e a quel modo, tanto differente da come aveva avuto l’onore di poterlo ammirare, pareva quasi impossibile che fosse tutto reale. Questa volta, però, non rise. Non lo fece perché la mano di Victor aveva lo straordinario potere di ricordargli chi erano e quanto stava per succedere. E di ridere, proprio non ne aveva voglia.
«Ho invitato James Moriarty a raggiungerci sul picco più alto dell’isola. L’appuntamento è per il tramonto di oggi. Ho proposto un accordo equo ovvero quindici uomini per quindici uomini e uno scontro tra me e lui che si svolgerà senza interferenze altrui.»
«E credi che lo rispetterà?» intervenne invece John, con una punta di scetticismo che venne accolta dai presenti con un borbottio sommesso. Non conosceva molto bene capitan Moriarty, gran parte delle cose che sapeva di lui gliele avevano raccontate. Inoltre non lo aveva mai visto, salvo quella volta in piazza, durante l’impiccagione. Ad Antigua non si faceva mai vedere, neanche nel suo andirivieni dal fortino alla nave, ancorata al porto. Solitamente salpava o attraccava in piena notte, tanto che a stento i più mattinieri pescatori ne notavano la presenza. In paese di lui parlavano ben poco e quel niente che aveva capito di quel tale, lo aveva intuito proprio da Sherlock. Anche se già quel giorno all'impiccagione, aveva ritenuto eccessivo il suo modo di fare e viscida la maniera che aveva di parlare. Nonostante il suo atteggiamento fosse da giustificarsi, a John aveva comunque fatto una pessima impressione. Sapeva che non si trattava d’altri che di un capitano della nobile marina britannica il cui scopo era quello di acciuffare un pirata, ma col tempo (e grazie a un certo Holmes) aveva imparato a capire che l’apparenza contava assai poco e che tante facce si nascondevano dietro maschere di perfezione o finta generosità. Letteralmente, un saio non faceva di un monaco un sant’uomo, pensò dando un’occhiata a Victor e abbozzando una risatina. E se un prete poteva aver preso i voti, ma non professar più la fede, allora un uomo che vestiva della divisa della marina poteva anche non essere una brava persona.
«Se si trattasse di un pirata come me e voi non avrei dubbi sulla sua lealtà, ma James Moriarty non ha niente di nobile o di onorevole. Per lui non esiste la parola data, non c’è correttezza, né moralità. State pur certi che verrà almeno con trenta uomini.»
«E se sbarcasse con un centinaio di persone?»
«Tu dimentichi molte cose, dottore» borbottò quasi scherzosamente e prima di tornar serio. «Anzitutto abbiamo un enorme vantaggio su di lui. Un vantaggio che dovremo sfruttare perché l’occasione non si ripresenterà tanto facilmente in futuro. Moran avrà avuto bisogno del massimo della forza per tentare di arrembare la Norbury, il che significa che Jim non ha poi così tanti uomini di cui servirsi. Oltre a questo c’è una sua nota caratteriale che col tempo ho imparato a conoscere e che è senz’altro il suo punto più debole. Vedi, mio caro John, Moriarty pecca sicuramente di un gran numero di cose, ma la superbia è senza dubbio la peggiore. Lui non desidera sconfiggermi, è sicuro che ce la farà. Non verrà con trenta uomini per avere il doppio della forza rispetto a me, lo farà per farmi uno sberleffo. Per dimostrarmi che non accetta nulla e tanto meno imposizioni da un pirata che ha osato batterlo, prendersi gioco di lui pubblicamente e, soprattutto, che si è rifiutato di mettersi a suo servizio. Quindi» riprese sistemandosi meglio la lunga giacca scura «state ai miei ordini e non avrete nulla di cui temere. Anche perché nella ciurma di Sebastian Moran non ci sono altro che figli di cane e ubriaconi della peggior specie. Certamente non soldati addestrati.»
«Et le trésor?» chiese a quel punto il giovane francese, sbucando tra la piccola folla che si era assiepata appena dietro Sherlock.
«Per ora lo lasciamo dov’è. Aspettiamo prima di ricevere notizie da Lestrade, per il momento e con Jim in giro è più saggio non far nulla. Non nominatelo mai, non accennate alla mappa e nemmeno per parlare fra di voi. Mai. Perché Moriarty di sicuro non ha idea di dove sia stato sepolto. Ma ora basta chiacchiere, in marcia.» Il pirata bianco non aggiunse altro e, afferrata la sciabola, si addentrò nella giungla.
 


 
oOoOo
 


Una buona strategia sta alla base di qualsiasi vittoria, così diceva sempre il maggiore Sholto, suo superiore nell’esercito e che ai tempi era diventato addirittura un buon amico, uno dei pochi. Di certo il solo con il quale avesse mai sinceramente aperto se stesso, prima di conoscere quegli strani filibustieri, ovviamente. Ciò che nella memoria gli era rimasto della sua pacata saggezza e della delicata intelligenza, che all’epoca lo avevano fatto spiccare tra quella marmaglia di soldatacci idioti e spaventati, gli tornarono alla mente ore più tardi. Il pomeriggio era già alto, faceva un caldo infernale e John aveva da poco terminato di ascoltare un lungo monologo di Angelo, il quale si era gentilmente preoccupato di fargli conoscere quello che era il metodo che usava il capitano in situazioni di potenziale pericolo. Tuttavia, l’approccio alla discussione aveva avuto un qualcosa di comico perché non si sarebbe aspettato una ramanzina di quel genere. Da quanto gli era parso di capire, Sherlock intendeva affrontare uno a uno quegli uomini e sconfiggerli in un corpo a corpo o in duello o magari prenderli a testate, così come intendeva fare Fortebraccio. D’altronde non era per questo che si era portato i “migliori” de la Norbury? Eppure, dalla convinzione che dita di ferro aveva messo nella propria spiegazione, pareva per davvero che tutti lì fossero sicuri di non dover affatto sguainare la spada o di doversi sprecare il meno necessario. Ad ogni modo, era stato un monologo molto sentito. Di certo interessante e specialmente perché condito di tanto in tanto da imprecazioni, oltre che da tutti quei gesti con cui Angelo accompagnava frasi e concetti. Divertente era stato il vedere quanta foga metteva nel racconto, ma anche i commenti sporadici di Victor, che caricava il tutto con una qualche battuta di spirito, appena sufficiente a distender la tensione. Tralasciando gli scherzi, ciò che era venuto a sapere altro non aveva fatto che confermare taluni sospetti. Se quanto gli era stato detto era vero, Sherlock Holmes doveva essere meritevole di ogni leggenda sul proprio conto. Anzitutto non aveva mai ucciso nessuno e se del sangue veniva versato, ciò accadeva per difesa. Durante i rari combattimenti che capitavano, cercava sempre di non far mai veramente del male. Magari feriva a una mano o a un braccio, oppure a una gamba. Diceva che la vita valeva troppo per farsela levare da un pirata durante una ruberia, eppure John aveva la sensazione che ci fosse anche dell’altro che non ammetteva, perché un comportamento tanto insolito doveva avere qualche più profonda ragione di esistere. Tuttavia, aveva evitato di porre simili questioni. Conosceva Sherlock abbastanza da sapere che se si trattava di faccende personali, a malapena si apriva con lui. Quindi tacque e rimase ad ascoltare, profondamente affascinato dall’idea di un pirata che ruba e assalti velieri durante la notte, silenziosamente. Spesso nei porti, quando non c’erano che poche guardie sul ponte e nessuno a vegliare sulle stive appena riempite, lui e un gruppo di fidati uomini s’infilava non visto all’interno della nave e portava via quanto necessario. Non di più. Di scontri e battaglie, invece, ne facevano molto poche. Erano assai rari poiché non succedeva spesso che si azzuffassero con qualcuno. Sherlock diceva che era uno spreco di energie e che usando l’intelligenza si potevano ottenere i medesimi risultati, ma senza rischiare inutilmente la pelle. Per questo motivo, anche in quell’occasione, il piano che aveva ideato era decisamente ingegnoso e richiedeva un piccolissimo sforzo.

Aveva fatto fare loro il doppio del cammino rispetto a quanto necessario, almeno così gli era parso di intuire da alcuni discorsi di Fortebraccio, il quale si era detto sicuro che la posizione del sole rispetto alle loro spalle fosse mutata di ben tre volte. Perché lui, che era timoniere, certi particolari li notava. Il motivo di tanta fatica, John lo intuì per davvero solamente quando gli venne chiesto di fare silenzio e di non muoversi. In un primo momento si ritrovò confuso e spaesato, ma poi, acutizzando i sensi, effettivamente riuscì a percepire un qualcosa. Voci oltre la boscaglia fitta. Un fruscio di lame che fendevano la vegetazione caraibica, tagliando liane e foglie di mangrovie. Erano gli uomini di Moriarty, lo informò Victor a bassa voce e fu ancora lui a fargli capire che cosa stava succedendo, indicandogli dove guardare e in quale direzione camminare. Come diavolo facevano tutti a sapere come comportarsi se il capitano non aveva dato loro nemmeno un’indicazione? John avrebbe desiderato che qualcuno glielo spiegasse. Certo che quei tizi erano incredibili! Anzi, era Sherlock a esserlo e fu mentre ci pensava che lo vide. Se ne stava acquattato, con un ginocchio posato al terreno e si spostava a schiena curva come fosse un animale, muovendosi agile tra alberi e cespugli. Inizialmente, John si sentì un idiota perché non aveva proprio idea di che cosa stessero facendo, ma invece che agire a sproposito, fece come gli era stato ordinato. Rimase fermo e in silenzio. Oltretutto, Victor lo teneva ancora per un braccio e gli intimava di non emettere un fiato, pertanto credette che obbedire fosse l’unica cosa sensata da fare. Per fortuna poi tutto divenne più chiaro. A un certo momento si sentì trascinare a giù e Victor scostò per lui foglie da un cespuglio, mostrandogli ciò che doveva vedere. Ora, di fronte a dove stava c’erano una trentina di uomini, forse quaranta. Procedevano a passo non troppo spedito in direzione della scogliera, verso la cima più elevata della montagna, la quale non distava che poche miglia. Alcuni cantavano, altri invece ridevano. E per quanto si sforzasse di scorgerlo, notò immediatamente che Moriarty non era fra loro. John faticò davvero a comprendere che cosa dovessero farci, lì nascosti. Persino lui che in tattica militare non era mai stato troppo bravo, sapeva che sarebbe stato un suicidio affrontare tutti quegli uomini a viso aperto. Erano più del doppio e pesantemente armati, se si giudicava la quantità di sciabole e pistole che si portavano appresso. Poi, però, capì. Successe in un attimo e fu Sherlock a dare il via a quello che somigliava più che altro a una strana danza, che a un piano ben congegnato. Invece che musica e passi ritmati, c’erano mugolii e fruscii inascoltati da corsari distratti. Il primo a farsi avanti fu il capitano, che mise fuori gioco l’ultimo della fila con un colpo alla nuca. Appena dopo di lui Fortebraccio ne afferrò due per il collo, soffocandoli. Infine Angelo che si liberò di altri due e poi Sherlock, di nuovo. Uno dopo l’altro i filibustieri a servizio di Sebastian Moran, crollarono sotto a un giogo intelligentemente congegnato. Era un meccanismo perfetto e studiato nei più minimi dettagli, incredibile a guardarsi. Appena un nemico cadeva a terra, due lo trascinavano oltre la boscaglia, al di là del sentiero e lì lo disarmavano. A quel punto Roux, il giovane francese, si preoccupava di tappar loro la bocca mentre altri li legavano, assicurandoli contro gli alberi con una corda. Ne misero fuori gioco più di venti, con quel metodo infallibile. Senza mai farsi sentire e muovendosi con la grazia di dame e cavalieri, impegnati in un corteggiamento. Fu da non crederci, di sicuro la cosa più meravigliosa che John aveva mai avuto la fortuna di poter vedere in vita propria. Si gustò ogni passo di Sherlock, ogni movimento agile. Ogni balzo e saltello. Più di tutto, però e ciò che John si godette sino in fondo, fu quello sguardo. Sherlock aveva un qualcosa negli occhi che era profondamente diverso da quanto notato sino a quel momento. C’era una luce che gli illuminava il viso ed era un qualcosa di simile a quanto aveva già visto durante il duello amichevole che avevano avuto giorni prima su la Norbury, solo che questo pareva più intenso. Così come il sorriso, furbo che gli tendeva le labbra in un ghigno. Sì, era assolutamente meraviglioso. Bellissimo. Guardarlo gli impegnò diverso tempo fino a quando, in un imprecisato momento, fu costretto a tirar fuori la pistola e a quel punto di spazio per far gli occhi dolci ne rimase ben poco.

«Ehi, idioti!» Fu Victor a parlare. Per esser precisi gridò, urlando a gran voce e attirando le attenzioni dei pochi nemici rimasti ovvero un branco di ubriachi dai riflessi lenti e con un tiro pessimo. Con due pistole sguainate, quello strano prete sbucò fuori dal rifugio che si era trovato e si mise a sparare a destra e a manca mentre, spaventati, i corsari scappavano nelle più svariate direzioni. In effetti, John fece ben poco. Non aveva sparato neanche un colpo che tutto era già finito. Si era limitato a fermarne uno che tentava di fuggire, lo stese con un pugno ben assestato sul mento. Ma nulla di più.
«È stata la cosa più incredibile che abbia mai visto!» esclamò, ancora frastornato.
«Ti è piaciuto?» ammiccò Victor in sua direzione, ridendo e mentre riponeva le pistole nelle rispettive fondine «effetto sorpresa. Lo dicevo a Sherly che non dovevamo dirti niente. Ora hai capito chi siamo, dolcezza e soprattutto hai compreso di cosa siamo capaci?»
«Oh, siete… siete meravigliosi, ecco. Stupefacenti. Io… non credo di avere più parole. Pensavo che vedere il celebre pirata bianco sopravvivere a un’impiccagione fosse da non crederci, ma questo è ancora meglio. È stato stupefacente. Sherlock lo è stato, lui è… e come si muove poi. Mio Dio sembra un eroe dell’antica Grecia o un impavido cavaliere medievale. Oh, è bellissimo» concluse sospirando, prima di scoppiare a ridere come un idiota innamorato. Adesso lo voleva abbracciare, voleva stringerlo e baciarlo e poi dirgli che lo amava. Baciarlo di nuovo e farci l’amore. E non gli importava di esser visto da tutti. Lui doveva prenderlo e… e…
«Se n’è andato» gli disse Victor, annuendo mestamente mentre il sorriso di John si spegneva. Non aveva bisogno di spiegarsi, né di essere più preciso. Era bastato quello per capirsi e intendersi. Nemmeno era necessario insistere o parlare ancora di quello che provavano, già sapevano anche questo. E infatti, Victor Trevor tacque e, a sguardo basso, si lasciò cadere a terra. Rintanandosi nel proprio infinito dolore.

John si ritrovò solo nel bel mezzo di quella piccola radura, con troppi sentimenti a vorticargli nell’animo e un’agitazione crescente a divampargli nel petto. Il momento era giunto, infine. La resa dei conti, lo scontro finale. John non poteva quasi credere che stesse succedendo per davvero. La vita di Sherlock era in pericolo e non si trattava più di un’idea vaga nelle loro menti, ma di un qualcosa di concreto e reale, che stava succedendo proprio in quegli istanti. Sapeva cosa stava per accadere, se lo sentiva nelle ossa perché già un qualcosa di terribile era capitato in passato. Una scogliera a picco sul mare, la stessa dove era caduto il vecchio Joe. La medesima che stata causa di tutti i suoi guai e che aveva condotto John Watson sino a lì. Tutto quello riguardava anche lui, per quanto detestasse ammetterlo sapeva che era vero e che non poteva mancare allo scontro. Sì, John era sempre stato un uomo istintivo, passionale e preda di feroci e spesso violente emozioni. Se c’era coinvolta una buona causa o un qualcuno che amava o a cui voleva bene, non era mai riuscito a ragionare lucidamente. Pertanto non lo fece neanche allora, non vedeva perché dovesse mostrare sensatezza quando tutto ciò che il cuore gli urlava era di correr via. Sì, lo fece. Con passo svelto raggiunse Fortebraccio, il quale se ne stava in disparte rispetto agli altri e osservava con crescente preoccupazione il cielo. Conosceva quello sguardo, aveva trascorso molte ore in compagnia del timoniere nelle giornate passate.
«C’è aria tempesta» borbottò, con una punta di preoccupazione e nel mentre annusava l’aria.
«Fortebraccio, mi faresti un favore?»
«Certo, dottore» gli rispose, voltandosi appena in sua direzione e tirando quel sorriso sdentato.
«Ti prego di non farmi domande perché la risposta che ti potrei dare non ti piacerebbe, ma ho bisogno che tu dia una cosa a Victor da parte mia» disse sfilandosi la collana, la stessa che gli aveva donato Sherlock. La medesima che conteneva un ricciolo di capelli scuri e sopra al quale, John vi aveva appoggiato una sua ciocca bionda, da poco tagliata. «Dagli questa e digli che… che sono dannatamente sentimentale» concluse con un piccolo sorriso. Come da promessa, Fortebraccio non gli chiese nulla. Semplicemente annuì in silenzio e dopo si voltò, incamminandosi in direzione del prete. Appena si fu allontanato, John Watson, che mai e poi mai avrebbe avuto una buona idea in vita propria, prese il sentiero e iniziò a correre. Lo fece seguendo il tragitto che Sherlock si era creato attraverso la giungla. Lo fece col cuore in gola e col sangue che gli ottenebrava la vista e l’istinto che gli dava alla testa. Lo fece perché non aveva mai amato nessuno come amava lui. Corse e corse sino a che, dal nulla, udì una voce. Sottile. Melliflua e carica di un vago tono di scherno. John fermò il proprio passo affrettato, rimase in silenzio e con orecchio teso si mise ad ascoltare. Notò la sagoma di Sherlock, oltre gli alberi. Se ne stava immobile, impettito e rigido si rivolgeva al proprio interlocutore. Già perché fermo sul ciglio di una scogliera a picco su un oceano tristemente agitato c’era lui, James Moriarty.

«Ti sono mancato?»
 
 


Continua
 
 
 
Il titolo del capitolo va a formare una sorta di trittico, che si conclude qui. Dopo “La ballata di Victor Trevor” e “L’amore di Victor Trevor” questo è invece dedicato al suo dolore. Vi annuncio fin da subito che ci sarà una storia a sé dedicata a Victor, che uscirà dopo la fine della storia e che racconterà certi fatti (che per ragioni di pov) qui non avete potuto vedere.

Grazie a tutti coloro che stanno seguendo questa storia. Il prossimo sarà il penultimo. Sono quasi emozionata!
Koa
   
 
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