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Autore: Vegeta_Sutcliffe    09/07/2017    10 recensioni
Spesso la paura di un male ci conduce a uno peggiore.
(Nicolas Boileau)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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“Storia partecipante al contest Music Volume is OVER 8000! indetto da nuvolenere_dna sul forum di EFP” 

Nickname su EFP e sul forum: Vegeta_Stutcliffe
Titolo: The worst
Personaggi principali: Bulma, Vegeta
Pairing: Bulma/Vegeta
Traccia scelta: Lying from you, Linkin park

The very worst part of you, / La parte peggiore di te,
The very worst part of you is me / La parte peggiore di te sono io.


Note autrice:
Salve a tutti, gente!
Mi manifesto dopo mesi d’assenza con una storia, diversa dai miei soliti standard, o forse no?
Ho accettato la sfida che questo contest rappresenta per me, perché non mi sono fatta mai ispirare da una canzone e spero di non avere fatto una schifezza.
Ovviamente non posso prescindere da Bulma e Vegeta, questo no, mai!
Spero che voi vi divertiate a leggerla più di quanto non mi sia divertita io che l’ho scritta.
E’ stato difficile, e alla fine capirete il perché, ma spero che i miei sforzi ne valgano la pena.
Buona lettura!



Quello che era successo il giorno del torneo non poteva andare dimenticato, ma sembrava che avessero deciso di astenersi da ogni commento, di glissare l’avvenimento, di far finta di nulla, di vivere in un’illusione, una bugia. Ancora?
Il giorno si passava separati, la notte si condivideva lo stesso letto solo per un’abitudine che aveva però smarrito la consueta intimità; entrambi coricati dalla propria parte, con il lenzuolo tirato fino all’addome e un braccio a sostenere la testa. Pesante davvero pesante.
Contava e ricontava le persone che aveva ucciso, o per lo meno ci provava. Erano troppe e nessuno avrebbe avuto tanto tempo e senso dell’orrido per stilare un elenco del genere. Si accompagnava a questa consapevolezza, al ricordo del suo passato, un sorriso amaro, meglio un ghigno come gli era proprio.
Era Vegeta. Il principe dei Saiyan. Un mercenario di Freezer. Un mostro. Era una persona orribile, di quelle che potevano corrompere, di quelle che facevano ammalare solo con la vicinanza, di quelle che sarebbe stato meglio spingere da parte.
E quelle immagini cozzavano con quelle di uomo devoto e padre presente. Quella era una maschera, una costrizione, un ruolo recitato, nemmeno sempre nei migliore dei modi, che tradiva nostalgia di quello che era stato.
L’unica soluzione accettabile era quella di dividersi per sempre, ignorare gli ultimi 10 anni e regredire al momento in cui non si conoscevano, tornare alle vecchie occupazioni, alle certezze del passato. Rinnegare la loro coppia e tornare ad essere identità distinte, separate e libere. L’unica soluzione poteva essere tornare ad essere ognuno se stesso.
L’ipotesi di una separazione rimbombava sempre in testa. Si immaginava sempre una valigia, piena di niente di valore: piena di astio, di rimpianti, piena di rimorsi, piena di ricordi che non avrebbe voluto.
Sospirò pesantemente, non era la prima volta da quando il sigillo di Babidy si era impresso sulla sua fronte,come un marchio a fuoco, e non riuscì a non pensare alla persona orribile che era. Non riusciva a non pensare a quanto la sua smania, il suo egoismo avessero potuto ferire i propri cari, suo figlio, perchè un bambino non sarebbe dovuto rimanere orfano di padre per un capriccio vacuo, ma soprattutto aveva ferito la persona che amava, di un amore che in passato non aveva mai provato e che certamente non avrebbe più riprovato in futuro.
L’amore non era mai stata un’abitudine, o meglio aveva amato sempre e solo sé, più di tutto e più di tutti e trovava estremamente difficile mettere davanti i bisogni altrui.
Si arrovellava continuamente il cervello e si malediva per tutta la sua strafottenza, la mancanza di riguardo e quell’arroganza congenita che era stata motivo di tanti, troppi sbagli e tanto, troppo dolore. Peccato averlo capito troppo tardi.
Il problema era che non riusciva a pensare diversamente da quelli che erano stati gli insegnamenti e le interiorizzazioni della tenera età. Si reputava tanto intelligente, sapeva di esserlo, eppure continuava ad avere un atteggiamento ottuso e pregiudizievole. La sua convinzione era che poteva esistere solo un unico modo di vivere, di sentire; solo un determinato insieme di fini a cui poter aspirare, diversamente avrebbe meritato la derisione, il biasimo altrui. E mai era stato un  problema il fatto che le sue velleità infantili e viziate avessero potuto distruggere la vita di alcuno. Aveva sempre creduto che tutto gli fosse dovuto e le sue peregrinazioni abituali avevano sempre rafforzato il suo sentire.
Era ancora l’abitudine, o la sua più profonda natura?, quella compagna fedele fin dall’adolescenza, che ora metteva in discussione quel che aveva costruito nel presente. La loro famiglia, il loro bambino erano tutto ciò che in fin dei conti non voleva perdere, le cose più importanti e non aveva avuto la capacità di proteggerle, da sé e da ciò che aveva deciso di fare, da quello che si sentiva in diritto di fare.
I soliti deliri di onnipotenza, che si concretizzavano nelle azioni.
I suoi pensieri erano una catena.
Digrignò i denti, per quell’impotenza che si sentiva addosso. Avrebbe voluto parlare, scusarsi, ma il suo orgoglio era un impedimento. Come sempre. Ma quella volta avrebbe dovuto far appello al raziocinio, mettere a tacere l’orgoglio e risolvere la situazione. La posta in gioco era alta, eccessivamente e non poteva permettere al ricorso di una disgraziata disposizione di rovinare quel che poteva essere il futuro. Quello che entrambi volevano.
Si girò su un fianco e cercò di coprire la distanza tra di loro velocemente, ma senza fare gesti bruschi che avrebbero potuto rompere quel equilibrio così delicato. Era difficile rinunciare alla solita irruenza.
Se da parte sua ci fosse stato astio, sarebbe stato comprensibile; nei suoi panni, avrebbe avuto la stessa reazione.
Prese la sua mano tra le proprie e la strinse forte perché quel contatto mancava da tempo. La osservò nel suo solito darsi; così diversa dalla sua, eppure così bella ed era così maledettamente doloroso non sentirla precorrere con malizia il suo corpo.
Si portò la mano vicino al proprio volto e la riempì di un bacio dopo l’altro, perché quel contatto non stancava. Poggiava le sue labbra sul dorso, assaporando la sua pelle salata; accoglieva le sue dita in bocca, succhiandole con quella lascivia che almeno inizialmente aveva reso possibile il loro rapporto.
In risposta solo uno sguardo confuso e da qualche tempo spento, forse deluso, forse ferito.
“Mi dispiace.” Era un sussurro, con voce debole; difficilmente si scusava, aspettava sempre lo facessero gli altri.
Se non che quella frase aveva reso tutto più strano, incoerente, paradossale.
“Come?” Rispose con voce incredula.
“Ho detto che mi dispiace. Sto dicendo che è stata colpa mia quel che è successo.”
Il materasso cigolò sotto il peso del suo movimento, per ritrovarsi nella sua stessa posizione, come se avessero davanti uno specchio che rimandava la propria immagine.
Accolse con stupore la sua istanza di perdono, non essendo capace di trovare repentinamente una risposta adeguata.
Lo sbaglio era connaturato alla loro natura di esseri viventi, privati di vita eterna e previdenza. Lo sbaglio era la caratteristica di chi, costretto ad errare, aveva coraggio di farlo. Quella risoluzione di chi non cede facilmente ad una bieca e sorda necessità, ma opera per il cambiamento.
Entrambi probabilmente vantavano più sbagli che scelte giuste, ma non entrambi, come tali, li riconoscevano e qualcuno dei due si trincerava dietro l’ostinata illusione di stare facendo bene. Quel reputare che oggetti della propria volontà di volontà potessero essere pure gli altri era stato in vero il più esiziale degli errori. Il più esecrabile. Ritenersi migliore senza fondamento reale, correggere con alterigia e non con diritto erano state le cose peggiori.
“Vegeta, mi dispiace. So di aver sbagliato.”
Bulma aveva detto di amare Vegeta. Gliel’aveva confidato, quando lui non era ancora certo di comprendere il significato letterale di quella parola pronunciata in una lingua straniera, quando, a discapito del significante, non ne aveva mai inteso l’essenza.
Bulma si era improvvisata maestra d’amore, quando ancora non si era resa conto che lei aveva dimestichezza solo con bulloni e cacciaviti e poco coi sentimenti.
Bulma aveva detto di amare Vegeta, per considerarlo solo un blocco di cera da scolpire a suo piacimento. Aveva provato a cambiarlo, a rimodellarlo in un maniera tale che probabilmente l’uomo con cui aveva passato gli ultimi anni non era Vegeta.
Lo aveva costretto in una vita che non era la sua, gli aveva imposto un codice etico e pratico estraneo, aveva cercato di combattere la sua natura per puro egoismo.
Se Vegeta non fosse stato più lui, se fosse stato un’altra persona nel suo involucro, lei sarebbe stata salva da una coscienza educata ad essere intransigente, sarebbe fuggita dai sensi di colpa e dai dilemmi morali, ché dormire con un mostro, con uno sterminatore di popoli non era né buono né giusto.
Non poteva condannarlo per avere cercato di usare la violenza per costruire una situazione ideale e ricercata, quando lei aveva fatto esattamente la stessa cosa.
Quel mostro era reale. Vegeta aveva ucciso, uccideva e avrebbe continuato a farlo.
Non poteva condannarlo per avere seguito la sua natura, il suo istinto. Non poteva condannarlo per aver cercato di rimanere fedele alla propria identità.
Non poteva condannare l’uomo che amava e che per lei aveva sacrificato la propria vita due volte: essendo un altro e smettendo di essere interamente per un altro.
Che in ultima analisi Vegeta, lungi dal volerlo giudicare in un’ottica troppo semplicisticamente manichea tra bene e male, avesse insegnato a Bulma cosa voleva dire amare, o per lo meno avesse amato più e meglio di lei, faceva risultare chiara, anche se dolorosa, un’unica conclusione:
“Sono io la parte peggiore di te”.


 
  
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