Prologo,
seconda parte – Chained to Love
15
agosto 2014, Tokio.
Finita la
maturità, nella
quale il ragazzo aveva brillato più che egregiamente con
conseguente borsa di
studio per praticamente qualsiasi università prestigiosa del
paese, Kidou Yuuto
corse nostalgicamente al campetto da calcio, intenzionato a dare la
splendida
notizia a tutta la squadra.
Eppure, quando arrivò, notò
con amarezza che non c’era traccia di alcun membro della
famosa Raimon, e che
il campo era stato messo a dura prova da un gruppetto di ragazzetti
scalmanati
che inneggiavano alla leggendaria squadra di cui era stato il regista
per anni.
Assalito da un senso di
amarezza si accucciò lungo i gradini e si sedette accanto
alla fresca erba del
lungo fiume, dove ricordava di aver pianificato, sudato, pianto e
esultato
assieme ai suoi vecchi compagni.
Perché avevano lasciato che
tutto finisse così? Certo, non che lui avesse fatto qualcosa
per effettivamente
favorire l’incontro e l’unione della squadra
nell’ultimo periodo, perché la
scuola e il lavoro lo avevano tenuto parecchio occupato fisicamente e
mentalmente, e quelle rare volte che aveva provato a ricostruire il
già
parecchio incrinato rapporto aveva rinunciato quasi subito a causa
delle
nefaste notizie che uno sconsolato Kazemaru gli aveva riportato:
Goenji e Someoka erano spariti
nel nulla, occupati a inseguire un percorso di vita sì
importante, ma
misterioso; Hiroto e Midoriwaka, compagni di una vita, si erano
trasferiti
assieme a Okinawa per dirigere un hotel privato assieme in visita di
una
possibile convivenza matrimoniale, mentre Fubuki, tornato in Hokkaido
dopo l’ipotetico
ritrovamento delle salme della famiglia, non era mai tornato indietro.
Ma la cosa peggiore, che
davvero sancì la fine di ciò che restava della
Raimon Eleven dopo l’incidente fu
l’abbandono di Endou.
Quando Kidou seppe che il
grande capitano della Inazuma Japan aveva ritirato la sua iscrizione
annuale al
club di calcistica per risparmiare tempo e soldi da dedicare
all’amata Natsumi,
tutto aveva cominciato a perdere la maschera e a rivelarsi per
ciò che davvero
era: la fine della leggenda.
Ora, non erano più loro a
giocare in quell’improvvisato campetto desiderosi della
vittoria suprema, ma un
gruppetto di bambini sorridenti dalla maglia argentata, che colpivano
senza
abilità un malandato pallone ridendo e scherzando.
Uno di loro, un bambinetto
dai capelli bruni e il sorriso vispo, sovrastò con la sua
voce i brusii dei
compagni. -Sono Goenji Shuuya, PAWH! Guardate il mio devastante
“Tornado di
Fuoco” che distruggerà la tua inutile
“Mano di Luce”, portiere Endou! - e
urlata tra le risate, quella frase spiccò un balzo
improvvisato, dimenò
buffamente le gambe e tirò in porta verso un altro
bambinetto biondo dall’espressione
decisa.
Questo, esibendo un
tiratissimo sorriso, ruotò un paio di volte stringendosi le
mani ed esplose in
una cristallina risata urlando – “Mano del
Colosso!” - quando la palla si
infranse sulle sue mani con un grande tonfo.
Un altro bambino, più alto
degli altri e robusto intercettò la palla lanciata dal
portiere, e si rivolse al
primo bambino che aveva che aveva tirato, incrociando le braccia con il
pallone
fra i piedi.
-Come al solito i tuoi tiri
erano troppo deboli, ti mostrerò la potenza della mia
micidiale “Tormenta
Glaciale”! - e
toccato il foulard della
mamma che portava al collo divaricò impacciatamente le
gambe, si mise in posa e
poi tirò velocemente in porta.
Il tiro fu intercettato da
una bambinetta dai capelli raccolti in un nastro colorato, la
giacchetta legata
sulle spalle che svolazzava nell’aria e un paio di
ingombranti occhiali da sole
che le cascavano sul naso, che con un veloce e talentuoso colpo di
tacco fermò
con semplicità la terribile “Tormenta
Glaciale”.
-Mikimura! - richiamò il
ragazzino padrone del tiro. -Ti ho detto che tu non puoi giocare
vestita così?!
La bambina sorrise e si
sistemò gli occhiali cadenti, senza scomporsi.
-Sei solo invidioso perché Kidou
Yuuto ha bloccato il tuo tiro. Non vali nemmeno la metà di
Fubuki Shirou,
mentre io sono sulla buona strada per diventare come il capitano della
Royal
Akademy! -
Kidou in quel momento,
udendo quelle urla gioiose, sorrise dolcemente, commosso dalla
tenerezza di
quella adorabile imitazione. Ma mentre il suo sguardo era perso nei
ricordi e
nella tenerezza, sentì il cellulare vibrare qualche istante
nella sua tasca: un
messaggio.
-Non puoi essere Kidou
Yuuto, te l’ho già spiegato un mucchio di volte!
Sei una femmina e le femmine
non sono ammesse nella Raimon! Al massimo puoi fare la manager!
–
Era un messaggio anonimo,
quello che compariva sul display.
-Non voglio fare la manager,
io voglio giocare a calcio! Voglio fare Kidou, mi sto allenando per
fare il
pinguino imperatore numero 2, e allora vedrete come la
metterò in porta! –
Kidou osservò intensamente
il messaggiò sul display, e sussultò
ripetutamente di fronte a quelle piccole
paroline di fronte allo schermo, sentendo quasi le lacrime
raggiungergli e lo
stomaco attorcigliarsi intorno al suo debole cuore.
“Torna
da me. Terza via traversa
di Corso della Stazione, numero 23. Terzo appartamento a
sinistra.”
Yuuto
sentì una violenta scossa contrargli i polmoni e
si sentì pervaso da un violento giramento di testa,
poiché sapeva quale fosse
il proposito di quell’emittente misterioso.
Da circa 6 mesi, dopo che aveva visto quella notizia
alla televisione, non aveva potuto pensare ad altro, non era riuscito a
spostare i suoi normali pensieri su nulla che non fosse un peccaminoso
desiderio, così sbagliato da farlo avvampare dalla vergogna.
Non aveva trascurato i pensieri riguardanti la
maturità, ovviamente, ma una volta chiusi i pesanti libri
ecco che quella
fantasia, quella curiosità, quel desiderio si trasformava in
un dolce e
imbarazzante film mentale erotico.
Da ragazzino, mai avrebbe pensato di anche solo
minimamente immaginare ad una cosa così sbagliata e sporca.
Eppure, lo aveva
fatto e continuava a farlo, facendosi cullare dal piacere che essa gli
provocava,
come vittima di un nefasto incantesimo. Sapeva di esserlo, sapeva di
essere
sotto l’effetto di uno sporco gioco perverso e malato, lo
sapeva.
Per tutta la sua infanzia e la sua adolescenza quell’uomo
aveva tessuto la sua tela e lo aveva impigliato nei suoi fili
lussuriosi, in un
perenne complesso di Elettra maschile e vischioso al punto giusto,
così che si
risvegliasse proprio nel momento da lui desiderato. Ed era quello il
disgraziato momento.
Avrebbe voluto opporsi, segnalare quel messaggio alle
autorità e fuggire lontano da quei bavosi pensieri, ma il
suo sguardo rimaneva
immobile mentre le sue mani stringevano il piccolo cellulare sognanti. Sono imbarazzante. Pensò. Ripugnante.
Non poteva farci nulla, sventuratamente. Era un uomo
adesso, non aveva più 14 anni, la sete della passione e il
desiderio di giacere
tra le braccia e le attenzioni della figura che aveva sognato per
così tante
notti era troppa.
Non poteva fuggire, lo aveva intrappolato.
Improvvisamente, un acuto grido irruppe nelle orecchie
di Kidou, per pochissimi istanti. Improvvisamente si ritrovò
sommerso dai
ragazzini emozionati ed esultanti. Gridavano il suo nome e inneggiavano
alla
leggendaria squadra, riempiendolo di domande e richieste.
La bambina, invece, si era rapidamente liberata dal
suo piccolo vestito di carnevale ed era rimasta ferma di fronte al
pallone,
rossa di vergogna e di emozione.
Kidou sorrise caldamente ad ogni bambino, accarezzò
loro le teste e scambiò con loro qualche divertente battuta,
alleviando per
qualche minuto il dolore nel suo cuore.
Sotto il sorriso smagliante dei fanciulli autografò
zaini e giubbotti, palloni da calcio e guantoni da portiere.
-Un giorno noi giocheremo a calcio esattamente come la
Raimon, saremo forti come voi! –
-Ehi Kidou! Sono un centravanti come te, sai? -
-Giochi ancora con l’Inazuma Japan? -
-Come è stringere la coppa del Football Frontear
International? -
-Ci insegni le tecniche della Royal? -
-Posso vedere i tuoi occhi? –
Accontentati i bambinetti con ogni loro richiesta che
fosse possibile, Kidou si sentì il cuore scaldato dalla
felicità dei loro visi.
Pensò ad Endou, a Kazemaru, a Someoka e agli altri,
immaginandoli accanto a
lui, impegnati ad arrossire, a pavoneggiarsi delle loro imprese
leggendarie,
come solamente loro sapevano fare.
Poi, quando i bambini si appartarono qualche metro più
indietro chiacchierando e ridacchiando Yuuto si alzò in
piedi per avvicinarsi
alla ragazzina.
-Mi piace molto il tuo costume. – disse dolcemente,
sorridendo alla piccolina.
Quella cercava disperatamente di nascondere ogni lembo
di pelle del suo piccolo costume, arrossendo deliziosamente di fronte
al suo
idolo. -Come ti chiami? – sussurrò dolcemente alla
piccola avvicinandosi a lei.
-Miki. - sussurrò lei in un piccolo respiro timorato.
Kidou le levò dolcemente le mani dall’enorme
giacca
rossa e, con un delicato gesto fraterno, gliela posò sulle
spalle sorridendo e
allacciando le maniche rovinate attorno alle spalle della piccola.
-Ecco, ora
sei quasi perfetta. Ti piace giocare a calcio, Miki? -
-Si… io da grande vorrei fare parte di una squadra.
–
Disse la bimba, finalmente sognante.
-E in che ruolo vorresti giocare? –
-Non mi importa, vorrei solamente che qualcuno mi
facesse giocare. – Rispose lei, incrociando le braccia e
lanciando un’occhiata
di odio contro i suoi compagni nell’angolo del campo.
Kidou sorrise, intenerito. Le scombinò i capelli ricci
e rossastri e poi le tese la mano, come un cavaliere di fronte alla
propria
dama.
-Beh, signorina… se vuoi giocare…giochiamo! Le va
di
fare qualche tiro con me? –
La bambina improvvisamente spalancò gli occhi e bocca
in un’espressione di sorpresa, eccitazione e meraviglia. Le
sue iridi chiare si
dilatarono come in un sogno ad occhi aperti. -Si! –
urlò concitatamente,
attirando l’attenzione dei compagni ancora appartati.
Kidou Yuuto fu impegnato, con uno smagliante sorriso e
davanti ad una sempre più numerosa folla di bimbi e genitori
appena arrivati,
in una splendida partita contro la bambinetta dai capelli rossi, che
faceva del
suo meglio per eseguire passaggio abili.
Ogni tanto, davanti alle esultazioni commosse di quella
che aveva riconosciuto come la madre della bambina, si faceva sfilare
la palla
dai piedi, si faceva dribblare e attaccare, ricambiato dal meraviglioso
sorriso
della piccola.
Poi, la fece tirare in porta. Il pallone si infranse
nella rete con una inusuale forza per una bambina, evidentemente
detentrice di
un insospettabile talento.
Miki rise di gusto, felice.
Poi si avvicinò a Yuuto, sorridendogli innocentemente.
-Ho vinto. - urlò senza presunzione ma solo con grande
emozione.
Saltellò nuovamente e si sbracciò in direzione
della
madre, mostrandole come davvero aveva finalmente realizzato il suo
piccolo
grande sogno. Poi si voltò nuovamente, rivolgendosi a Kidou.
-Posso abbracciarti? – Senza nemmeno aspettare una
risposta oppure un cenno di intesa si gettò contro il
ragazzo, stringendogli i
fianchi in un abbraccio di immensa gratitudine.
Kidou la strinse a sé. Ma improvvisamente, quel
nefasto pensiero gli si aggrappò ai polmoni, rendendogli il
respiro pesante.
Avrebbe voluto essere innocente come quella bambina, avrebbe voluto
davvero.
Ne era sottomesso, psicologicamente e fisicamente, perché
la sua mente, nel torbido della sua adolescenza, bramava di essere
sottomessa
in modo fisico: lo voleva.
Lo bramava dentro di sé, e per quanto avrebbe provato
ad opporsi Kidou sapeva che se il comandante avesse voluto, lo avrebbe
fatto
suo senza alcuna resistenza. Era un peccatore.
La bambina si staccò dal suo corpo continuando a
sorridere. – Grazie, sei il mio idolo, Kidou Yuuto. Un giorno
diventerò
esattamente come te! -
Lui sorrise forzatamente, ancora spezzato da quei
viscidi pensieri.
-Si, sono sicuro che lo diventerai. Sarai una
grandissima centravanti, hai un tiro di primo ordine! Molto
più dei tuoi amici
sinceramente. – le strizzò debolmente
l’occhio, accarezzandole nuovamente il
viso infantile. Poi si fermò a pensarci, e quando se ne
sentì completamente
sicuro si accovacciò nuovamente accanto alla bambina.
-Puoi farmi un favore? – Le prese le mani fra le
proprie, fissandola intensamente negli occhi.
Qualche ora dopo, alzandosi da quel letto sudato,
Kidou Yuuto ripensò alla bambina e alle sue pire e deliziose
iridi, soffermandosi
a pensare a quanto avrebbe voluto, in fondo all’animo,
conservare ancora una piccola
scintilla di quella purezza e voglia di continuare a combattere per i
propri
sogni.
Il vero Kidou Yuuto, pensò, non sarebbe mai finito in
quella situazione. Non avrebbe abbandonato la Raimon, prima di tutto, e
sicuramente non sarebbe finito nudo in quella stanza scura a dormire
accanto al
loro peggiore nemico.
Qualche ora dopo l’incontro con la bambina, Kidou si
alzò ancora terribilmente confuso e spezzato da
quell’letto sfatto,
accovacciandosi per qualche minuto sul pavimento.
Per quanto si sentisse violato, sporco, infastidito da
quella continua sensazione di reminiscenza dei palmi
dell’uomo, della lingua,
di ogni lembo della pelle che gli si era stata strusciata addosso,
percepiva
ancora l’immenso piacere provato al culmine quella nottata
terribile e
immensamente deliziosa.
Si trascinò accanto allo specchio, si osservò
nudo nel
riflesso scuro. Il suo sguardo rosso, con quelle iridi ora scoperte,
scintillava nell’oscurità, finalmente libero dalle
lenti che per anni li
avevano celati allo sguardo altrui.
Il comandante, quando gli aveva osservato il viso, lo
aveva preso tra le sue mani, accarezzandogli le palpebre con desiderio
e
delicatezza, sussurrandogli all’orecchio cose che non avrebbe
mai voluto
sentirsi dire da nessuno al di fuori di colui che amava. Lo aveva
bramato per
così tanto che, una volta sentitosi dentro di lui, Kageyama
Rei non aveva
smesso un secondo di sussurrargli ogni cosa sul collo, con quella voce
roca che
lo aveva fatto impazzire.
Era vergognoso
– Pensava. – L’ho
amato così tanto. –
aveva aggiunto subito dopo ogni centimetro della sua pelle.
Si. Lo aveva amato così tanto. Lo aveva amato
così tanto.
Alla fine, con vergogna immensa, Kidou pianse davanti
allo specchio, accovacciandosi per coprire la propria
nudità. Le lacrime gli
rigarono il viso come un ruscello su una montagna, e i suoi singhiozzi
venivano
coperti dai respiri del comandante, avvolto nelle coperte del letto,
anche egli
nudo di fronte alla verità.
Come avrebbe fatto a dire la verità al mondo? Come
avrebbe fatto a spiegare al padre che, invece di essere ad informarsi
per il
proprio futuro era caduto fra le braccia dell’uomo che tanto
aveva odiato.
Oh, se suo padre avesse potuto udire i suoi respiri e
i suoi gemiti mentre le spinte forte gli provocavano un tale piacere lo
avrebbe
cacciato, lo avrebbe ripudiato, il suo futuro sarebbe stato distrutto
da un
unico, minuscolo e peccaminoso errore.
Di fronte a quello specchio, Kidou Yuuto promise a se
stesso che mai avrebbe lasciato che qualcuno scoprisse ciò
che era appena
accaduto, senza sapere che quella promessa lo avrebbe trascinato in una
spirale
di terribile perversione per i successivi 4 anni.
-Puoi farmi un
favore? – Le prese le mani fra le proprie, fissandola
intensamente negli occhi.
-Tutto quello che
desideri. Per te farei qualsiasi cosa. – rispose lei
sorridendo sempre più
intensamente.
-Promettimi che non
farai come noi, promettimi che non smetterai mai di giocare. Ti farai
tanti
amici e non voglio che tu possa mai e poi mai lasciare andare quello
che ami.
Non devi fare questo errore, promettimelo. -
-Promesso. Te lo
prometto davvero. -
Kidou sorrise,
finalmente placato nell’animo. -Voglio che tu possa ricordare
questa promessa.
Voglio farti un regalo, ne hai più bisogno di me. -
Kidou Yuuto lasciò
nelle mani della bambina i suoi amati occhiali da aviatore, facendola
crollare in
ginocchio dalla commozione.
Lei conobbe meglio il
suo sogno e lui lasciò definitivamente andare i rimasugli di
una speranza
sepolta già da tempo.
17
luglio
2020, Okinawa.
Di tutto
ciò che avevano potuto comprare, non c’era
mai stato niente di più speciale e bello del pianoforte
nella sala hall.
Midorikawa adorava ascoltare il marito concentrarsi,
prendere un bel respiro e poi cominciare a suonare di fronte alla
piscina
pullulante di clienti ammaliati da quelle note affascinanti.
Ognuno di loro assumeva sempre una fantastica
espressione sognante di fronte alla bellezza del proprietario che si
esibiva
con fascino di fronte alle luci ammaglianti della piscina, e Midorikawa
si
sentiva potente anche solo al pensiero che quell’uomo
così bramato fosse ormai
già incatenato al suo letto.
Con il calcio loro avevano davvero chiuso.
Entrambi fortunati 26enni, pieni di spirito e voglia
di costruirsi una nuova vita, desiderosi di dimenticare
l’incidente che aveva
portato alla morte di molti amici.
Midorikawa, in realtà, sentiva ancora ogni tanto la
voglia di chiacchierare con coloro che, essendo loro ospiti, riuscivano
a
riconoscerli e ammettevano di essere loro fan. Sinceramente, un pochino
aveva
sempre desiderato di provare a godere della propria fama, magari
pubblicizzando
il proprio albergo come proprietà di ex calciatori e
salvatori del mondo.
Hiroto però, non la pensava allo stesso modo. A lui
piaceva l’anonimato, a lui piaceva restare silenzioso e
fingere di essere
qualcun altro. Quando veniva riconosciuto, Hiroto scuoteva le spalle,
sorrideva
e fuggiva via da mille domande, senza mai essere sgarbato o arrabbiato,
dipingendosi però un’immensa espressione di dolore
sul viso.
A Hiroto era venuta la depressione dopo la morte dei
loro compagni. La depressione però, non era quella canonica,
che tutti
avrebbero curato con una vacanza lunga e divertente, no, era
depressione
clinica.
A Hiroto era venuta la depressione clinica, quella
curata con i farmaci e le lunghe sedute dallo psicologo, motivo per il
quale il
ragazzo non si sentiva di parlare animatamente delle giornate felice
passate
con il resto della banda.
E per Midorikawa non c’era niente più importante
al
mondo della sanità del suo unico vero amore, nemmeno la
vanità o la fama lo
avrebbero in qualche modo corrotto al pensare che ci fosse qualcosa di
più
importante di ciò che era necessario fare per Hiroto.
E così, avevano comprato il pianoforte. Hiroto aveva
alleviato l’impotenza della sua malattia con lo studio di
quelle note sublimi,
e così era guarito.
Gli affari, nel loro piccolo hotel in riva al mare,
non potevano davvero andare meglio di così.
Si erano sposati una mattina di primavera, sulla riva
del mare, poco dopo la guarigione completa del rosso, in una cerimonia
splendida e piena di colori. Midoriwaka non era stato mai
così felice come in quel
colorito giorno, e Hiroto, davanti all’altare, gli aveva
sorriso con un’espressione
che non aveva più visto sulle sue labbra da molto tempo
addietro. Alla fine,
dopo il sospirato si, lo voglio e
la
fine dei chiassosi festeggiamenti, i due neo-sposini avevano raggiunto
la loro
camera da letto entrambi intenzionati a consumare la prima notte di
nozze, ma
poco prima di cominciare si erano guardati negli occhi e avevano
cominciato a
piangere. Aveva iniziato il rosso, con enormi lacrimoni che gli avevano
solcato
il viso, aveva affettato il volto dell’amato e lo aveva
baciato, accarezzato,
ringraziato. Poi si era inginocchiato, abbracciando le gambe del marito
supplicandolo di non abbandonarlo mai.
La verità era che Midoriwaka aveva sopportato tanto
durante la malattia del compagno, forse più di quanto una
persona sarebbe
destinata a sopportare, e quando una notte aveva trovato
l’altro in piedi fuori
dal balcone intento a scavalcare la balconata, aveva cominciato a
pensare che
le cure non avrebbero mai fatto effetto, e che la decisione di sposarsi
li
avrebbe portati alla rovina.
Eppure, durante la prima notte di nozze, davanti alle
lacrime e ai ringraziamenti per non averlo mai abbandonato, tutto aveva
finalmente acquisito senso e amore.
Si amavano, si amavano molto.
Il giorno in cui avevano comprato l’hotel, anche
quello era stato un bel giorno per la coppia, perché
finalmente avevano deciso di
mettere su la loro “piccola famiglia”.
Era una famiglia alternativa, senza bambini o altri
membri della famiglia e composta solamente da quattro mura, qualche
stanza ben
addobbata e una piscina che dava sul mare.
Non c’erano seccature, non c’erano problemi. Solo
Hiroto
che suonava il pianoforte in quella dolce sera, sotto quella luna
pallida,
vicino alle luci della piscina e ai clienti adoranti.
Solo Hiroto, che agitava i bellissimi capelli rossi al
ritmo della musica, che spalancava gli occhi grigi nella sua direzione
e gli
sorrideva con amore, trasportandoli entrambi in una dimensione
ritagliata
esclusivamente per loro.
Dio, come lo amava.
Quando la musica finì, Hiroto salutò gli ospiti,
fece
un inchino tra i mille applausi e lasciò il pianoforte,
avvicinandosi al tavolo
in disparte dal quale il marito adorante lo stava osservando
magneticamente,
sorseggiando un bicchiere di vino.
Si avvicinò a lui, sorridendogli calorosamente.
Arrivato accanto a Midorikawa posò la sua mano verso il
braccio dell’amato, tirandolo
verso di sé, in piedi davanti a lui.
Gli circondò la vita con il braccio, posando
appassionatamente le sue labbra su quelle del verde, accompagnando le
sue mani
alla scoperta del fondoschiena rinchiuso in un elegante ed estivo
completo.
Si staccarono insieme, sospirandosi uno sul viso dell’altro.
Tra gli ospiti intanto c’era chi aveva ricominciato a
chiacchierare e consumare
i drink, mentre i più giovani e le famiglie con figli
pianificavano di tornare
nelle loro stanze a passare la notte.
-Sei stato fantastico stasera. - sussurrò il verde.
-Vederti su quel pianoforte è una delle cose più
belle che mi sia capitata
nella vita. –
-Perché non posso insegnarti qualcosa? Saresti
bellissimo al mio posto, hai le mani più belle che io abbia
mai visto, amore. –
-Nah, a me piace guardarti. Mi priveresti di questo
piacere? –
Hiroto rise, stampando un dolce bacio a fior di labbra
veloce e fugace. La mano gli corse velocemente sul petto
dell’amato, mentre le
dita della sinistra erano a loro volta scese sui pantaloni, stringendo
con
possessività. -Stasera ti va di…-
sussurrò, cercando di non farsi notare dagli
ospiti ancora intenti a raffinate conversazioni.
Ryuugo socchiuse un attimo gli occhi, increspando le
labbra con curiosità.
-Ma che domande mi fai? Ti sembra il momento di
chiedere? – disse scostandosi falsamente in malo modo. Diede
le spalle al
marito, incrociando le braccia; Si dipinse un sorriso sulle labbra,
divertito
da quel piccolo gioco che era solito fare.
Kiyama Hiroto, nel suo piccolo vestito tutto
agghindato, assunse un’espressione quasi rammaricata, vittima
nuovamente dei
crudeli scherzetti dell’altro. Cercò per un
secondo di afferrare le spalle di
Midorikawa e insistere, ma rimase a muovere freneticamente le dita
invano.
-Scusa. – disse infine, senza non poca ironica
disperazione.
Il marito
infine scoppiò nella rivelata risata,
voltandosi immediatamente.
Si
gettò al collo del amato, esplorando con la punta
delle dita la linea della mascella alle labbra.
-Ma soprattutto… ti sembra il caso di chiedere? Direi
che dopo due anni di matrimonio non ci sia mica bisogno di essere
organizzati. –
rise nuovamente, stavolta seguito a ruota dal più alto.
Stuzzicò maliziosamente
gli spessi occhiali di Kiyama, baciandolo nuovamente.
Alla fine, il caldo li obbligò a staccarsi.
-Ti aspetto in camera dopo, okay? -
Hiroto alzò la mano in segno affermativo, lanciandogli
un’ultima occhiata languida, e si voltò in
direzione degli ospiti. Afferrò un
bicchiere di champagne e sorrise a qualche signora che passava,
osservando la
piscina.
Per un secondo, la mente di Hiroto tornò sulla squadra
di Football e su tutti i suoi amici morti.
Ancora un mese e qualche giorno e sarebbe stato il 7
anniversario della morte di tutti i compagni, e dopo 7 anni e molte
sedute di
terapie lui si sentiva ancora responsabile per quel increscioso
incidente.
Per quanto provasse a dimenticare e a non pensare a
quel senso di colpa lui sapeva sentirlo sempre lì, sempre
fermo, sempre
immobile a trapanargli il cervello senza alcune tregua. Non sapeva se
mai nella
vita sarebbe riuscito a perdonarsi.
Alzò lo sguardo in direzione della luna, pensando per un
attimo ad Endou.
Per quanto ne sapeva, il ragazzo si era sposato con
Natsumi ed aveva ora una vita felice, senza rimpianti, probabilmente
simile
alla sua.
Probabilmente nemmeno Endou riusciva a dimenticare il
senso di colpa per ciò che era accaduto, mentre il rifugio
nella famiglia e
nelle grazie della donna che amava lo avevano probabilmente confortato
fino a
fargli dimenticare i momenti felici precedenti alle sofferenze, un po'
come era
capitato a lui.
Disgraziatamente, pensò che mai e poi mai avrebbe
ripreso a combattere per quel sogno sepolto da tempo, poiché
era ora la sua
vita con Midorikawa ad avere la precedenza su ogni altra cosa.
E disgraziatamente però, udii dietro di sé una
voce
fredda e severa, mentre una figura famigliare prendeva forma nel
riflesso a
bordo piscina.
-Kiyama? – si sentì chiamare, voltandosi in
direzione
della voce.
Davanti a lui, una donna dalla bellezza raffinata e
gli occhi scintillanti di gatto, che egli riconobbe come la sorella,
stava con
le braccia conserte e lo sguardo pieno di speranza accesa.
-Sei tu – disse infine la donna, che rispondeva al
nome di Hitomiko Kira.
-Si, sono io. Sorella. - pronunciò quelle parole come
se non gli sembrasse vero. Rimase immobile di fronte al pallido volto
di lei
illuminato dalle luci. -Come mi hai trovato? –
-Mi manda Kidou. Kidou Yuuto. Mi ha detto lui che ti
avrei trovato qui. –
Hiroto si morse il labbro fino a farlo quasi
sanguinare. Grugni indispettito qualcosa, sistemandosi gli occhiali
dalla
spessa montatura. -Non saresti dovuta venire qui. Che cosa vuoi?
–
La donna assunse un’espressione rammaricata, e si
accarezzò un braccio con le dita per rassicurazione. Lo
guardò dritto negli
occhi, cercando di perscrutare ogni angolo della sua anima per trovare
la
risposta.
-Kidou Yuuto mi manda a dirti che il Quinto Settore
sta diventando un problema. -
-Non mi interessa, oramai siamo fuori dai giochi. Se
gli interessa tanto, perché non ci pensa lui? -
-Kiyama, stavolta è diverso. – sussurrò
lei,
rimarcando fortemente la parola. – Sappiamo quale
è il loro prossimo obbiettivo
e Yuuto è convinto di sapere come fermarli una volta per
tutte. Abbiamo bisogno
del tuo aiuto però. Del tuo e di quello di…
Midoriwaka. –
Hiroto fece un lungo sospiro vuoto, furioso: odiava il
modo in cui la sua famiglia aveva sempre pronunciato il suo nome,
odiava tutti
coloro che avevano provato a mettersi contro la loro vita assieme.
Cominciò a
camminare, cercando di fuggire da lei e raggiungere il bar per provare
a
congedarla, ma la donna le afferrò violentemente il braccio
sinistro,
bloccandolo accanto a sé.
-Ti prego Hiroto. Ha bisogno del tuo aiuto. Il quinto
settore ha appena puntato l’Hakuren, a Hokkaido. Possiamo
ancora fermarli,
sappiamo che si tratterranno là per sbrigare degli affari.
Bisogna che tu vada
ad avvertire la gente del posto. -
-Non ho alcun interesse nel lasciare questo posto e
avvertire un branco di montanari che non mi crederanno mai. Yuuto si
è fissato
con questa idea pazza del Quinto Settore, senza nemmeno capire le
idiozie che
sta dicendo. Non gli crederà nessuno. -
La donna alla fine cedette. Sconsolata, gli lasciò
lentamente il braccio. – Ne ho già parlato con
Midoriwaka. - disse
infine, nascondendosi dietro un ciuffo
di capelli ombroso. -Lui vuole andare a salvare Shirou Fubuki.
–
Hiroto si voltò, con un violento turbamento negli
occhi, rapito finalmente dalle parole della sorellastra.