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Autore: Gwen Chan    17/07/2017    3 recensioni
Afghanistan, 1988.
Il soldato scelto Yuri Katsuki, entrato nell'esercito più per necessità che per vocazione, ha sempre ammirato il fiore all'occhiello dell'Armata Rossa, Victor Nikiforov.
Ma mai Yuri si sarebbe sognato di trovarsi ad affiancare l'uomo durante una missione di recupero.
Ovvero: la missione che non è mai accaduta e di cui nessuno deve parlare.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Prevedibile come dove il fulmine colpirà

Phichit Chulanont aveva ragione, Emil russava. Per quanto strano a Michele mancava quel rumore.
Dalla morte di Emil aveva cercato disperatamente di non pensarci. Se mai il pensiero appariva nel retro della sua mente, Michele era pronto a soggiogarlo, spostando la proprio attenzione su qualsiasi altra cosa, si fosse trattato anche dei suoi piedi doloranti. Sapeva bene che se avesse indugiato nella terra del lutto anche per un secondo, non avrebbe più potuto proseguire.
Era stupido. Ne era ben consapevole. Conosceva Emil Nekola a malapena, avendo passato con lui solo pochi giorni. Se Emil non fosse morto, le loro strade probabilmente si sarebbero divise solo con qualche vaga promessa come legame ultimo. Eppure non poteva impedire al suo cuore di dolere né alla sua mente di soffrirne. La sua mente soffriva così tanto che gli faceva male il cuore.
Michele doveva ammettere che la natura gioviale di Emil aveva reso la missione un po’ più sopportabile. Il suo gioioso chiacchierare, che Michele era sempre stato così incline a far tacere senza successo, aveva reso il suo zaino un po’ meno pesante.
Dannazione, anche il concentrarsi sul terribile russare di Emil era stato utile per dimenticare il mondo esterno e piombare nel sonno.
La prima lacrima solitaria fu fredda contro la guancia di Michele nell’aria ancora umida del mattino. L’asciugò prima che raggiungesse il mento.
Poi ne seguì una seconda, una perla che tremò sulla congiuntiva. Scivolò giù lungo la pelle olivastra.
Michele l’asciugò col polpastrello, tenendo la testa bassa così che nessuno la notasse. Era una cosa personale, una cosa per lui e solo lui.
Si morse le labbra mentre un singhiozzo si formava in gola, il giusto contraltare dell’improvviso dolore che provò nel petto. Approfittò di un singolo momento di debolezza e risalì dalla profonda voragine in cui Michele l’aveva esiliato.
Il viso di Michele si contorse. Lo tenne ossessivamente chinato. Le lacrime caddero a terra. Sbatté le ciglia per liberarsene. Sfocarono la sua visuale; le asciugò col dorso della mano, in un singolo movimento pieno di rabbia.
La morte di Emil era stata ingiusta. Era stata quel genere di cazzata cui Dio avrebbe dovuto rispondere a tempo debito. E ancora, quale tipo di morte sul campo non era ingiusta?
A Sara sarebbe piaciuta la personalità allegra e frizzante di Emil. Forse l’avrebbe persino amata. Michele non aveva dubbi che ne sarebbe stato geloso e avrebbe lottato per tenere il ceco lontano dalla sorella gemella. Sara lo avrebbe rimproverato, lamentando la mancanza di indipendenza e, senza neanche sapere come, si sarebbero trovati insieme a mangiare in un ristorante economico ma gradevole, poco importava il dove.
“Di autori cechi conosco solo di Kafka dai miei giorni di scuola” aveva detto Michele a Emil, il giorno prima della sua morte. Anzi, il giorno prima che fosse ucciso. Emil non era morto. Un morto se ne sta sdraiato a letto, scivolando in un’altra vita perché il suo tempo su questa Terra è naturalmente terminato. Il tempo di Emil non era finito naturalmente. Non c’era niente di naturale nella morte di Emil.
“Ti è piaciuto? Personalmente credo di essere troppo stupido per capirlo.”
“Ho trovato disgustosa l’idea di svegliarsi come un gigantesco scarafaggio” aveva risposto Michele, il labbro superiore sollevato a mostrare il suo disgusto. Emil aveva riso.
La cosa peggiore era che a volte, quando l’atmosfera si faceva leggera e la mente si rilassava e scivolava nella routine, Michele dimenticava che Emil non c’era più.
Emil, passarmi questo! Emil, veloce! Veloce, ho detto! Solo per ricordarsi Emil non era più lì.
Le lacrime solleticarono di nuovo gli occhi.

La temperatura si raffreddò man mano che l’altitudine aumentava col passare dei giorni. I sentieri lungo le quali Behrooz li guidava erano sempre un po’ in salita, con inaspettati picchi di tanto in tanto. A volte il sentiero scendeva fino ad trovarsi incastonato tra le pareti della montagna, dove sporadici e semi-aridi torrenti correvano prima di scomparire nuovamente nella roccia.
Si muovevano lungo i fianchi del monte o in cresta, prima di scendere nuovamente verso valle. Non c’era dubbio che la possibilità di attraversare l’area in linea retta avrebbe aiutato a risparmiare almeno uno o due giorni di cammino, ma ciò non era possibile. Al contrario erano costretti a seguire il cammino imposto dalla natura; la geografia li piegava alla propria volontà. Le diverse condizioni climatiche dovute all’altitudine, con Yuri e Phichit che lamentavano il loro effetto più di chiunque altro, costringevano la squadra a fermarsi sempre più spesso per riprendere fiato.

Fu durante una di quelle pause che Plisetsky colse Victor a fissare Yuri Katsuki; a fissarlo più del solito, per essere precisi.
Si avvicinò al Generale la sera stessa.
“Perché non gli chiedi di rimanere?” esordì Plisetsky. Victor lo guardò, con gli occhi azzurri sgranati in una sincera sorpresa. Un sorriso triste gli curvò le labbra, creando una griglia di piccole rughe tutt’attorno.
“Non posso.”
“Perché no? E non usare quella cazzata della Cortina di ferro e tutto il resto” lo avvertì Plisetsky, un dito sollevato a sottolineare le proprie parole. Victor sospirò, il mento posato sulle dita intrecciate. Guardò Katsuki che stava chiacchierando con Chulanont a qualche metro di distanza. Aveva il più sorriso luminoso che Victor avesse mai visto. Avrebbe voluto sapere che cosa lo avesse fatto sorridere.
“Lui non ...”
Una voce normalmente così sicura di sé faticò a concludere la frase.
“ti ama” concluse Plisetsky per lui. Victor chinò la testa in accettazione. Per una volta lo Yuri russo non parlò con disgusto, fastidio, o disprezzo, come era solito fare. Le sue parole erano serie, piene di qualcosa che Victor avrebbe anche osato chiamare preoccupazione.
“Già.”
“Allora sei più cieco di quanto pensassi, Victor.”

Si alzò e si allontanò prima che Victor potesse articolare una risposta adeguata, o addirittura una giustificazione. La testa di Victor cadde ciondoloni in avanti. Le spalle si alzarono al ritmo di un sospiro desolato. Tracciò dei cerchi sulle tempie per impedire lo scoppiare di un mal di testa incipiente.
Yuri Katsuki aveva smesso di ridere, ma gli effetti si mostravano ancora sui suoi tratti delicati. Aveva un braccio attorno alla spalla di Chulanont, la mano che dava lievi colpi sul bicipite.
Victor seppellì la testa nel palmo e gemette, frustato con se stesso.

Non era stata la prima volta che qualcuno lo accusava di essere cieco. Era accaduto anche quando era un giovane che vivere felicemente giorno per giorno a Leningrado. Era stato in quel periodo - era fine del gennaio del 1968 - che aveva incontrato una ragazza affascinante con una lingua veloce e, fatto raro, un cervello ancora più rapido. Chiacchierare con lei era un piacere.
Georgi lo aveva avvertito a proposito della ragazza. Victor non aveva ascoltato. Yelena era troppo affascinante e gentile per rappresentare una minaccia.
Poi, una sera, aveva cercato di andare oltre loro soliti giochi di seduzione. Si trovavano nel piccolo appartamento di lei, un paio di piatti ancora mezzi pieni di cibo fumante sul tavolo. Erano seduti: Victor su una sedia; Yelena a gambe incrociate sul pavimento. Il radiatore brontolava e schioccava. Anche se era già fine aprile, faceva ancora freddo, soprattutto di notte.
Ad un certo punto Yelena si era alzata dalla sua posizione e gli si era messa a cavalcioni; le unghie curate avevano sfiorato la camicia di Victor e si erano intrecciate tra i capelli, fili d’argento che cadevano fino ai fianchi dell’uomo. Li liberò dalla costrizione dell’elastico, spingendo una ciocca dietro l’orecchio di Victor.
“Mi piacciono i tuoi capelli. Mi piaci tu” sussurrò nello stesso orecchio, mentre le mani viaggiavano verso sud, disegnando cerchi distratti sul petto dell’uomo. “Mi piaci molto” specificò.
Si era strusciata contro il sesso di Victor, ancora coperto dai pantaloni; gli aveva preso una delle mani poste attorno alla sua vita e l’aveva messa su uno dei suo seni. La bocca aveva quasi sfiorato le labbra serrate di Victor.
“No!” aveva urlato lui, spingendola via. Era piccola ed egli era forte nonostante la struttura snella. La ragazza cadde sul pavimento. Victor si alzò in piedi, indietreggiando verso la porta.
“Mi dispiace. Io non, non posso” balbettò, il disgusto che faceva tremare ogni singola fibra del suo essere. I suoi amici avevano ragione.
La sentì gridare qualcosa mentre si precipitava giù dalle scale senza guardare indietro.

Il giorno seguente bussò alla porta con una sacchetto contro suo petto contenente una singola sladkay bulochka calda . Yelena le adorava.
“Lena!” chiamò dopo cinque minuti di attesa senza che nessuno venisse ad aprire la porta. “Yelena! Mi dispiace!” chiamò ancora, la pasta che si raffreddava sotto le dita. Il sacchetto era unto, ma l’odore paradisiaco. Victor bussò di nuovo, un po’ più forte questa volta, le nocche che battevano contro il legno.
“è inutile!”
Victor si voltò. Sul pianerottolo stava un uomo calvo con una bella barba, con la mano arrotolata intorno al liscio pomello di un bastone da passeggio. Victor lo riconobbe come l’anziano vicino di Yelena, quello che viveva nell’appartamento a destra.
“Mi scusi?” Chiese Victor.
“Se stai cercando Lenochka, è andata via” chiarì il vecchio.
“Via?” ripeté Victor a pappagallo, come se non avesse capito ciò che aveva appena sentito. Il vecchio annuì. “Sì, aveva una piccola valigia con lei”.
“Ha detto a qualcuno quando sarebbe tornata?”
“Per niente.”
“Oh. Be’, grazie. Tenete questa, ho perso l’appetito. “
Diede all’uomo il dolce che aveva comprato per Yelena.

Nei giorni seguenti, nonostante i suggerimenti dei suoi amici di dimenticare la donna o, se non era possibile, di aspettare almeno una settimana prima di bussare nuovamente alla sua porta, Victor prese l’abitudine di chiedere al portiere se Yelena fosse tornata dal suo viaggio o se avesse lasciato un messaggio. La risposta era sempre negativa. A quanto pareva la signorina Lapchenko non aveva intenzione di tornare in tempi brevi. All’affittuario era stato dato il permesso di cercare un nuovo inquilino; poiché l’appartamento era economico e il flusso di giovani studenti che cercavano un tetto non mancava mai, un nuovo inquilino venne effettivamente trovato in fretta.

Circa un mese era passato senza nessuna notizia di Yelena, a parte l’illusione di aver creduto di aver visto un’ombra che le somigliava assai sul ponte Prachechny, quando uno sconosciuto in abbigliamento semi formale si avvicinò a Victor, seduto fuori del teatro Alexandrisky, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Una morbida treccia gli teneva i capelli a posto.
“Victor Bastilevich?” chiese lo sconosciuto. Victor sollevò lo sguardo dalle ginocchia agli occhi dell’uomo. Si irrigidì. Normalmente amava incontrare persone nuove, ma negli ultimi giorni era stato vittima di una costante sensazione di essere seguito e osservato.
“Mi manda Yeleva” insistette lo sconosciuto, quando Victor fece segno di aver riconosciuto la domanda.
“Temo di non essere la persona che state cercando” rispose, mettendosi in piedi in fretta e furia, la testa che girava a tutta velocità .C’era qualcosa di sospetto nell’uomo, abbastanza per far desiderare a Victor di mettere qualche metro - no, qualche chilometro - tra loro il prima possibile.
“Ora devo andare” mormorò.

Quando imboccò il primo vicolo secondario si accorse di stare praticamente correndo.
Victor scese alla sua fermata della metro, guardandosi attorno per controllare se l’uomo non fosse più in vista. Non lo era, ma questo fatto non lo rassicurò per nulla. Fece un respiro profondo per calmarsi, le dita che giocherellavano con i capelli mentre correva fuori. Poi, siccome correre avrebbe attirato attenzioni indesiderate, si costrinse a rallentare il passo.
“La mia ragazza sta male” mentì Victor mentre una donna di sulla cinquantina gli lanciava uno sguardo sospetto
Una volta giunto davanti alla porta del palazzone dove abitava, lottò con le chiavi e si precipitò su per le scale.
“Qualcosa non va?” domandò Georgi, dopo che Victor si fu tolto la giacca e si fu buttato sulla sedia più vicina, la fronte imperlata di un sudore freddo non causato dal caldo estivo. Aveva alcuni ciuffi di capelli argentei appiccicati alla fronte. Victor sospirò, spiegando la situazione ancora col fiatone.
“Hai camminato fin qui o hai preso la metropolitana?” domandò Georgi, con un sopracciglio inarcato.
“Metro” rispose Victor. Georgi fece una smorfia.
Quando Victor capì il suo errore, era già troppo tardi. La porta venne buttata giù un attimo dopo.
Un paio di uomini si gettarono dentro con le pistole in mano. Un terzo stette sul pianerottolo. Victor riconobbe lo sconosciuto. La sua mente collegò rapidamente i puntini. La tristezza per il tradimento crebbe nel petto.
Victor aveva sentito storie sulle azioni repressive del KGB contro chi non si conformava, ma aveva sempre considerato ridicola l’idea di rimanere coinvolto in una di esse.
Dietro di lui Tatjana era sdraiata sul letto, appoggiata sul gomito, i seni esposti; Sasha, che teneva un pennello a mezz’aria, strillò. C’era una pila di scatti appena sviluppati sul tavolo vicino, per lo più in bianco e nero con Victor come soggetto preferito. Il più recente, tuttavia, mostrava Tatjana e Sasha in atteggiamenti saffici. Alcuni documenti che contestavano il modo in cui l’Unione Sovietica trattava i propri cittadini erano sparsi un po’ dappertutto, soprattutto sul pavimento; un foglio semi-scritto era ancora sul rullo della macchina da scrivere.
Tuttavia la prima cosa che richiamò l’attenzione dei funzionari del KGB fu una vecchia chitarra appesa al muro. Un adesivo di Superman decorava la cassa acustica, proprio sotto il ponte. Qua e là la vernice era saltata via, mostrando il nudo legno sottostante. Uno degli agenti prese lo strumento dal suo gancio, lo soppesò e poi tenne fuori dalla finestra.
Georgi urlò, lanciandosi in avanti, le mani tesi per afferrare il suo prezioso strumento. Si chiusero sull’aria mentre la chitarra cadeva per due piani e si infrangeva sul duro cemento. Si spezzò nel centro. La corda del re scattò come una frusta.

Victor trascorse i primi giorni di carcere in una cella di isolamento, gli occhi fissi sul soffitto con le dita sepolte nei suoi capelli ormai corti e spettinati. Un livido violaceo si stava formando sotto l’occhio sinistro, che era un po’ gonfio. Faceva male a tenerlo aperto. Un mal di testa martellante faceva pulsare una vena dietro l’orbita.
La tazza doveva essere intasata e l’aria era fetida e stantia. Victor seppellì la metà del volto nella sua maglietta.
Stava dormendo un sonno agitato quando la porta della cella si aprì e una guardia accompagnata da un uomo che chiaramente non lo era, a giudicare dai suoi vestiti, entrò. La guardia costrinse Victor a svegliarsi e uscire dal letto senza tanti complimenti. Poi, visto che Victor continuava a mostrare segni di intontimento, pensò bene di gettargli addosso un secchio di acqua ghiacciata. Victor lottò per trattenere le lacrime.
In un qualche modo venne condotto in un’altra stanza, dove gli unici mobili erano un tavolo d’acciaio e una lampada la cui luce accecante e biancastra ferì gli occhi di Victor.
L’uomo di prima si sedette dall’altro lato.
“Victor Bastilevich Nikiforov” disse l’uomo, controllando un foglio. Victor lo fissò con gli occhi sgranati; le dita si strinsero attorno al bordo del tavolo.
“Figlio di Bastil Dimitrievich Nikiforov” continuò l’uomo, la voce pesante su quel nome che parlava di una famiglia molto patriottica, delle fiamme delle rivoluzione e di un’eredità che Victor aveva tradito. Nato nei primi anni Venti, il padre di Victor era stato uno dei numerosi bambini che avevano ricevuto un nome rivoluzionario per celebrare al meglio la vittoria del popolo contro il vecchio regime.
Il nome parve un piombo fuso nello stomaco. Victor tormentò l’orlo della maglietta. Guardò ancora l’uomo: vedeva la sua bocca muoversi, ma non riusciva a cogliere le parole che stava pronunciando.
“Conosco tuo padre, è famoso. è troppo un brav’uomo per meritare un figlio come te.”
Le parole vennero sputate con disprezzo e disgusto. “Ma non ci saranno più problemi. Tuo padre avrà infine il figlio che voleva, te lo garantisco” gli disse lo sconosciuto. Victor non si preoccupò di rispondere.
Come se la testimonianza fornita da Yelena Lapchenko non fosse stata sufficiente a renderlo sospetto, le prove raccolte dopo un’adeguata ispezione dell’appartamento avevano fornito materiale sufficiente per accusare lui e suoi amici di essere colpevoli di agitazione anti-sovietica, corruzione giovanile e omosessualità.
“Ho sentito che la nostra Siberia è deliziosa in questo periodo dell’anno” lo derise l’uomo. Victor sentì le lacrime riempirgli gli occhi. Suo nonno da parte di madre aveva trascorso dieci anni in un gulag e le storie che aveva portato indietro erano orribili.
“Ma tuo padre è un mio amico e non mi piace mandare il figlio di un amico in Siberia, non importa quanto te lo meriteresti. Quindi ecco una proposta.”
La scelta davanti alla quale fu messo Victor era estremamente semplice, chiara come un lago ghiacciato a metà dicembre. Da un lato, ecco una condanna a vita in un gulag chiamato con un qualche altro nome. “Non sopravvivresti una settimana.”
“Dall’altro lato, puoi unirti al nostro glorioso esercito. C’è sempre bisogno di carne fresca. Allora?”
Victor rimase in silenzio, gli occhi spenti, fissi sulla parete opposta. Qui una condanna a morte a breve termine. Là una condanna a morte a lungo termine. O forse era il contrario.
“Ti do un’ora per pensarci.”
Non appena l’uomo fu uscito dalla stanza, Victor cominciò a tremare, le mani che sussultavano per la tensione. Si rimise in piedi, incerto, cadde in ginocchio e picchiò i pugni contro la parete. Entrare nell’Armata Rossa avrebbe significato tradire quasi tutto quello per cui aveva combattuto. Di recente aveva sentito alla radio come il governo sovietico avesse represso la tentata ribellione a Praga. La memoria lo fece fremere. Se fosse entrato nell’esercito, sarebbe stato complice.
Tuttavia l’esilio in Siberia era qualcosa che non riusciva nemmeno a concepire. Il pensiero di dover lasciare Leningrado o Mosca, città sempre in movimento, i suoi colori e la sua vita e i suoi suoni, artigliò il retro della sua mente.
Victor seppellì il viso nelle ginocchia, sentendo la voce lontana e rotta del padre di sua madre, quell’uomo le cui dita erano cadute per i geloni e che chiedeva una coperta anche a luglio.
Non voleva diventare così.
“Allora?” interrogò l’uomo di prima quando fu passata l’ora. Victor comunicò la sua decisione con la voce di un uomo che si prepara ad essere mandato al patibolo.
Quella notte non dormì.
Giurò che sarebbe sopravvissuto. E, per farlo, doveva essere il migliore. Doveva essere l’uomo da cui aveva sempre cercato di fuggire, l’uomo che suo padre desiderava. Doveva indossare una maschera per conservare il suo vero io: uno spesso muro in modo che non potessero toccare i suoi più intimi sogni e pensieri.
Doveva diventare Victor Bastilevich Nikiforov, se voleva che Vitya sopravvivesse. Andò a dormire ripetendo quel nome completo, un nome che aveva evitato per anni, come un mantra.

L’Armata Rossa fu uno schiaffo in piena faccia. Non c’era arte o musica, tranne l’essenziale per glorificare la Madrepatria. Vitya aveva amato le canzoni rare e allegre che arrivavano di contrabbando dall’altra parte del Muro. Ora odiava i cori marziali che ogni tanto gli altoparlanti diffondevano nell’aria. Col tempo, tuttavia, giunse ad accettarli perché era comunque musica; ed era meglio di niente.
Fu durante uno giorno in cui i soldati erano stati radunati per cantare l’inno nazionale davanti a un qualche dignitario del Comitato Centrale, qualcuno di molto importante nonostante occupasse una carica minore, che Victor notò Georgi. Era nella fila immediatamente avanti.
Quando i soldati ricevettero il permesso di disperdersi, Victor corse verso il suo amico. Una volta abbastanza vicino da essere visto lo salutò, sorridendo educatamente. Attese che la sua presenza fosse riconosciuta. Georgi si limitò ad ignorarlo, voltandosi per chiacchierare con un commilitone. I tentativi successivi non ebbero un maggiore successo e il rapido avanzare di Victor tra i ranghi parve solo peggiorare il problema.
Dopotutto, Georgi - no, Jora - era stato amico di Vitya. Non aveva niente a che fare con Victor Bastilevich Nikiforov. Victor Bastilevich Nikiforov non aveva amici. Non ne aveva il tempo.
“Mi dispiace Vitya, ma se vuoi sopravvivere devi andare da qualche altra parte” sussurrò Victor, mentre il dolore per rifiuto di Georgi cresceva nel petto.
E il giovane Vitya se ne andò da qualche altra parte, per periodi sempre più lunghi, finché non fece più ritorno.

Quando attraversò la soglia nella stanza in cui gli ufficiali americani avevano organizzato una cena semi-formale, con un finito sorriso stampato in volto, Victor Nikiforov aveva da tempo dimenticato come cosa significasse provare vere emozioni. Era il 21 Novembre, la cena destinata a svolgersi immediatamente dopo il vertice che si era tenuto negli ultimi tre giorni a Ginevra. I sovietici erano stati invitati come ospiti speciali per uno “scambio culturale”.
“Ci vogliono solo come animaletti da mettere in mostra!” mormorò Plisetsky, incapace tuttavia di nascondere il piacere di essere stato invitato.
“Sei ancora a tempo a non andare. Sono sicuro che non gli dispiacerebbe “
“Sei pazzo?! Dovranno passare sul mio cadavere.”

Rispetto alle storie che circolavano sugli americani - voci sulla loro mancanza di disciplina e il loro comportamento molto chiassoso - la prima ora della cena fu estremamente noiosa. I sovietici gironzolavano per la sala nello loro pose rigide, spostandosi sempre di più verso le pareti. Poi, man mano che i primi bicchieri di alcool vennero versati, l’atmosfera si alleggerì.
Plisetsky fu tra i primi abbastanza temerari da provare il misterioso liquido che brillava nella grande ciotola sul tavolo principale. Ne bevve un sorso, lo sputò sul pavimento facendo una smorfia e ne sorbì un altro. “Non so se odio o amo questa roba!” disse, esprimendo infine il suo giudizio.
Victor prese un bicchiere, guardandosi intorno.
Un uomo minuto ma ben fatto stava in piedi accanto al tavolo del buffet. I suoi tratti attirarono immediatamente l’attenzione di Victor. Non era comune vedere delle fattezze asiatiche durante simili riunioni.
“Victor Bastilevich Nikiforov” si presentò con un affascinante sorriso sul viso. L’uomo sollevò lo sguardo, le guance appena arrossate.
“Sì, lo so” rispose, con voce tremolante. Balbettò un po’ sull’ultima parola.
“Ma purtroppo, non posso dire lo stesso di te”, osservò Victor. Le sottili dita dello sconosciuto si strinsero intorno al bicchiere. bevve un sorso.
“Katsuki Yuri”.
Victor ripeté il nome sottovoce per memorizzarlo. Katsuki lo guardò da sopra l’orlo del flute, gli occhi socchiusi come se volesse guardargli attraverso. Erano offuscati.
“Quanti bicchieri hai già bevuto?” chiese Victor con tono quasi preoccupato. C’era già almeno un bicchiere vuoto posto vicino alla mano di Katsuki quando la conversazione era iniziata. Poi altri tre erano seguiti nel breve periodo delle presentazioni.
“Non lo so. Cinque. Sei. Non abbastanza.”
Katsuki guardò quello ancora mezzo pieno che stava tenendo. Fece una smorfia, scrollando appena le spalle
“Il grande Generale Nikiforov sta parlando con me. Devo essere già ubriaco” considerò, parlando più a se stesso che a qualcun altro. Ciò detto, buttò giù il resto del liquore gettando la testa all’indietro. Il suo pomo d’Adamo fece su e giù una volta.
“E poiché questo è solo frutto della mia immaginazione, tanto vale indugiarvi” continuò, riempendo di nuovo il bicchiere. Il liquido brunastro in esso scivolò contro le pareti. Katsuki portò il calice alle labbra, ne sorbì un po’ e lo sollevò nella derisione di un brindisi. Il grog distorse i suoi delicati lineamenti.
“Se volete scusarmi, ho delle attività importanti a cui badare.”
Quasi ridacchiò all’ultima parte, la voce densa e impastata. Le parole cadevano dalle sue labbra lucide. Victor annuì, sbalordito.
“Vitya, chiudi la bocca” disse Yakov, passandogli accanto. Victor la chiuse di scatto.
Non si aspettava di imbattersi in Yuri Katsuki una seconda volta. In ogni caso, non nel modo in cui accadde.
Nei - quanto tempo era passato? - dieci minuti trascorsi, Katsuki era riuscito a bere altri dieci bicchieri di qualunque cosa fosse la miscela nella ciotola sul tavolo principale. Era un miracolo che riuscisse ancora a stare in piedi. Le sue gambe sembravano un po’ incerte.

D’un tratto Victor non riuscì a togliergli gli occhi di dosso; ne era fisicamente incapace.
Katsuki continuava a tirare il colletto della propria uniforme, come se fosse troppo stretto. Dietro gli occhiali due caldi occhi coloro nocciola brillavano di ubriaco delirio.
Senza alcun preavviso Katsuki si gettò letteralmente contro di lui, le braccia agganciate intorno al suo collo con innocente entusiasmo. Oh, dio santissimo, aveva il viso più adorabile che Victor avesse mai visto. Era anche più carino di Makkachin, il suo barboncino, e questo diceva molto.
Inoltre Katsuki Yuri non era solo adorabilmente carino, un pesce fuori dall’acqua in una riunione piena di ufficiali la cui età media raggiungeva la cinquantina: era audace; o stupido; o forse entrambi.
Victor si morse le labbra di colpo secche mentre Katsuki faceva strusciare il proprio bacino contro il suo. La bocca calda dell’uomo si avvicinò all’orecchio sinistro, con circa dieci scandalizzati ufficiali come testimoni della scena.
Non che a Katsuki importasse minimamente. Né importava a Victor, più interessato a quelle labbra umide contro la conchiglia dell’orecchio.
Quando Katsuki parlò, lo fece in un miscuglio confuso di inglese e di una lingua che Victor riconobbe come giapponese; il tutto senza smettere un momento di strofinarsi con entusiasmo contro il corpo di Victor.
“Sai. è veramente ingiusto che tu viva in Unione Sovietica. Ti amo e tu vivi così lontano” grugnì Katsuki, voce bassa e impastata, le parole distorte dall’alcool.
“Se fossi una spia, mi prenderesti? Posso essere una spia. Sono una buona spia” ridacchiò, un suono cremoso, le inibizioni completamente andate a causa dell’alcool.
Molte cose accaddero a Victor nell’arco dei secondi successivi. Si gelò sul posto. Nella sua testa cominciò a suonare un allarme immaginario che diceva “pericolo” scritto in rosse lettere cubitali. Si chiese cosa fosse la cosa migliore da fare con Katsuki.
“Riportalo nella sua stanza!” Ordinò la parte razionale del suo cervello. “Lascialo fare, non mi divertivo tanto dal 1968, quando un gatto randagio ha terrorizzato Georgi!”. Rispose l’altra non così razionale.
Il cuore di Victor batté forte contro la gabbia toracica. Sentì una sensazione calda e piacevole fiorire nel petto, aprendosi come un bocciolo in primavera e diffondendosi come un sole nascente.
Notò anche le smancerie dei suoi pensieri. Non sapeva nemmeno che la sua mente fosse capace di simili dolci sciocchezze. Era molto tempo che non provava nulla di simile. L’immagine da tempo dimenticata di un ragazzo dai capelli lunghi che ballava nella neve appena sciolta della Ploshchad Iskusstvgli gli attraversò la mente.
Il cervello di Victor stava già girando a piena velocità per trovare un buon piano per mettere Katsuki KO e spedirlo nel suo appartamento a Leningrado - Mila si sarebbe sicuramente occupata di alcuni minori e spiacevoli dettagli - quando un uomo sulla sessantina si avvicinò. Diede una pacca sulla spalla di Yuri. Katsuki mugugnò, premendo il viso contro petto di Victor.
“Caporale Katsuki” disse il nuovo arrivata, ma la voce era meno minacciosa di quanto fosse non fosse divertita ed esasperata. Yuri bofonchiò di nuovo, strofinando la faccia contro camicia di Victor.
“Caporale!”
Alla fine lasciò andare Victor. L’altro uomo fece un’ imbarazzata espressione di scuse in direzione di Victor.
“Mi dispiace, normalmente non beve così tanto”.
Non esserlo.
“Finalmente” sospirò Yakov, apparendo dal nulla al fianco di Victor. “Americani!” Esclamò, facendo un suono di disgusto per esprimere meglio la sua opinione sulla questione. “Non cambiano mai. Penso che siano peggiorati. “
Si voltò appena in tempo per notare l’espressione sognante di Victor.
“Dimenticati di lui, Vitya. Conosco quella faccia. Non fare niente di stupido. I contatti del KGB sono per questioni importanti “, lo avvertì.
Victor annuì, nella sua migliore impressione di un cittadino ligio e responsabile.
Chiamò Mila comunque.

Quando Victor aveva annunciato la sua decisione di chiamare gli americani, una settimana prima, Yuri Plisetsky aveva aspettato che le orecchie indiscrete si dispendessero prima di trascinarlo con una scusa dove nessuno avrebbe potuto origliare. Una volta soli, Plisetsky smise di dare peso alla gerarchia.
“Victor, non so quello che hai detto a Yakov perché lui assecondasse le tue idee, ma ti chiedo di riconsiderare il mettere in pericolo tutti noi per le tue vane speranze di inseguire una vecchia cotta”.
Victor aveva sbattuto le palpebre. Aprì la bocca. La chiuse.
“Yura, che cosa... io non ...” balbettò. Yuri fece una faccia alla “non cercare di prendermi in giro”. Scomparve in fretta in favore di una sincera preoccupazione quando nessuna espressione d’arroganza giunse a cancellare la confusione sul volto di Victor.
“Davvero non l’hai fatto di proposito”, considerò.
“Naturalmente, perché avrei dovuto?”

Yuri aveva deciso di credergli. Solo per afferrare Victor per l’orecchio ancora una volta quando Yuri Katsuki aveva fatto la propria apparizione. Victor sembrava più che cotto; gli dava il voltastomaco
“Mi avevi detto che non avevi - credevo! Ugh, “esplose, la voce sul punto di urlare. Sollevò un dito accusatorio verso Victor.
“Non l’ho fatto. Sono sorpreso quanto te” lo rassicurò e, Yuri fosse dannato, parve sincero. Il dito fu abbassato.
“Non l’hai fatto?”
“Non l’ho fatto”.
Ancora una volta Yuri Plisetsky aveva scelto di lasciarlo scappare. Dopo tutto era stato Victor che lo ha aiutato attraverso la sofferenza di accettare se stesso e di confessare i suoi sentimenti prima al suo cuore e poi alla persona per cui erano destinati. Lo stesso vittore, che per la prima volta Yuri aveva fatto il segno di conoscere la preferenza sessuale dell’altro, lo aveva afferrato per il polso e ha ordinato di tenere la bocca chiusa nel tono più freddo di voce che Plisetsky aveva mai sentito da lui.

“Allora sei più cieco di quanto pensassi.” era così che Yura aveva detto.
Victor rifletté su chi era Yuri Katsuki, il vero sobrio Yuri Katsuki, i pochi giorni trascorsi insieme. Assente, egli spazzolò le punte delle dita contro la sua guancia destra, dove Yuri lo aveva toccato. Ricordava Yuri, gentilezza, comportamento rigido e la sua timidezza.
Yuri che lo chiama generale Nikiforov. Yuri che lo tratta con tutto il rispetto e la deferenza dovuti a un superiore
L’immagine di Yuri come tutto ciò che ci si aspetterebbe da un soldato ben addestrato; e poi altre immagini di un uomo a pezzi, di un uomo nel posto sbagliato.
Lo sguardo terrorizzato di Yuri mentre Victor lo tiene per il polso, chiedendogli di rimanere. Yuri che scappa via, la faccia in fiamme.
Yuri che lancia delle timide occhiate nella sua direzione di tanto in tanto, gli occhi castani che brillano nella cornice dei suoi spessi occhiali.
La piccola, ma sincera risata di Yuri echeggiò nella memoria di Victor. La risata, rumorosa e malinconica di Yuri lo ferì profondamente.

Si ripropose di prestare più attenzione nell’osservare Yuri questa volta. Si sarebbe impegnato a cercare di conoscerlo meglio, oltrepassando la spessa parete di pregiudizi e aspettative che aveva mantenuto fino a quel momento. All’inizio era stato sicuro che Yuri sarebbe stato lo stesso affascinante disastro che aveva dichiarato con tanta audacia la proria volontà di tradire il suo Paese per far piacere a una cotta. Quando lo aveva visto seduto su una jeep americana, appena fuori dal confine del campo sovietico ad Herat, Victor era stato sicuro che sarebbero ripartiti da dove si erano fermati. Il fatto che tre anni fossero passati dall’accaduto erano parsi irrilevanti.
Invece Yuri Katsuki aveva agito come se lo conoscesse a malapena; come se non lo conoscesse affatto.
Non si ricorda, si disse Victor, con la comprensione che gli torceva il petto e scendeva giù fino allo stomaco. Tutto ciò che Yuri si ricordava da quel summit a Ginevra era probabilmente solo una terribile sbornia, accompagnata da una buona ramanzina sul comportamento da tenere in certe situazioni. Per essere certo decise di chiedere alla persona che sembrava essere la più vicina a Katsuki Yuri: Phichit Chulanont.
“Caporale Chulanont, posso parlarti un attimo?” esordì Victor, avvicinandosi alla persona in questione, quando si fermarono per la sera. Chulanont ebbe un attimo di sorpresa, che fu rapido a celare. Gli rivolse un sorriso ampio ma educato. Più che un sorriso, sembrava un ghigno in verità. Il genere che ti aspetteresti da chi conosce tutti i segreti e le marachelle del proprio amico ed è pronto a dargli corda.
“Certo, Generale. Che cosa c’è?”
Victor andò dritto al punto. “Per caso il Soldato Katsuki vi ha detto qualcosa di un vertice tenutosi a Ginevra nel novembre 1985?”
Phichit fece una smorfia pensierosa, mordicchiandosi il labbro inferiore mentre rughe sempre più profonde gli solcavano la fronte.
“Non che mi ricordi. All’epoca ero in missione, e quando ho finalmente rincontrato Yuri era già fine aprile. Mi ha detto qualcosa sull’aver bevuto troppo, al punto di avere illusioni di parlare e ballare con te “, rispose finalmente Phichit, con un dito che gli picchiettava il mento come se il gesto potesse aiutarlo a ricordare alcuni dettagli.

Quella notte Victor organizzò le cose per avere lo stesso turno di guardia di Yuri.
“Le vie della vita sono strane” considerò, pensando ad alta voce. Yuri mormorò, pensieroso. C’era una ruga di concentrazione in mezzo ai suoi occhi castani.
“Abbastanza strane da far incrociare le nostre strade” ammise.
Le guance di Yuri avevano una certa rotondità, il suggerimento di una vaga morbidezza; liscia e abbronzata pelle avorio illuminata dalla luce della luna. Le guance davano l’idea che si sarebbero adattate perfettamente alla mano a coppa di Victor; il pollice a sfiorare appena il mento; la mascella incastrava nella curva tra pollice e indice; il mignolo a lasciare tocchi di piuma sotto l’occhio di Yuri. Victor si sporse in avanti, solo un po’.
Le labbra di Yuri erano rosa, paffute. Un perfetto arco di cupido ne disegnava il labbro superiore, che di tanto in tanto si sollevava a ritmo di una conversazione per mostrare i denti davanti, bianchi, piccoli e sani. Yuri bevve un sorso dalla propria borraccia, la lingua rosea che saettò fuori per catturare una goccia fuggiasca prima che arrivasse al mento. Victor si ritrovò a fissare.
C’era qualcosa di seducente in Yuri Katsuki, una sensualità innata e una fiamma che bruciava sotto strati di reticenza e di dubbi. Yuri ne era ignaro e ciò lo rendeva un incantatore ancora più pericoloso; e se un bacio avesse potuto rompere l’incantesimo, Victor era pronto ad indugiarvi.
“Hai sentito qualcosa?”
Le parole di Yuri lo fecero tornare alla realtà. Drizzò le orecchie.
“In verità no” ammise, con le sopracciglia alzate.
Yuri sospirò. “Sì, probabilmente non era niente. Mi dispiace, Sono un po’ teso.”
“Lo siamo tutti” lo rassicurò Victor, mentre ripiegava le dita verso il palmo.
Se Yuri Katsuki fosse stato ucciso perché troppo distratto da un sciocco russo che tentava di flirtare, Victor non si sarebbe mai perdonato.
Lasciò cadere la mano.

Il decimo giorno li trovò a qualche chilometro di distanza da Baghran, lo stesso terreno ocra e le montagne dei giorni precedenti e i confini disegnati sulla mappa quale unica indicazione che si erano spostati da una provincia all’altra. Altrimenti Yuri avrebbe appena registrato il cambiamento. Forse guardando attraverso gli occhi di un nativo avrebbe visto la bellezza del luogo, i suoi intimi segreti, ma come era allora, l’unica cosa che gli occhi vedevano era una distesa senza fine di montagne di arenaria e pianure.
“Ecco il villaggio” annunciò Behrooz, con l’indice puntato verso un gruppo di case ancora semi-nascoste dalle rocce in lontananza. Victor guardò attraverso il binocolo, regolandolo secondo le indicazioni di Behrooz. Focalizzò le lenti su un paio di ripari in pietra con due figure - uomini, a giudicare dal loro abbigliamento - che gesticolavano all’esterno. Victor spostò il binocolo, sperando di cogliere alcuni segni del passaggio della squadra di Leo de la Iglesia. Non ebbe alcuna fortuna.
Il sentiero si era allargato, quindi mutarono la disposizione da una fila singola a una colonna. Il trovarsi più vicini alla loro meta faceva correre di eccitazione e aspettativa sotto la loro pelle. Dava loro energia, ma era anche un problema: la sensazione di essere quasi arrivati portava ad abbassare la guardia.
Un giorno, forse meno e Yuri avrebbe potuto abbracciare Leo e gli altri. All’improvviso non ebbe dubbi che fossero sopravvissuti. I giorni appena trascorsi erano stati duri, lunghi e faticosi. In alcune occasioni era sembrato un incubo, ma ora era finita; pochi chilometri, un ultimo campo di notte.

Andò tutto in pezzi in una frazione di secondo.
Un “click” fu sufficiente.

“Ragazzi, penso di avere un problema qui.”
La voce preoccupata di Phichit attirò la loro attenzione. Tutti si congelarono sul posto. Otabek e Plisetsky che erano davanti a Phichit, ma dall’altro lato della strada, si voltarono. Le loro espressioni erano senza speranza. Otabek fissò Leroy, che era proprio di fronte a lui e comunicò un messaggio silenzioso. Rimbalzò indietro fino a Victor.
Yuri fece per correre in avanti verso il suo amico, ma Victor lo tenne per la manica. “Nessuno si muova” ordinò.
“Ci potrebbero essere delle mine” aggiunse. Altre mine.
Un’ondata di nausea torse lo stomaco di Yuri. L’uomo fece cadere lo sguardo verso i suoi piedi, temendo di trovarli vicino o persino sopra una di quelle cose. Non aveva dubbi che tutti gli altri stessero facendo il medesimo controllo.
Perché lì? Come era potuta accadere una cosa simile? Esisteva un modo per risolvere la situazione? Il sentiero era minato anche più avanti?
Era tutta una trappola come Plisetsky aveva avvertito giorni prima?
Non lo sapevano.
L’unica cosa che conoscevano con assoluta certezza era che Phichit Chulanont era salito per errore su una mina.
“Quanto pesi?” chiese Victor, la voce forzatamente calma.
“Sessantasei chili” rifletté Phichit. “è un po’ che non mi peso.”
“è inutile chiederglielo. è una delle nostre, non possiamo disarmarla” replicò Plisetsky, accoccolato per esaminare con attenzione la mina vicino a Phichit che stava sudando copiosamente.
“Aspetta, che vuol dire che non potete disarmarla?” sia JJ sia Michele fecero eco, per una volta in perfetto unisono. Yuri lanciò a Victor un’occhiata supplice. Sei Victor Nikiforov. Sei Victor “nessuna missione fallita” Nikiforov. Fa’ qualcosa. Ma per suo sgomento, Victor sembrava perso come tutti gli altri.
“Sapevo che avrei dovuto portarlo!” borbottò Plisetsky.
Come venne spiegato agli americani, un simile tipo di mina poteva essere disarmato solo usando uno speciale liquido chimico, altamente corrosivo e instabile, che nella maggior parte dei casi si rivelava inutile, uccidendo sia la vittima sia il suo possibile salvatore. Senza tale liquido a portata di mano, ingannare la mina diventava quasi impossibile.
“Possiamo cercare di ingannarla con un altro peso” propose Yuri sull’orlo della disperazione.
“No” rispose Victor, la fronte contratta in un silenzioso calcolo a mente.
Prima che Yuri potesse protestare, Phichit rafforzò il messaggio. “Ha ragione. Avreste bisogno di almeno due, tre zaini, e non potete sacrificarli.
Chinarono le teste in un silenzioso riconoscimento della situazione. In condizioni normali avrebbero potuto sopravvivere con due o tre zaini in meno, essendo vicini al termine della missione e con la possibilità di chiamare un elicottero per essere riportati alla base. Ma in questo caso sarebbero dovuti tornare a piedi, almeno fino a valle, probabilmente prendendo una strada diversa.
La perdita di un zaino e degli oggetti all’interno avrebbe potuto fare una grande differenza.
“E non conosciamo le condizioni di Leo o degli altri” continuò Phichit.
“Posso prendere il tuo posto” si offrì Yuri, la voce tremante e piena di disperazione. “Peso quasi quanto te!”
Phichit scosse la testa. “è un bel gesto, degno di un buon amico come te, ma non puoi” rispose con voce triste. Era la voce rassegnata di un uomo che ha già accettato il suo destino. Fece tremare Yuri. “Non posso permetterlo” aggiunse Phichit.
“Cazzo, guardami” urlò Yuri, facendo già un passo avanti. Ne stava per fare un altro e poi un altro e un altro. Tutti quelli che sarebbero stati necessari per salvare l’amico, ma Victor lo afferrò per la manica e lo tirò indietro. Strinse le sue braccia forti intorno al petto di Yuri. Yuri lottò per liberarsi, piangendo e gridando insulti e suppliche sia a Victor sia a Phichit.
Lasciami andare. Lasciami andare. Lasciamandare. Per favore. Ho ancora tempo. Ha ancora tempo.
“Dev’esserci un altro modo” supplicò Yuri.
“Non c’è” sospirò Phichit.
“C’è sempre un altro modo.”
“Non questa volta.”
Phichit non lo meritava. Era un uomo brillante, un buon soldato e un amico meraviglioso. Aveva una testa piena di sogni che doveva ancora realizzare. Yuri invece era sostituibile; in confronto, non aveva alcuna qualità speciale. Il mondo poteva vivere senza di lui. Non aveva sogni di gloria; proprio come aveva detto Plisetsky: era un vecchio soldato inutile che non sapeva fare niente.
Cercò di liberarsi dalla presa di Victor, approfittando delle sue abilità nel combattimento corpo a corpo, ma l’altro era più alto e più forte e presto Otabek fu lì ad aiutarlo.
Yuri continuò lo stesso a lottare quando tentarono di allontanarlo.
Voglio guardare. Lasciatemiguardare. Dovete restare. Dovete guardare. è colpa vostra.
è colpa mia.
Voleva guardare. Voleva essere testimone del fatto. Voleva che la vergogna venisse impressa a fuoco negli occhi e nella memoria fino a quando fosse stato vivo. Se si fosse voltato, il fantasma di quello che non aveva visto lo avrebbe tormentato per sempre.
Mi perseguiterà per sempre. Per favore, Morte, sii rapida. Non lo merita.

Calde lacrime appannarono i suoi occhiali. Caddero salate sulle labbra.
Phichit era un buon soldato e, da buon soldato, cercò di essere utile ai suoi compagni fino alla fine. Yuri vide il suo migliore amico fargli un sorriso dolce-amaro; sorrise mentre faceva scivolare la sua cinghia dello zaino giù da una spalla, la pressione sulla mina ancora sufficiente per prevenire l’esplosione.
“Di’ a Leo che lo vedrò all’Inferno” gridò Phichit, mentre sganciava lo zaino anche dall’altra spalla con l’intenzione di lanciarlo lontano. Nell’esatto istante in cui lo fece, Plisetsky gli sparò proprio in mezzo agli occhi, una frazione di secondo prima dell’esplosione.
Lo zaino venne sbalzato verso l’alto, in una nuvola di polvere, detriti, fiamme e carne. Atterrò a pochi metri di distanza, un poco bruciacchiato ma perlopiù intatto.
Yuri fece per correre in avanti, ma Victor e Otabek continuavano a tenerlo indietro. Gli dissero che era inutile. Era troppo pericoloso. Gridò. Non gli importava. Desiderò anche avventarsi sulla gola di Plisetsky, colto da una rabbia improvvisa. Gli hai sparato! Aveva ancora la possibilità di sopravvivere! E gli hai sparato.

Mentre la polvere si disperdeva, Victor diede a Georgi l’ordine di prendere il resto della squadra e cominciare a muoversi. !Vai anche tu, Tenente Altin”.
Gli unici che rimasero indietro, oltre a Victor, furono Plisetsky e Crispino. Attesero in un silenzio sconvolto che l’aria si rischiarasse dopo l’esplosione e ne mostrasse le conseguenze.
Il Caporale Chulanont non era più altro che pezzi di carne sparsi dappertutto. L’impatto aveva separato il tronco di Phichit dalle sue gambe, spedendole alcuni metri più in là. Una scheggia si era conficcata nel mento dell’uomo, spappolandogli la testa. Gli mancava un braccio.
Yuri si piegò in avanti e vomitò.

Note:
Phichit era destinato a morire dalla prima bozza e se vi state chiedendo se si sarebbe potuto salvare in quel contesto la risposta è “magari”. Ovvero, anche se non lo avrebbe ucciso sul colpo, la mina lo avrebbe mutilato severamente e date le circostanze le ferite avrebbero potuto essere fatali.
In ogni caso, Victor ha sprecato una seconda occasione ed è venuta voglia pure a me di prenderli a schiaffi. Sarò onesta, avevo pure pensato di infilare un bacio durante la scena del turno di guardia insieme, ma poi Victor si è fatto prendere dagli scrupoli e tanti saluti.

Nel prossimo capitolo: Yuri reagisce alla perdita del suo migliore amico in maniera alquanto strana, scopriamo cos’è successo durante la missione per cui è stato degradato e Yurio raggiunge il suo massimo punto di sopportazione.
E per la missione è arrivato il momento della verità. Si sarà salvato qualcuno o, come predetto da Yurio, non c’è più nessuno da salvare?
   
 
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