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Autore: Andy Black    25/07/2017    1 recensioni
Un uomo senza scrupoli dona ad un altro uomo senza scrupoli l'opportunità di tornare nel suo tempo, dal quale era stato bandito, imprigionato ed incatenato in una cella d'un tempio di mille anni prima. Lionell Weaves tornerà nel presente carico d'odio, pronto per consumare la vendetta che bramava da tempo nei confronti della figlia, oracolo e cristallo di Arceus, secondo le sue fonti. Il suo obiettivo è sempre lo stesso: uccidere sua figlia Rachel e recuperare il cristallo di Arceus, da consegnare al malvagio Xavier Solomon. Tuttavia l'intera Unione Lega Pokémon avrà qualcosa in contrario e farà di tutto per fronteggiare la minaccia di un mondo senza un dio.
[Diversi personaggi][OldrivalShipping, CandleShipping, SpecialJewelShipping e tanto altro][Storia con linguaggio volgare e parti violente];
Buona lettura;
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Green, N, Nuovo personaggio, Silver, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pokémon Courage'
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29. Messo a fuoco l'obiettivo

 
- Sinnoh, Evopoli, Casa di Gardenia –
 
“Sei stata fantastica, prima… con Allegra, intendo…”.
“Quella bambina è una delizia. Ovviamente non ti somiglia per niente” ridacchiò Gardenia, avvicinandosi a Zack, lentamente. Il profumo della cena era delizioso, e il brodo gorgogliava nella pentola. La donna si piegò lentamente in avanti, poggiandosi sul bancone che li divideva.
“È tutta sua madre” disse l’uomo, con i faretti che, puntati sui fornelli, nascondevano dietro la luce il volto della bella Capopalestra.
“Ora è di là, tranquilla, con i Pokémon e i cartoni animati” concluse quella, levando l’asciugamano dalla testa. I capelli erano ancora bagnati. “Potresti spiegarmi, Recket?” chiese infine.
Zack sospirò e prese un mestolo dal cassetto.
“Vedo che ricordi bene dove si trovano le cose…” disse ancora, muovendosi e avvicinandoglisi. Prese due scodelle dalla credenza che aveva accanto e gliele porse. “Ma non ricordi come si parla”.
“Sediamoci a tavola, prima” rispose quello, con lo sguardo spento. Gardenia ne carezzò con gli occhi i lineamenti del volto, più solidi rispetto a quando passavano assieme i propri giorni e le proprie notti.
Lo vide riempire le scodelle col brodo, le verdure e i noodles. La tavola era già apparecchiata.
“Cucini ancora come qualche anno fa?”.
“Un po’ meglio” sorrise leggermente lui. “Ho fatto qualche corso con un’ottima cuoca…”.
Gardenia emulò il sorriso del ragazzo e si accomodò. Si allungò poi verso il bancone e accese i condizionatori.
“Fa freddo” giustificò il gesto, con Zack che la guardò con sufficienza.
“Hai capelli bagnati…”.
“Li asciugherò dopo. La mia serata è stata rovinata già… Ma Allegra non deve mangiare?”.
“Le ho comprato un hot-dog per strada, l’ha pure lasciato…”.
“Io adoro tua figlia”.
“Grazie” disse umilmente l’uomo, forse un po’ troppo. “Anche io”.
Affondò il cucchiaio nella zuppa e bevette il brodo bollente, riscaldando velocemente l’interno del corpo.
“Allora?”.
“Allora Rachel è morta” disse, alzando di colpo il viso. Puntò gli occhi in quelli di Gardenia, sconvolti. Sbatté le palpebre un paio di volte, dopo aver schiuso le labbra. Poi, con quelle dita sottili e affusolate come ramoscelli ancora verdi, portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro.
“Stai scherzando, vero? Avrete soltanto litigato e…”.
“Allo Snowflake, tre anni fa… ricordi di cosa discutemmo?”.
“Io e te?” domandò quella, ormai scossa.
“No. Tutti”.
“Del… del cristallo. Il… il Cristallo della Luce, o una cosa del genere, no?”.
Zack annuì, mangiando un naruto e sospirando. “Già... Quel cristallo era mia moglie”.
“E tu avevi utilizzato il desiderio per tirarlo fuori da lei… o no?”.
Gardenia guardava con occhi incuriositi e intimoriti le labbra di Zack. L’uomo non avrebbe mai potuto negare a se stesso quanto bella fosse quella donna che aveva di fronte, ma non gli saltò neppure per un secondo in mente di pensare a quella come un mero sfogo fisico, anche se i suoi nervi ne avrebbero avuto bisogno.
No, sapeva che cosa significava fare l’amore con Gardenia e non era minimamente paragonabile a quello che succedeva con Rachel.
Il letto di Gardenia, in confronto, era un tatami, un campo da combattimento. Il letto che divideva con sua moglie era invece il tempio di un amore infinito.
E il solo poter immaginare cose del genere, nell’ingenuità di quell’uomo, equivaleva a un tradimento.
E poi era davvero troppo presto per guardare altre donne; Zack in quel momento era troppo profondamente legato al ricordo di sua moglie per poter passarci sopra, per poterlo archiviare.
“E quindi?! Mi rispondi?!” chiese poi Gardenia, irritata. “Non prenderti queste pause!”.
“Sì, scusami…” sospirò lui, masticando poi dei noodles.  “Il cristallo era tornato tangibile, Gardenia. E quindi avremmo allontanato il pericolo da Rachel e soprattutto da Allegra che, crescendo, avrebbe preso le facoltà della madre”.
“E poi? Come… com’è successo? Se posso chiederlo” fece lei, affondando il viso nel vapore che usciva dalla scodella.
“Suo padre. L’uomo che abbiamo imprigionato nel passato, vari anni fa… Non so come, non so perché e non so quando, ma è riuscito a ritornare al presente e non ha perso tempo: cercando il cristallo e ignaro d’esse diventato nonno, ha squartato il corpo di sua figlia… Santo dio!” urlò poi, gettando in aria le bacchette e colpendo con una forte manata il tavolo.
Gardenia balzò indietro, col ramen caldo che le si rovesciò addossò.
“Cazzo! Zack!” esclamò quella.
L’uomo scattò in piedi, immediatamente, in lacrime.
“Scusa… scusa, scusa, scusa… Non volevo”.
Lui era squassato dal pianto, si mordeva le labbra e i grossi occhi verdi erano coperti di lacrime.
“Devo… devo cambiarmi, Zack. Ho il ramen bollente addosso. Torno subito. Ma tu mangia qualcosa di caldo e riposati un po’…”.
“Gardenia… Ti giuro che non sapevo dove andare, dovevo scappare via…”.
“Ma… Ma perché?”.
“Perché non hanno trovato alcun cristallo, nel corpo di Rachel, e non hanno capito che è perché è di nuovo tangibile!”.
“Associano la mancanza del cristallo dal corpo di Rachel alla nascita di Allegra, e non a ciò che hai spiegato tre anni fa ai vari conglomerati allo Snowflake…”.
“Stanno cercando Allegra…”.
“E tu l’hai portata a Sinnoh…”.
“Non volevo coinvolgere mia madre… Tu sei una bravissima Capopalestra e…”.
“Non sapevi dove andare… Ho capito, lo hai già detto…”.
Lui annuì debolmente. Gardenia guardò i capelli castani dell’uomo scendergli sul viso.
“Vado… Magari mi asciugo anche i capelli. Sai dove trovare le cose che ti servono…” sospirò, voltandosi e percorrendo il corridoio. Sentiva nel petto il cuore che batteva come un tamburo; s’era immedesimata giusto per un secondo in Zack ed era stata travolta da un fiume d’emozioni impetuoso e congelato.
Lui amava Rachel alla follia e l’aveva vista morire. Aveva visto suo suocero, il padre di quella povera donna, che le squarciava il petto.
Era agghiacciante.
Sentiva il rumore della televisione, la voce di qualche personaggio dei cartoni animati. S’avvicinò alla stanza e Allegra stava già dormendo, accanto a Cherrim.
Quella povera bambina non aveva più la madre; Cercò d’immedesimarsi anche in lei, senza riuscirci, dato che sua madre era sempre stata presente nella sua vita.
Aveva intuito che Zack non le avesse detto ancora nulla.
Effettivamente non si sarebbe voluto trovare nei suoi panni, quando lo avrebbe fatto.
Prese dei pantaloni e una maglietta senza fare rumore, uscì dalla camera ed entrò nel bagno, dove si spogliò, si cambiò, e cominciò ad asciugarsi i capelli.
Conosceva Zack, lui era uno dei buoni, un padre pieno d’amore e un marito senza più una moglie.
Era un brav’uomo.
Gli serviva un luogo per rimettere la testa sulle spalle e riorganizzare la vita di sua figlia. Gli avrebbe offerto di rimanere lì per il tempo necessario, e lo avrebbe fatto un po’ più a cuor leggero, se non avesse amato Marisio alla follia.
Quel giorno l’aveva sentito poco; Violapoli era la città più vicina alle Rovine d’Alfa e gl’interventi di risanamento dell’area e restauro della struttura erano la priorità.
Non sapeva come avrebbe reagito, quello, dopo aver saputo che sotto il suo stesso tetto c’era l’ex fidanzato della sua donna. Non aveva mai visto Marisio arrabbiato o irritato.
Certo, forse sarebbe potuto essere contrariato.
Motivo per cui finì d’asciugare i capelli e prese il telefono.
Squillava.
“Pronto?” rispose Marisio.
“Oi…” disse l’altra, con voce flebile.
“Amore, buonasera”.
“Disturbo o…? Perché se è un problema posso richiamare dopo…”.
“No, non preoccuparti, prendo due minuti di pausa… Che succede? Come stai?”.
Gardenia abbassò lo sguardo, colpevole perché sapeva che a parti inverse, avrebbe scatenato l’inferno. Immaginò la reazione di Marisio, sempre posato e calmo. Probabilmente avrebbe sospirato e manifestato in maniera del tutto pacifica il suo dissenso, per poi farla sentire ancora peggio.
Ma perché avrebbe dovuto sentirsi peggio se stava aiutando un suo amico?
“Sto… bene. Sto bene, più o meno… È che…”.
“È successo qualcosa in Palestra?”.
“No, in Palestra tutto bene”.
“E allora cosa succede?”.
“Prima ha bussato a casa mia… beh, il mio ex fidanzato. Con la figlia”.
“…”.
“Mi senti?”.
“Sì, ti sento. Mi devi dire qualcosa?”. La voce di Marisio s’era congelata all’improvviso.
“Sì. Cioè no! Niente di ciò che pensi, stai tranquillo, non preoccuparti!”.
“Chi è?”.
“Preferirei non dirlo qui al telefono. È venuto con una storia così incredibile e il volto da funerale… Ho dovuto farlo entrare. Non potevo lasciarlo al freddo”.
“Siete soli, adesso?”.
“No. C’è anche… non posso dirlo” sospirò poi quella, piegando la testa in avanti. “Ma sappi che devi stare tranquillo. Tu hai tanto da fare e…” sbuffò poi. “Ho sbagliato a chiamarti. Ti ho riempito d’ansia e paura per nulla. È solo una persona che ha bisogno d’aiuto…”.
Marisio sembrò sorridere dall’altra parte. “Hai fatto bene a telefonare. Avevo bisogno di sentire la tua voce…”.
“Anche io. Mi manchi tanto”.
“Tornerò quanto prima…”.
“Dovresti tornare davvero quanto prima… Ho bisogno di parlarti di… di questa cosa”.
Lo sentì sospirare. “Gardenia… Purtroppo è successo un disastro, qui a Johto. Sono morte tante persone e molto è stato distrutto. Ho delle responsabilità adesso e se potessi saltare sul primo aereo per venire da te lo farei ma…”.
“Ma non puoi, sì, ho capito”.
“Sicura di non poter dire nulla?”.
Storse le labbra e si vide allo specchio. “Sicura. Meglio non rischiare. Stai attentissimo”.
“Anche tu. E se succede qualcosa avverti Palmer. Anche se so che sei benissimo in grado di cavartela da sola”.
“Esatto. Ora ti lascio alle tue cose. Cercherò di raggiungerti lì quanto prima, per vedere come ti sei sistemato e darti una mano a organizzare le cose”.
Marisio sorrise. “Sei un diamante. Ti amo”.
Gardenia si limitò a sorridere, prima che la comunicazione s’interrompesse. Allargò il sorriso e lo vide lentamente sfiorire, fino a diventare nuovamente una sottile linea fatta di morbide labbra.
S’alzò dallo sgabello e tornò in cucina. Erano passati quasi trenta minuti.
Allegra continuava a dormire quando passò davanti alla porta, socchiudendola leggermente. Continuò verso la cucina e trovò Zack seduto al tavolo. Aveva pulito la cucina e fatto i piatti.
“Oi… Recket”.
Quello alzò il collo, lentamente.
“Dovresti dormire, Recket…” gli sorrise dolcemente. S’avvicinò nuovamente al tavolo e si sedette, proprio di fronte a lui.
“Già… Forse potrei riuscirci, qui”.
Gardenia annuì, sospirando. Lo vide poi alzarsi e tornare vicino ai fornelli, dove aprì la credenza e prese una nuova scodella, che subito dopo riempì col ramen che restava nella pentola.
“Tu Allegra potete dormire nella camera degli ospiti, se vuoi”.
“È temporaneo” ribatté l’altro, quasi immediatamente. “Chiuderò questa faccenda. Risolverò tutto. Te lo prometto”.
Quella affondò il cucchiaio nel brodo e annuì.
“Tranquillo”.
 
 
- Adamanta, Primaluce, Casa di Ryan –
 
Leonard teneva le ginocchia strette. Le grosse Nike erano sporche sulle punte ma lui non ci faceva caso. Era seduto sulla poltrona nella mansarda, che era l’unica stanza rimasta sana dal grosso scontro avvenuto lì.
“Stai bene?” gli chiese Alma, stringendo tra le braccia un finalmente più calmo Manuel, che era riuscito a prender sonno.
“Sì. Ma la mamma…” sospirò lui, con quei grossi occhi azzurri. “Piangeva”.
Alma annuì e fece spallucce. “Delle volte, quando siamo tanto nervosi, può succedere che un adulto pianga, piccolo”.
Gli si avvicinò, carezzandogli la testa. Quello annuì, guardando la porta delle scale che portava al piano sottostante. Thomas uscì dal piccolo bagnetto con una mano portata al capo.
“Cielo… Che dolore…”.
Alma si voltò, mordendosi le labbra e sospirando. “È solo una botta. Non fare la femminuccia” sorrise.
L’uomo emulò per un secondo il sorriso e poi sospirò. Guardò il bambino e pensò che quelle scene non avrebbe mai potuto dimenticarle.
Subito dopo Isabella salì le scale.
Indossava un’aderentissima divisa nera, una tuta elastica con protezioni e rifiniture azzurre. Il suo corpo era atletico e dimostrava appena i ventotto anni indicati sulla sua patente: pareva una ragazzina. Ciò, molto probabilmente, per via del volto angelicato e dei lunghi capelli biondi, che coprivano gli occhi, grandi e azzurri.
Li aveva appena sciolti, i capelli, legandoli nuovamente in quella coda che aveva sempre dietro la testa. La frangetta era spettinata, sulla fronte, ma non sembrava darle molto peso.
Guardò Alma per un momento e sospirò.
“Ho provato a chiamare Zack… Ma non risponde” fece poi.
“Prova a capirlo…” rispose la Professoressa, guardando poi Leonard e cercando un cenno d’intesa da Isabella, che a sua volta capì che non avrebbe dovuto parlare di Rachel davanti al figlio del Campione. “La situazione è rognosa…”.
“Lo so. La questione è che non riesco a immaginarlo… Lui è sempre stato così attivo, energico…”.
“Sorridente” aggiunse Alma, sovrappensiero.
“Queste cose cambiano la vita, definitivamente… Lei come sta, Professoressa?”.
La bionda si avvicinò al piccolo, pizzicandogli la guancia delicatamente.
“Nessun problema, solo un po’ di spavento. È la…” sorrise leggermente. “… montagna che ci ha difeso che è un po’ malconcia…”. Guardò con affetto suo marito, che le si avvicinò, spostando la copertina dal volto di suo figlio.
“L’importante è che voi stiate bene”.
“Mi spiace molto aver tardato. Avremmo dovuto prevederlo, una volta viste le loro divise”.
“Omega” ribatté Alma, muovendo la testa. Thomas la guardò nervoso.
Isabella sospirò e annuì.
“Beh, ne parlerò con Ryan ma credo che anche lui sarà d’accordo nel portarvi al sicuro all’interno dell’edificio centrale della Lega d’Adamanta. Lì sarete protetti e non avrete paure innecessarie per Manuel” sorrise l’ultima dei Superquattro.
“Grazie, Isabella” annuì l’uomo, abbracciando sua moglie.
“Torno di sotto” disse quella, sorridendo educatamente.
“Isabella” la chiamò invece Leonard, alzandosi dalla poltroncina. Si grattò la guancia e sbadigliò, ormai era tarda sera. “Ho fame”.
“Ehm…” la cosa spiazzò l’ufficiale della Lega, che cercò aiutò nello sguardo di Alma, sorridendo. “Ti porterò subito a mangiare qualcosa, va bene? Avverto solo gli altri al piano di sotto e…”.
“Portagli un giubbino” disse Alma.
“E ti porto un giubbino, sì” annuì, voltandosi subito e scendendo rapidamente le scale che la dividevano dal corridoio di sangue.
Lì c’erano Fred e Ginger che discutevano sulle modalità d’azione da seguire. Il primo, dai capelli neri sempre corti e ordinati, giocherellava con la barbetta che aveva sotto il labbro, quella che Isabella chiamava mosca.
“Non so come agirà” diceva lui, riferito sicuramente al Campione. Quello era un attacco diretto alla sua famiglia e la scena che si erano ritrovati davanti quando erano entrati nella villa di Ryan era qualcosa d’agghiacciante.
Si vedeva chiaramente che l’uomo che avevano atterrato fosse una Recluta di bassa lega. Isabella stessa rabbrividì pensando a cosa sarebbe potuto succedere se, al posto di quello vi fosse stato un mercenario, un professionista pagato per versare sangue.
Ginger sorrideva, e in genere lo faceva quasi sempre, con quello sguardo malizioso che riusciva a conquistare qualsiasi uomo.
A sostegno di quello, nella sua tuta aderente nera, proprio come quella di Isabella ma con particolari rossi, vi erano curve prorompenti che ogni uomo desidererebbe percorrere almeno una volta nella vita.
Fred era completamente perduto, in adolescenza. Ginger se lo rigirava come un guanto.
“Credo che ci darà l’ordine di attaccare la base dell’Omega Group… Finalmente un po’ d’azione” ridacchiò giuliva, coi capelli sempre sciolti e perfetti, di quella tonalità rossa accesa, che risaltavano sullo sguardo smeraldino, elemento vivido su quel volto diafano.
“Non so se è il caso di lasciare la Lega sguarnita. Del resto, in questo periodo non si sta capendo più nulla”.
“Ci sono ancora i Capipalestra, Fred…”.
Kendrick, che aspettava in silenzio, come sempre, davanti alla porta, sbuffò. Kendrick era muto.
E non nel senso che non avesse la facoltà di parlare.
E che non parlava. Nessuno sapeva il perché di questo.
Essendo un uomo di colore, i suoi capelli erano crespissimi, ricci abbastanza lunghi alti sulla testa. Le grosse labbra erano sigillate da chissà quanto tempo.
“Lui non condivide” osservò Isabella, attenta a non scivolare sulle grosse chiazze di sangue. Avevano raggruppato i cadaveri e li avevano spinti tutti in un angolo, in modo da sgombrare il poco ampio corridoio. Con ogni probabilità era stato proprio Kendrick, perché la sua tuta era imbrattata. Nonostante questo, il righino verde era ben visibile sul suo petto.
“Lui non condivide mai niente…” sbuffò la rossa, sbadigliando. “Se sono a capo delle Palestre un motivo ci deve essere…”.
“Concordo con lei” osservò Fred.
“E quando mai…” ribatté invece Isabella. “Va beh, io porto Leonard a mangiare un hot-dog. Voi volete qualcosa?”.
Kendrick schioccò le dita, facendo segno di volere anche lui qualcosa.
“Va bene hot-dog anche per te?” domandò ancora la bionda, vedendolo poi annuire. “Ok. Allora prendo il giubbino di Leonard ed esco. Mi raccomando, se c’è qualche novità contattatemi”.
 
 
- Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile –
 
Il mattino non si era fatto attendere molto. Martino era accompagnato come sempre da Altea; in quei giorni, la giovane Kimono Girl dalla pelle diafana non l’aveva lasciato per un istante, godendo della sua compagnia ad ogni ora della notte.
Il Ranger aveva passato tutto il viaggio in bus dal loro albergo a guardarla, di nascosto. Di tanto in tanto lei si voltava, sentendosi osservata, e lui scostava subito lo sguardo, avvampando. Lei sorrideva, gli baciava la guancia e poi poggiava la testa sulla sua spalla.
Parlavano, loro. Parlavano molto.
Lei era davvero curiosa riguardo le mansioni che deteneva a Oblivia; tutto ciò che riguardava il suo lavoro l’affascinava tanto, e spesso lei lo tempestava di domande riguardo qualche missione in particolare.
Adorava quando lui le raccontava di Lugia, il giorno in cui si conobbero. Tutto il background s’intende, la pioggia, i vortici. E anche i racconti delle avventure di qualche anno prima, a Hoenn, piene di pathos.
Si era affezionata subito a lui. Del resto il Ranger aveva totalmente perso la testa per la Kimono Girl. La caviglia stava guarendo, lei aveva anche ballato per lui, indossando i vestiti tradizionali di Amarantopoli. Aveva legato i lunghi capelli neri e li aveva tenuti insieme tramite le bacchette, adornato con kanzashi vari. Lui aveva sorriso e le aveva detto che era bellissima con quei geta ai piedi.
Lei era arrossita, ma il cerone aveva celato il suo imbarazzo. Assieme al suo Leafeon ballò per Martino, quindi, secondo la tradizione, pulì il viso dal trucco e fece un lungo bagno.
Assieme a Martino.
Le lavò la schiena, lei ricambiò, si baciarono, si amarono per tutta la notte.
 
Di fatto stavano insieme. Martino non era il tipo di persona che adorava ufficializzare quelle cose, si viveva una relazione per quello che era: dolci momenti accanto a una dolce donna.
Lei lo vedeva, complicato nei ragionamenti lineari e sciolto nelle situazioni difficili.
E poi, terribilmente geloso e timoroso per sua sorella.
Era precoce parlare d’amore, ma c’era tanta affezione.
Erano entrati nell’ospedale, quel mattino, col solito cappuccino tra le mani e un pezzo di torta che la bella Altea aveva cucinato la sera prima.
Aveva salutato l’infermiera all’accettazione, aveva aspettato che l’ascensore scendesse al pianterreno e poi erano saliti.
Nell’ascensore c’erano altre due persone, tra cui un medico dal lungo camice bianco. Aveva i capelli spettinati dietro la nuca e gli occhi stanchi.
“Dove scendete?” aveva chiesto lui.
“Sette” disse Altea, sorridendo gioviale. Martino le prese la mano e sorrise in direzione del dottore. Quando poi le porte si riaprirono, al settimo piano, la coppia uscì velocemente.
C’era poco movimento, quel giorno, con poche persone che si muovevano per i corridoi spenti.
Martino odiava gli ospedali; odiava quell’atmosfera cupa e pesante che si muoveva attorno a tutti, opprimeva gli animi e non li abbandonava neppure quando, ore dopo, si era lasciato l’edificio.
La porta di Gold era chiusa. Marina aspettava pazientemente al suo interno, Altea era sicura di trovarla lì, a parlare a Gold, come sempre.
Tuttavia la situazione fu leggermente differente quando entrarono nella stanza. Marina era stanca e sfinita, e dormiva; era seduta sulla sedia accanto al letto e poggiava la testa sulle gambe del ragazzo, tenendogli la mano.
E Gold era lì, con gli occhi aperti.
Sia Martino che Altea sobbalzarono ma lui fece cenno con la mano di fare silenzio.
“È stanca. Lasciatela dormire”.
   
 
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