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Autore: TheSlavicShadow    27/07/2017    1 recensioni
Caso: Terra-3490.
Il 47esimo modello pacifico ha beneficiato principalmente dalla relazione tra Capitan America, Steve Rogers, e Iron Woman, Natasha Stark.
Agendo da deterrente per i comportamenti più aggressivi degli altri, ha consentito al Reed Richards di questa Terra di portare a termine con successo il programma di registrazione dei supereroi e di avviare l’Iniziativa dei 50 Stati.
{Il ponte - Capitolo due da Dark Reign: Fantastic Four n. 2 del giugno 2009}
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wherever you will go'
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Agosto 2005

 

“Dovresti parlargli. Parlargli davvero.”

Aveva alzato gli occhi dal proprio Starkpad quando Rhodes aveva aperto bocca dopo quelle che erano sembrate ore. Forse lo erano anche state davvero. Aveva perso il conto di quanto tempo medici e infermieri avevano passato in quella stanza facendole tutti gli esami che probabilmente gli passavano per il cervello. Era convinta le avessero anche fatto esami che non servivano e di altri non aveva mai sentito neppure il nome.

“E cosa dovrei dirgli? “Grazie per aver sprecato quattro mesi della tua vita per cercarmi?” Oh, no. Aspetta. Questo dovrei dirlo a te.”

“Non era questo che intendevo.” Sbuffando Rhodes si era alzato dalla sedia su cui aveva davvero passato le ultime ore e si era seduto accanto a lei sul letto. Non l’aveva lasciata da sola neppure per un attimo. Era rimasto con lei anche mentre la stavano visitando e lei non aveva detto nulla per farlo allontanare. Le metteva sicurezza averlo lì, anche se non lo avrebbe mai ammesso a nessuno. “Appena torni a Los Angeles dovresti magari portarlo a cena in quel bellissimo ristorantino sul lungomare, parlargli apertamente degli ultimi anni e degli ultimi mesi.”

“Ma ti prego, Rhodey. Non ci vediamo da cinque anni. Non ha senso rimanere ancorati nel passato e nelle cose non dette.” Natasha aveva sospirato, passandosi una mano tra i capelli. Li sentiva ancora sporchi nonostante la doccia che le avevano permesso di fare. Non vedeva l’ora di tornare a casa e rimanere nella vasca per almeno un paio d’ore finché non si toglieva di dosso la sensazione di sporco che sembrava non abbandonarla. “Perché gli hai permesso di esserci, Rhodey? Steve ed io non abbiamo più alcun rapporto da quando mi sono trasferita a Malibu.”

“Perché appena ha saputo che eri stata rapita me lo sono trovato davanti e non ha accettato un no come risposta. Prova tu a metterti contro Capitan America e poi ne riparliamo.”

Aveva guardato il proprio migliore amico. Lui sapeva tutto. Sapeva dei sentimenti che Natasha ancora provava per il biondo capitano e con molta probabilità era felice che Steve fosse presente nelle ricerche. Sapeva che era questo il motivo per cui non aveva potuto mandare via Steve.

“A distanza di tutti questi anni, Steve continua a confondermi come se fossi ancora una ragazzina.” Aveva sospirato e aveva spostato lo Starkpad sul comodino. Tutti già sapevano che l’avevano ritrovata e che stava apparentemente bene. Rhodes la guardava e non le piaceva molto come lo stava facendo. Sapeva cosa le avrebbe chiesto.

“Tasha, posso farti una domanda?”

“No. Quello è il referto ed è tutto scritto lì. Eri presente mentre mi rivoltavano come un calzino. Quindi niente domande. Né sul reattore né sulla prigionia né su nient’altro. Voglio solo del caffè.” Aveva battuto un paio di volte il dito sul reattore arc nascosto sotto la tunica ospedaliera. La sua luce continuava a vedersi chiaramente oltre la stoffa e avrebbe davvero dovuto cercare qualcosa con cui coprirlo per non andare in giro come un lampione. “E magari dei vestiti decenti. Dov’è il mio borsone?”

“Con qualcuno dovresti parlare. Sai che non puoi superare questo da sola. Sei solo una civile, soldati molto più esperti di te non sarebbero usciti illesi psicologicamente da una situazione del genere.”

“Cosa devo dirti? Sarà che la mia emotività era compromessa dall’inizio. Non ci vado da uno strizzacervelli, Rhodey. Non ci sono andata cinque anni fa e non ho intenzione di andarci adesso. Sai che se ne sbatterebbero tutti quanti il cazzo dell’etica professionale e tutti i miei più profondi segreti sarebbero venduti al miglior offerente.”

“Tu sei paranoica e dobbiamo anche capire il perché del tuo linguaggio tanto scurrile. Sei peggio di una marinaio.” Rhodes aveva scosso la testa. Stringeva una sua mano e ne accarezzava il dorso con il pollice. “Non posso darti torto del tutto, ma sicuramente allo S.H.I.E.L.D. c’è gente qualificata che terrà la bocca chiusa.”

“Niente S.H.I.E.L.D.. Già li avrò con il fiato sul collo per tutta questa faccenda.” Si era sdraiata più comodamente sul lettino quando la porta si era spalancata e Steve era entrato. Le si era subito avvicinato e non lo aveva mai visto così distrutto. Era visibilmente stanco e aveva sicuramente bisogno anche lui di un bel bagno. “Capitano, è bello vedere che lo S.H.I.E.L.D. ogni tanto ti concede qualche giorno libero, ma dovresti usarli per vere vacanze e non per stare in mezzo al deserto.”

“Stai meglio del previsto se riesci ad essere così simpatica anche in un momento simile.” Le aveva sorriso, sedendosi sulla sedia che aveva occupato Rhodes fino a poco prima. “Fury ha detto che un quinjet sta venendo a prenderci per riportarci a casa.”

“Non voglio lo S.H.I.E.L.D. coinvolto in questa cosa più di quando non lo sia già. Posso già vedere Fury che mi chiede di scrivere un rapporto su quanto successo. E ti dico subito di riferirgli che può andare a fanculo e che quello che è successo in Afghanistan resta in Afghanistan.”

Steve aveva fatto una smorfia, ma non aveva aggiunto altro. Sapeva bene che non avrebbe ottenuto nulla da lei. Non con le buone.

“Almeno accetta il quinjet che sta arrivando.” Rhodes si era alzato dal letto e li aveva guardati. “Vado a vedere di trovarti dei vestiti, Tasha. E ad aspettare il quinjet. Voi cercate di non uccidervi mentre non ci sono.” Come unica risposta Natasha gli aveva mostrato il dito medio e Steve aveva aspettato che Rhodes uscisse dalla stanza e poi aveva parlato di nuovo.

“A modo suo, anche Nick era preoccupato per te.”

“Oh, non ne dubito. Chi gli migliorerà le armi se non ha uno Stark nel taschino?”

“Tu sei una donna davvero impossibile, Tasha.” Steve aveva scosso la testa e aveva allungato la mano, mettendola sulla sua. Quello era praticamente il primo contatto fisico che avevano avuto negli ultimi anni. L’abbraccio nel deserto non valeva. Quello era dovuto solo all’adrenalina e al pathos del momento. “Ho temuto di averti persa per sempre.”

Lo aveva guardato, ma Steve non ricambiava. Guardava le loro mani. E la sua era calda proprio come se la ricordava. Grande e calda.

“Sono fatta di ferro, ricordi?” Ora non riusciva a togliere gli occhi dalle loro mani unite neppure lei. “Non potevo morire là dentro e smettere così di darti fastidio. Ti annoieresti senza di me.” Quella era una stronzata. Non si erano praticamente sentiti dalla morte di Jarvis. Steve aveva solo inarcato un sopracciglio e l’aveva guardata. Sapeva che la stava guardando anche se lei non toglieva gli occhi dalle loro mani. Poteva sentire il suo sguardo su di sé. E si sentiva di nuovo una ragazzina. Con Steve si sentiva sempre così.

“Come hai fatto a scappare? E cos’è quella cosa che hai nel petto?”

“Me lo chiedi come amico o come agente S.H.I.E.L.D.?” Lo aveva guardato a sua volta e Steve aveva alzato gli occhi al cielo. “No, perché non deve uscire da questa stanza. Non voglio lo S.H.I.E.L.D., Steve. Sono sicura che appena metterò piede a Los Angeles avrò Coulson attaccato al culo che cercherà di estorcermi informazioni. E non voglio parlarne con nessuno.”

Steve si era sporto un po’ verso di lei. Le aveva accarezzato una guancia. Aveva chiuso gli occhi solo per un attimo, godendosi quella carezza. Aveva fatto appello a tutto il proprio autocontrollo per non mettere una mano sulla sua e apprezzare così appieno quel momento.

“Voglio solo che tu stia bene. Non leggerò neppure il referto dei medici e non chiederò niente a nessuno, ma devo sapere come stai.”

“Ho una spalla lussata, ma questo è a causa della caduta. Ho costruito un’armatura, Steve. Un’armatura tipo RoboCop e l’ho fatta funzionare con questo.” Aveva di nuovo battuto il dito un paio di volte sul reattore. Aveva visto gli occhi di Steve abbassarsi sul suo petto e poi l’aveva guardata di nuovo. “Sono stata aiutata, moltissimo. Ma non sono riuscita a salvare l’altra persona.”

“Ti abbiamo cercata senza sosta per mesi. Siamo passati sopra quel deserto decine di volte. Abbiamo cercato ovunque e non c’era alcuna traccia di questi terroristi da nessuna parte. Non oso neppure immaginare cosa ti hanno fatto.”

“Steve, no.” Lo aveva interrotto prima che si spingesse in discorsi che non voleva affrontare. Non avrebbe mai potuto raccontargli tutto quello che era successo durante la prigionia. “Voglio tornare a casa e riprendere la mia vita di sempre. Forse ho ancora un’azienda da mandare avanti e ho sicuramente molto lavoro in arretrato.” Gli aveva stretto la mano, che Steve teneva ancora contro la sua guancia, e lo aveva guardato negli occhi. “Voglio solo tornare a casa.”

 

✭✮✭

 

Il quinjet dello S.H.I.E.L.D. era atterrato nel suo hangar privato. Steve e Rhodes erano rimasti accanto a lei per tutto il tempo. Gli aveva chiesto se volevano anche accompagnarla in bagno visto che non le si staccavano di dosso e solo allora le avevano dato un attimo di respiro. Per tutto il tragitto avevano giocato a carte, guardato distrattamente un film, preso in giro Steve quando non capiva qualche citazione. Si era anche appisolata addosso a Rhodes, ma visto che il suo migliore amico aveva molto senso dell’umorismo, si era svegliata appoggiata addosso a Steve. Le dita di Steve erano intrecciate con i suoi capelli e ricordava ancora quando l’uomo le aveva detto quanto la preferisse con i capelli lunghi. Rhodes le aveva scattato delle foto mentre dormiva. Alla prima occasione gli avrebbe rubato il cellulare per cancellarle tutte.

I due uomini l’avevano aiutata ad alzarsi e a scendere dal quinjet. Nonostante le sue gambe fossero ancora doloranti dall’aver indossato l’armatura, averci camminato e poi volato con conseguente caduta solo un paio di giorni prima, non aveva esitato ad indossare almeno un po’ di tacco. Erano le scarpe di riserva che si era portata dietro ad aprile. Rhodes aveva custodito il suo borsone e quindi aveva avuto un cambio di vestiti dei suoi. E quelli dello S.H.I.E.L.D. le avevano mandato un tailleur che sicuramente gli aveva fornito Pepper. L’efficienza dei suoi amici l’aveva commossa davvero.

“Se quella barella non scompare ci finite voi due sopra. E non sto scherzando.” Non aveva neppure guardato i due uomini che le camminavano accanto. Sapeva solo che non aveva bisogno che un paramedico la facesse sedere da qualche parte dopo che aveva passato ore seduta accanto a Steve e Rhodes che volevano farla riposare il più possibile. Ora voleva solo salire sulla sua bella Rolls Royce Phantom, prendere in giro Pepper per gli occhi gonfi e rossi e farsi portare a mangiare cheeseburger da Happy.

Aveva chiuso la portiera e aveva guardato Steve e Rhodes. Steve la guardava con una tale intensità che era convinta avrebbe sciolto il finestrino. Ma non voleva averli in macchina con sé in quel momento. Voleva almeno per un attimo avere l’illusione che le cose fossero tornate alla normalità. Pepper aveva già in una mano l’agenda e nell’altra il cellulare. Happy era già salito al proprio posto e le aveva chiesto se preferiva Burger King o McDonald’s.

“Signorina Stark, deve andare in ospedale, non a mangiare al fast food.”

“Pepper.” Si era voltata solo lievemente verso la donna, mentre la macchina lentamente usciva dal piccolo aeroporto. “Sono stata nelle mani dei medici per ore. Sto bene. Ho bisogno di tre cose: caffè, cheeseburger e soprattutto…” Aveva visto Pepper sbuffare e alzare gli occhi al cielo. “No, nessun uomo, Pepper. Devi convocare una conferenza stampa. Ora.”

“Lei deve andare a casa a riposare, non parlare con la stampa.”

Si era passata una mano sul viso. Odiava quando le dicevano cosa doveva fare per il suo bene. Sapeva che lo facevano per lei, ma sapeva badare a sé stessa.

“Happy, portaci alle Stark Industries. Prima da Burger King e Starbucks però. Pepper, tu organizza la conferenza stampa. Devo farlo ora.” L’aveva guardata negli occhi, e la donna aveva solo sospirato prima di telefonare a chi di dovere senza fare ulteriori commenti. L’aveva ascoltata parlare al telefono. Anche con Obadiah. E intanto lei guardava fuori dal finestrino. Osservava Los Angeles scorrere lentamente davanti ai suoi occhi. La macchine ferme nel traffico. La marea di gente sui marciapiedi. Osservava tutto e per la prima volta le sembrava un mondo completamente diverso, quasi distante. Happy canticchiava tranquillo, Pepper parlava al telefono e batteva con la penna sull’agenda. E lei non riusciva a stare tranquilla. Era una cosa stupida. Erano a Los Angeles. Era a casa. Ma non riusciva a stare tranquilla.

Le sembrava come se da un momento all’altro stesse per succedere qualcosa. Aveva il terrore di vedere la macchina davanti alla loro saltare in aria proprio mentre lei stava parlando di stronzate per passare il tempo e dare aria alla bocca. Aveva il terrore di vedere la portiera crivellata di colpi. Ma era a Los Angeles. Avrebbe dovuto esserci abituata. Il tasso di criminalità in tutti gli Stati Uniti era altissimo. E praticamente tutti possedevano almeno una pistola. Probabilmente anche i bambini. Lei stessa ne aveva un paio nascoste in casa in caso di necessità, ma forse lei non faceva testo visto che aveva prodotto anche delle pistole in passato.

Era solo per il fatto che fosse appena tornata a casa. Aveva visto film di guerra. Aveva visto cosa il Vietnam aveva fatto a Tom Cruise in Nato il 4 luglio. O anche a Elvis Presley. Oppure le bastava molto più semplicemente ripensare ai veterani con cui aveva passato l’infanzia. Peggy girava sempre armata. Anche da anziana aveva sempre una pistola nascosta nella giarrettiera. Anche ora che era in casa di riposo aveva una pistola nascosta sotto il cuscino. Sindrome da stress post traumatico. Non le serviva nessuno per dirglielo. Si rendeva conto da sola che i suoi pensieri erano fin troppo paranoici in quel momento. Che non c’era nulla da temere in pieno giorno in una strada così affollata.

Happy si era fermato per prendere cheeseburger e caffè, e lei ne era felice come un bambino il giorno di Natale. Quelle frivolezze le erano mancate. Quando sei abituato tutta la vita a vivere nel lusso più sfrenato e ti ritrovi di punto in bianco chiuso in una caverna certe mancanze si fanno sentire. L’aveva salvata la sua capacità di adattamento. E Yinsen.

Era scesa dalla macchina tenendo il cheeseburger con il braccio legato attorno al collo e il caffè nell’altra. Non le erano mancati i flash delle macchine fotografiche. Ci era ancora abituata. Li ignorava come meglio le riusciva. Aveva sorriso quando Obadiah che le si era avvicinato. Le aveva messo una mano sulla spalla e l’aveva guidata all’interno, dove tutto era stato preparato per la conferenza stampa.

Prima di entrare si era voltata solo un attimo, una piccola debolezza dal suo punto di vista, solo per vedere se le persone di cui si fidava erano lì. Happy era accanto alla macchina. Pepper era subito dietro di lei. Rhodes li stava seguendo. E Steve parlava con l’agente Coulson. Era sicura che avrebbero mandato lui. Mandavano sempre Coulson da lei perché era l’unico che non scacciava mai in malomodo.

Si era seduta sul podio osservando i giornalisti che stavano in piedi di fronte a lei. Aveva dato un morso al suo cheeseburger mentre Obadiah stava dicendo qualcosa, ma non lo stava ascoltando. Non le interessava ascoltarlo in quel preciso istante.

Aveva riconosciuto in prima fila il giornalista che si era portata a letto prima di partire. Non si ricordava assolutamente il suo nome e avrebbe dovuto cercare l’articolo che sicuramente aveva scritto su di lei dopo il loro breve ma intenso incontro.

“Sedetevi, coraggio. Già non sono altissima se sto in piedi, se mi siedo sembro un puffo tra di voi.” Aveva fatto un gesto con la mano, invitandoli tutti a sedere e così avevano fatto. Aveva visto anche Pepper, Rhodes e Steve, in fondo alla sala, fare lo stesso. Per qualche motivo le metteva sicurezza vederli tutti e tre. Obadiah si era inginocchiato accanto a lei e lo aveva guardato, prima di guardare nuovamente i giornalisti. “Non voglio parlare di questi ultimi mesi. Vi faccio solo sapere che non è stata una vacanza piacevole quanto speravo. Troppo caldo di giorno e troppo freddo di notte. Sabbia ovunque a perdita d’occhio. E l’ospitalità non è stata delle migliori.” Aveva notato qualche giornalista sorridere e anche questo l’aveva rassicurata in qualche modo. “E’ stata un’esperienza che mi ha fatto aprire gli occhi su molte cose. Anche sull’imprevedibilità della vita. Di questo me ne ero resa conto anni fa, quando la polizia ha chiamato a casa per dire che avevano trovato la macchina di papà contro un albero. Solo un paio d’ore prima eravamo a casa ad urlarci contro, come se avessimo tutto l’infinito davanti, e poi puff. Tutto finito. E non ho mai potuto dire addio a mio padre. A mamma sì. L’ho salutata, le ho detto che le volevo bene e lei mi ha dato un bacio. Con papà non l’ho fatto.” Si era passata una mano sul viso. Non parlava di quelle cose di solito. Erano sempre relegate nella sua testa e non permetteva a nessuno di vederle. “Quattro mesi fa ho rischiato di andarmene io senza salutare come si doveva chi mi stava attorno. E ho visto morire davanti ai miei occhi fin troppe persone. C’era questo soldato, questo ragazzo più giovane di me. Non gli ho neanche chiesto il nome, ed è morto davanti ai miei occhi. Sono cose che ti fanno riflettere.” Aveva sospirato e si era alzata. Aveva finito il cheeseburger da un po’, ma il caffè lo teneva ancora saldamente in mano. Lo avrebbe bevuto con calma una volta uscita da quella stanza. “C’erano delle domande che volevo fare a mio padre. Chiedergli se avesse mai avuto dei dubbi su quello che questa azienda stava facendo, su che direzione stava prendendo. Ho visto uccidere giovani americani da quelle stessi armi che io ho creato per difenderli e proteggerli. E ho aperto gli occhi. Ho capito che posso essere di più e dare di più a questo mondo. Ho deciso quindi che la divisione fabbricazione armi delle Stark Industries chiuderà con effetto immediato.”

Sapeva che le sue parole avrebbero scatenato un putiferio. Aveva visto tutti i giornalisti scattare in piedi. Domande che venivano urlate senza alcun ordine e nessuno continuava ad ascoltare lei che continuava a parlare. Obadiah la stava spingendo dal podio, ma lei non voleva muoversi, voleva dire quello che doveva anche se nessuno la stava più ascoltando.

Allontanandosi aveva solo sentito la voce di Obadiah che prendeva parola. Che diceva che la cosa più importante fosse il suo ritorno a casa sana e salva. Ma sapeva benissimo che in fondo volesse solo scuoiarla viva per quello che aveva appena fatto.

Rhodes aveva cercato di fermarla quando gli era passata accanto. Lo stesso voleva fare Coulson che se ne stava accanto a Steve. Questi la guardava, ma non aveva fatto nessuna mossa nella sua direzione. E sentiva Pepper urlare il suo nome. Ma non si era fermata. Aveva proseguito fino alla macchina. Happy aveva allontanato ogni giornalista che l’aveva seguita e lei era salita nel veicolo.

Happy era salito in macchina subito dopo e lei gli aveva solo detto di portarla al reattore arc. Doveva vederlo. E forse era l’unico luogo dove nessuno l’avrebbe cercata almeno per un po’.

Da bambina aveva passato ore davanti a quell’enorme reattore. Riusciva ad alimentare tutte le fabbriche dell’impianto di Los Angeles. Suo padre era stato un genio quando lo aveva costruito. La società non lo sfruttava affatto, ma quel reattore aveva sempre avuto molto potenziale ai suoi occhi.

“Che dire? Davvero un ottimo intervento, Tasha.”

Aveva alzato lo sguardo su Obadiah Stane che la guardava con rimprovero. Aveva ricambiato lo sguardo.

“Mi sono disegnata un bersaglio dietro la testa?”

“La tua? E che dire della mia? Il consiglio d’amministrazione non accetterà mai questa tua presa di posizione. E pensa alla perdita in borsa che ci sarà domani.”

“40 punti per essere ottimisti. E non c’è il loro nome sull’edificio. O sulle bombe. Io sono Stark e io decido cosa farà la mia società.”

“Tasha, noi produciamo armi. Siamo armaioli.”

“Questo non sarà il nostro unico retaggio. Possiamo fare di meglio per migliorare e proteggere questo mondo. Tu non hai visto cosa fanno le nostre armi.”

“Sono armi, Tasha! Cosa vuoi che facciano? Non produciamo giocattoli. Fabbrichiamo armi.”

“Possiamo fare di meglio! Possiamo sfruttare quello e fare qualcosa di buono!” Aveva indicato con una mano il reattore arc. Potevano usarlo per qualsiasi cosa.

“Il reattore è solo una trovata pubblicitaria per far star zitti gli hippy. Non abbiamo fatto alcun progresso da prima che tu nascessi. Non è remunerativo. Non serve a nulla se non a far star zitta l’opinione pubblica per quanto riguarda l’inquinamento!” Obadiah aveva alzato la voce e lei si era voltata verso di lui. “Sei solo una ragazzina, Tasha! Pensi davvero che il consiglio d’amministrazione ti permetterà di fare quello che vuoi?”

“Il reattore funziona!” Aveva alzato la voce a sua volta e in quell’istante aveva notato gli occhi di Obadiah abbassarsi sul suo petto, giusto all’altezza del punto dove c’era il reattore arc miniaturizzato. “Chi te l’ha detto? Pepper? Rhodey? Steve?” Sapeva che non era stato Steve. Steve evitava Obadiah come la peste e il sentimento era reciproco.

“Fammelo vedere.” L’uomo non aveva atteso oltre, muovendo le mani verso la sua camicia. Gli aveva schiaffeggiato le mani senza pensarci due volte.

“Vada per Rhodey.” Aveva sbottonato solo un po’ la camicia, facendo vedere così il cerchio luminoso sul suo petto. “Funziona. E io voglio puntare su questo.”

Il sorriso sulle labbra di Obadiah non le era piaciuto per nulla. Era certa che la scoperta del reattore arc miniaturizzato avesse fatto mettere in moto gli ingranaggi del suo cervello da imprenditore. E non le piaceva il modo in cui le si era avvicinato, passando un braccio attorno alle sue spalle.

“Tasha, possiamo ancora essere una squadra. Lasciami parlare con i membri del consiglio d’amministrazione sul futuro che dovrà prendere la società.” Il viso di Obadiah era troppo vicino al suo e le dava fastidio, ma aveva imparato nel corso degli anni anche a far finta di nulla riguardo a questa invasione del suo spazio personale. “Tu basta solo che ti tieni lontana dai riflettori per un po’. Mi occuperò di tutto io.”

 

✭✮✭

 

“Signorina Stark, bentornata a casa.”

Aveva sorriso non appena aveva messo piede in casa e la voce di J.A.R.V.I.S. l’aveva accolta. Per un istante aveva quasi potuto vedere il Jarvis in carne ed ossa arrivare all’ingresso. Poteva immaginare il suo sguardo di rimprovero ma pieno di preoccupazione. E anche questo le stava dando un po’ di conforto.

“J, mi sei mancato.”

“Anche lei, signorina. Dum-E non è stato molto facile da trattare in sua assenza. L’officina è tuttavia in perfetto ordine. U si è occupato di tutto.”

“I miei bambini.” Si era spostata dall’ingresso, osservando la casa. Le era mancata anche quella. Le erano mancate le linee curve delle pareti. Ci pensava ancora ogni tanto che ai suoi genitori sarebbe venuto un mezzo infarto sul poco gusto che aveva avuto nel costruire quella casa. Ma sembrava quasi un disco volante. E si era ispirata a questo. Un po’ anche all’Enterprise.

Qualcuno aveva chiuso la porta, ma anche senza girarsi sapeva che era stato Happy. Pepper parlava al telefono con qualcuno. E quando si era voltata Steve se ne stava immobile con il suo borsone in mano. Era salito in macchina con loro e non aveva accettato un no come risposta. Lo aveva anche sentito alzare la voce con Coulson. Era sicura che Fury sapesse qualcosa che gli altri ignoravano, per quello voleva sapere come fosse scappata. E ora la sua decisione di non costruire più armi. Rhodes se n’era andato senza salutarla mentre parlava al telefono con qualcuno. Non lo aveva messo in una posizione semplice. Lui era l’intermediario tra l’Esercito e le Stark Industries. Lui era l’uomo dello sviluppo armamenti che lavorava con lei. Con il quale era anche recentemente andata ad una di queste fiere di armaioli, legali o meno che fossero.

“Steve, il borsone lo puoi anche lasciare lì. Sono tutti vestiti che devono essere lavati.” Lo aveva guardato ancora. Steve la guardava e sul suo viso poteva leggere fin troppe emozioni. Steve era sempre così. “Vieni qui. Vieni a vedere il panorama che offre questo gioiellino.” Si era avvicinata alla grande vetrata del soggiorno. Finestre che arrivavano dal soffitto al pavimento e che davano un’ampia visione dell’oceano.

“Sembra di volare.” Steve era accanto a lei in un attimo e lei non aveva potuto fare altro che sorridere. Era vero. C’erano solo cielo e mare a perdita d’occhio.

“Puoi dirlo. Sai che mi tratto sempre molto bene.”

“Però da fuori sembra molto ispirata a Star Trek.”

Natasha aveva riso con gusto non aspettandosi quell’uscita. Pochi avevano capito il perché della forma della sua casa. Rhodes. Qualche ammiratore che era stato piuttosto attento. E ora Steve. E quella era tutta la sua pessima influenza, che gli aveva fatto passare fin troppe ore a guardare tutte le stagioni disponibili del telefilm.

“Tu potresti essere il Capitano Kirk.”

“Tu allora saresti Spock?”

Aveva sorriso ma non riusciva a rispondergli. Una volta gli aveva raccontato dei vari aspetti del fandom. E di come Kirk e Spock fossero una coppia molto quotata. Steve aveva fatto un’espressione stupita. Era rimasto un attimo in silenzio, ma poi aveva concordato che ogni tanto i due fossero un po’ ambigui.

Erano passati cinque anni, e loro parlavano di Star Trek come se lo avessero visto solo il giorno prima.

“Hai visto il film uscito qualche anno fa?” Era ridicola. Si sentiva più stupida del solito quando era in sua presenza. Non si parlavano da troppo tempo, e di cose da dire ce ne sarebbero state fin troppe. E lei gli chiedeva se avesse visto uno stupido film.

“Sì, sono andato al cinema a vederlo.” Steve aveva guardato il mare. Era rimasto in silenzio per qualche attimo. “Ma non era la stessa cosa senza qualcuno che cerca di spiegarti perché certe parti dell’astronave non possono funzionare.”

“Se vuoi te lo posso spiegare stasera davanti ad una bella pizza. Una di quelle superschifose e superfarcite che farebbero morire sul colpo un italiano.”

“Stasera tu riposi. Vai a fare un bel bagno e a metterti qualcosa di comodo.” Lo aveva osservato mentre alzava la mano e poi si bloccava a mezz’aria. Non sapeva neppure lui come comportarsi e questo la rincuorava. “Ti preparo qualcosa da mangiare nel frattempo, va bene?”

“Steve, non serve. Ci sono già Pepper e Happy qui. Non serve che ti sforzi a rimanere qui.”

“Non mi sto sforzando.” Aveva sospirato e si era passato una mano tra i capelli. Natasha lo aveva osservato mordersi un labbro e guardare nuovamente fuori. “Sono qui perché voglio essere qui, ok? Mi hai fatto davvero morire di paura. Credevo di aver perso anche te e non potevo accettarlo. Ma sei qui, accanto a me, e voglio solo poterti aiutare in qualche modo.”

“Farò un bel bagno e mangerò quello che preparerai, ma davvero Steve, non c’è bisogno che tu ti senta in dovere di fare qualcosa.” Si era appoggiata contro il vetro e lo aveva guardato. Non pensava avrebbe mai visto Steve in quella casa, ancora meno vederlo così preoccupato per lei. Era bello come sempre. A volte si stupiva come riuscisse a trovare Steve bellissimo in ogni occasione. Anche ora, mentre fissava l’orizzonte con le sopracciglia corrugate e lei poteva chiaramente capire che voleva dirle qualcosa ma non sapeva come. Lei si trovava nella stessa situazione. Lei se n’era andata senza una spiegazione. Lei non si era più fatta trovare quando lui aveva provato a cercarla. Era colpa sua, eppure Steve era lì per lei.

“Non è questo, Tasha. Ti ho lasciata andare, mi andava bene. Se era quello di cui avevi bisogno, mi andava bene. Sapevo sempre dov’eri e bastava mandarti anche un solo messaggio per sapere se stavi bene. Ma questa volta non è stato così. Non eri a New York, o a Parigi o a Tokyo. Ho provato a chiamare il tuo numero tantissime volte. Ho mandato messaggi che non hai mai ricevuto ed è stato snervante. Eri da qualche parte sotto il nostro naso e nessuno ti ha potuta aiutare.”

“Hai proprio questa indole da principe azzurro nella sua bella e scintillante armatura che deve salvare la donzella in pericolo in sella al suo bel cavallo bianco.” Aveva sorriso e aveva allungato un braccio spezzando lei quel confine invisibile che esisteva tra di loro. Aveva appoggiato la mano sul suo braccio e Steve l’aveva guardata. “Steve, io mi salvo da sola quando è necessario, ma grazie. Non serviva che ti prendessi tutto questo disturbo e ti mettessi nei guai con Fury. Ti ho sentito urlare con Coulson.”

“Questo perché è sparito il tuo referto medico e Fury lo vuole.” Steve aveva inarcato un sopracciglio e lei aveva solo sorriso di più, piegando le labbra in un ghigno soddisfatto.

“Non ho idea di cosa tu stia parlando, Steven. Mi stai accusando di averlo rubato io?” Aveva portato una mano al proprio petto e le faceva ancora impressione sentire la forma circolare del reattore sotto i vestiti.

Lo aveva preso lei. Quando Rhodes le aveva portato il cambio di vestiti aveva mandato tutti fuori per potersi cambiare e aveva accidentalmente fatto cadere la propria cartella clinica nel borsone. Non voleva che altre persone sapessero tutto quello che ci era scritto. Lo sapevano già il medico e l’infermiera che l’avevano visitata e medicata. Lo sapeva Rhodes. E probabilmente Fury sapeva molto. Fury sapeva sempre tutto. E lei non voleva assolutamente che altri ne venissero in possesso.

“So che ce l’hai tu. Posso essere ingenuo, ma non sono stupido.” Le aveva sorriso e le aveva accarezzato una guancia. Aveva sfiorato la pelle subito sotto al taglio che aveva sullo zigomo. Le sembrava che la sua pelle stesse andando a fuoco. “Non ti chiederò di consegnarlo né a me né a Fury. Anche se prima o poi dovrai parlare con Coulson, lo sai no?”

Aveva mugugnato tutta la propria frustrazione.

“Devo proprio? Sono tornata a casa. Ho costruito RoboCop e tanti saluti. Non c’è altro da dire. E ora andrò a farmi un bel bagno, poi scenderò giù in officina perché questo ha bisogno di un upgrade.” Aveva battuto il dito contro il reattore. Lo stava facendo sempre più spesso e sembrava essere quasi diventato un tic a cui non poteva rinunciare. “E sì, non guardarmi così, mangerò tutto quello che vorrai preparare, basta che ci sia del caffè. Ma poi ritorna al tuo lavoro, ok? Io sto bene e tu devi riprendere la tua vita. Hai già sprecato quattro mesi in quel deserto per colpa mia.”

“Non lo definirei sprecare, anche perché nessuno mi ha costretto a farlo. Rhodes ha chiamato Fury nella speranza che almeno lo S.H.I.E.L.D. avesse i mezzi per trovarti e Fury mi ha detto cosa era successo.”

“Sei stato manipolato da quell’uomo quindi.”

“No. Sarei venuto a cercarti in ogni caso. Lui mi ha solo informato, e io ho deciso di raggiungere Rhodes.”

Aveva abbassato lo sguardo perché non poteva in alcun modo resistere al suo sguardo. Steve era così onesto con lei. Lo era quasi sempre. E lei non aveva fatto altro che ferirlo. Se n’era andata senza una parola e quando lui si era presentato a Malibu per chiedere spiegazioni, lei lo aveva fatto allontanare. Si era comportata da stronza e Steve era ancora lì. Sembrava non portarle alcun rancore. Steve aveva trascorso mesi interi a cercarla in un deserto, senza avere la certezza che mai l’avrebbero ritrovata. Sia lui che Rhodes avevano mosso mari e monti, ne era sicura, per poter continuare le ricerche. Poteva essere famosa ed importante quanto voleva, nessuno sano di mente avrebbe continuato in quella disperata ricerca. Era una spesa inutile. Sia in uomini impegnati sul campo che di soldi. Poteva tranquillamente essere morta nell’attacco. Poteva essere morta durante la prigionia. Per quasi quattro mesi nessuno aveva avuto alcuna notizia di lei.

“Grazie. Grazie, Steve.”

“Prego.” Steve le aveva sorriso ed era un sorriso così dolce che le aveva stretto il cuore nel petto. Non lo meritava in alcun modo, ma quell’uomo era sempre presente nella sua vita.

 
   
 
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