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Autore: calock_morgenloki    28/07/2017    9 recensioni
Pur di conseguire il suo obbiettivo di diventare consulente investigativo, Sherlock Holmes, studente al terzo anno della facoltà di chimica, si ritrova a fare il lavoro più ingrato e imbarazzante sulla faccia della Terra, per di più in un posto che praticamente incarna l'Inferno: il barista da Starbucks.
Sherlock odia tutto di quel posto- chiunque abbia coniato il termine "Frappuccino" applicandolo ad una sottospecie di disgustoso frullato merita la galera a vita, a sua detta- e soprattutto detesta i clienti che lo obbligano a preparare quegli intrugli.
Anche se... Okay, diciamolo pure: per John Watson, quinto anno a medicina, si sente quasi in grado di fare un'eccezione.
{Johnlock; Uni!lock AU}
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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4.
 


Sherlock non amava particolarmente tornare a casa. Più che altro era perché la sua famiglia l'avrebbe riempito di domande, specialmente sua madre, cose del tipo Mangi? Studi? Esci? Il fidanzato? e non era affatto una prospettiva allettante. E poi ci sarebbero stati i suoi fratelli, Mycroft con la sua sgradevole tendenza allo stalking- lui amava chiamarla "protezione", ma farlo spiare e mettergli il cellulare sotto controllo, come aveva già fatto in passato, era penalmente perseguibile a quanto Sherlock sapeva- ed Eurus che iniziava ad esaminarlo come se fosse una rana da vivisezionare. L'unico che era propenso a lasciarlo in pace era suo padre, che al suo arrivo si limitava ad un neutro "Come stai, figliolo?", per poi lasciarlo cuocere nel suo brodo: probabilmente il buon vecchio Siger Holmes sapeva che in famiglia c'era già abbastanza gente che l'avrebbe tartassato per tutta la durata delle vacanze e non reputava certo necessario aggiungerne un'altra. Sherlock gliene era immensamente grato.

L'autista gentilmente mandato da Mycroft accostò su richiesta di Sherlock davanti alla cancellata d'ingresso di Musgrave Hall, la tenuta nel Sussex della famiglia Holmes: l'auto nera ripartì avanzando per il vialetto in silenzio, mentre Sherlock, con le mani affondate nelle tasche del cappotto e una sigaretta tra le labbra, proseguì a piedi. Nevicava, come sempre in quel periodo dell'anno, e i giardini un po' inselvatichiti dall'edera si erano già parzialmente coperti di bianco. Sherlock aveva perso il conto di tutti gli infiniti pomeriggi che aveva passato giocando tra gli arbusti, di norma fingendosi un pirata. Ogni tanto giocava anche Eurus con lui, ma... Beh, lei non era mai stata granché come corsaro. E Barbarosa non era un nome credibile.

Sbuffò pigramente una boccata di fumo nell'aria, ricevendo in cambio un fiocco di neve dritto sul naso: sua madre detestava il fumo, quindi lui e Mycroft erano costretti a rintanarsi da qualche parte e fumare di nascosto; quella era la sua ultima sigaretta libera e Dio, aveva intenzione di godersela fino all'ultimo soffio. Il tragitto che portava dai cancelli fino all'ingresso della tenuta era percorribile in circa un quarto d'ora a piedi, dieci minuti prendendo le scorciatoie e i sentieri secondari, ma Sherlock aveva bisogno di riflettere e optò per il percorso integrale.

Erano passate meno di ventiquattr'ore da quel bacio con John e lui, ovviamente, non riusciva a pensare ad altro. La sua mente non faceva altro che focalizzarsi su quegli attimi, su quella manciata di istanti in cui tutto sembrava perfetto. Sentiva ancora le labbra di John sulle sue, il calore del suo corpo stretto al suo, le sue mani sul viso... Era ancora tutto così vivido, come se John fosse ancora lì con lui. Sherlock non aveva mai provato niente del genere e ancora non riusciva a metabolizzare completamente l'accaduto.


Arrivò nel giardino davanti a casa poco dopo e, come sempre, si fermò a osservare le lapidi in pietra conficcate nel terreno mentre finiva la sua sigaretta. Non erano tombe vere-Sherlock l'aveva scoperto circa a cinque anni, dopo mesi passati a pianificare come dissotterrare i cadaveri, quando per la prima volta si era fermato a riflettere sulle date incise nella pietra- ma solo un elemento decorativo, seppur un po' macabro. Nessuno se n'era mai lamentato, in ogni caso.

Rimase fermo ad osservare la lapide di Nemo Holmes, nato nel 1617 e morto nel 1822 alla veneranda età di 32 anni. Rispetto a quando era bambino la lapide, già all'epoca massivamente decorata da fioriture di muschio verde e licheni grigiastri, sembrava quasi foderata da uno spesso strato di quegli organismi, rendendo a malapena visibili i caratteri incisi. Sherlock non ne aveva bisogno, ad essere onesti, da bambino aveva passato intere estati giocando tra quei piccoli monumenti alla memoria di nessuno e ormai conosceva a memoria tutte le scritte che vi erano riportate. Quel giorno, ad esempio, il nome di Nemo era nascosto, oltre che dal muschio, da un soffice manto di candida neve, ma lui conosceva con precisione millimetrica l'esatta ubicazione di ogni singola lettera e numero. Sbuffò l'ultima boccata di fumo e si liberò del mozzicone, appena in tempo prima che la porta di casa si aprisse e Violet Holmes uscisse sul patio.

"William!" lo chiamò, agitando una mano in aria. Sherlock prese un respiro profondo, cercando di farsi coraggio; poi assunse il suo miglior sorriso di circostanza e raggiunse la madre all'ingresso.

"Ciao, mamma." la salutò, mentre lei lo abbracciava praticamente stritolandolo.

"Billy, tesoro, finalmente sei arrivato! Quando abbiamo visto arrivare solo la macchina, senza di te, ho iniziato a preoccuparmi, ma avrei dovuto immagine che avresti preferito fare la tua solita passeggiata tra le lapidi. Ma adesso entriamo, coraggio, si gela qui fuori." disse lei, dandogli un paio di colpetti sulla spalla per farlo muovere.

Violet Holmes era la colonna portante della famiglia: madre amorevole e attenta, moglie devota e fedele, una padrona di casa eccellente. Prima di sposarsi e avere figli, era una matematica di incredibile talento, una mente geniale senza pari. Sherlock aveva sempre avuto la certezza che lui e i suoi fratelli avessero ereditato il loro cervello e le capacità deduttive dal ramo materno: suo padre aveva tanti pregi, ma certamente l'acume dei fratelli Holmes non era farina del suo sacco. Violet stava attraversando il suo quinto decennio di vita e i suoi capelli, un tempo di un fulgido biondo rossiccio, erano già venati da ciocche bianche e ingrigite, ma gli occhi erano rimasti esattamente quelli di un tempo: Sherlock aveva ereditato da lei quello sguardo acuto e penetrante, reso ancora più intenso da quel particolare colore che virava dall'azzurro ghiaccio al verde, passando per il grigio. Era più bassa di Sherlock, gli arrivava circa alle spalle, e nel corso degli anni il suo fisico, un tempo esile e longilineo, si era irrobustito, risultando comunque gradevole e ben proporzionato. Vestiva sempre con la consueta eleganza tipica degli Holmes, con il suo immancabile filo di perle sempre attorno al collo e gli orecchini abbinati ai lobi.

"Come stai, caro?" gli chiese e Sherlock si strinse nelle spalle mentre riponeva sull'appendiabiti nell'ingresso sciarpa, guanti e cappotto.

"Al solito."


"Mangi abbastanza? Ti vedo dimagrito."

Sherlock roteò gli occhi: ecco che comincia l'interrogatorio, pensò.

"Sì, mamma, mangio quanto basta."

"Vale a dire nulla: ti conosco, William, non cercare di-"

"Sherlock, mamma, non William: Sherlock."

Violet sospirò e si corresse, lanciando un'occhiataccia al figlio:

"D'accordo, Sherlock. E comunque dovresti mangiare di più, tesoro, sei magro come un chiodo. Scambia la tua dieta con quella di tuo fratello, sono certa che farebbe bene a entrambi."

Sherlock sogghignò alla frecciatina, poi seguì sua madre in salotto. Come aveva già previsto, Mycroft era seduto sul divano con il computer sulle ginocchia, Eurus era accanto a lui, palesemente annoiata mentre scorreva la timeline del suo account Twitter e Siger era sprofondato nella sua poltrona con il naso affondato tra le pagine di un romanzo di Stephen King.

"Ragazzi, è arrivato vostro fratello. Siger, metti via quel libro e saluta tuo figlio." esordì Violet, facendo alzare lo sguardo dei tre Holmes su lei e il nuovo arrivato. Sherlock sospirò, così come il resto della famiglia, ma riuscì comunque a ritagliarsi qualche istante per osservare i suoi parenti.

Suo padre aveva la straordinaria capacità di restare immutato nel tempo: gli unici cambiamenti erano stati l'arrivo delle rughe e il passaggio del colore dei capelli da castano scuro, quasi nero, a grigio. Vestiva sempre allo stesso modo, con i suoi maglioni, i cardigan e le camicie, per non parlare dei pantaloni di velluto a coste e l'immancabile papillon. Aveva sempre la sua caratteristica aria placida e serena, calma, in netto contrasto con la perenne iperattività della moglie. Sherlock li aveva sempre trovati una strana coppia, ma ben assortita.

Mycroft, osservò con una punta di ironia, sembrava dilatarsi insieme al tempo: i capelli di quello strano castano rossiccio molto scuro erano sempre ben pettinati e i vestiti eleganti e impeccabili, come si addiceva a un funzionario del governo, ma la stazza... Sherlock valutò di regalargli l'abbonamento a una qualche palestra, la prossima volta.

E poi c'era Eurus, la piccola di casa: mentre Siger, Sherlock e Mycroft avevano all'incirca la stessa statura, lei sembrava aver ereditato la sua da Violet, insieme al colore degli occhi che condivideva anche con Sherlock. Normalmente vestiva di colori chiari, come il bianco o il color panna, anche se Sherlock non aveva mai capito perché; i lunghi capelli scuri in quel momento erano raccolti in una crocchia morbida sulla nuca, ma molto spesso Eurus li lasciava semplicemente sciolti sulle spalle. A detta di tutti- anche se Sherlock non aveva mai ben capito il perché- Eurus era la più intelligente della famiglia: oltre ad avere le capacità analitiche e deduttive tipiche dei ragazzi Holmes, la ragazza riusciva in tutto, non c'era un singolo ambito in cui fallisse,
fatto che aveva sempre irritato e allo stesso tempo affascinato Sherlock. Forse aveva problemi solo sul piano relazionale, perché se Sherlock faceva fatica ad integrarsi e considerava un idiota chiunque lo circondasse, per lei le altre persone erano paragonabili a insetti, al massimo strani organismi da studiare e analizzare. Niente di più.

"Ben arrivato, fratellino. Ti stavamo aspettando." esordì Mycroft, alzandosi dal divano con un movimento lento e legato. Sherlock sogghignò.

"È un piacere rivederti, Fatcroft. Ti trovo bene, particolarmente florido... Come va la dieta?" chiese candidamente. Mycroft fece una smorfia mascherata da sorriso di circostanza.

"
Bene. Sei sempre così gentile e premuroso, fratellino."

"È una dote di famiglia."

"Su, su, ragazzi, adesso smettetela. Eurus, cara, saluta tuo fratello."

"Ciao, fratello." mormorò Eurus, alzando a malapena lo sguardo dal suo smartphone. Sherlock rispose con un cenno del capo, andando a lasciarsi cadere sul posto appena liberato da Mycroft sul divano. Lanciò un'occhiata allo schermo del cellulare della sorella e commentò:

"Mi chiedo come tu faccia a stare così tanto tempo su Twitter senza rimbecillirti."

"Tu sei un imbecille anche senza, direi che il problema davvero non si pone." osservò la sorella e Sherlock inarcò un sopracciglio. Mycroft sogghignò, mentre Violet andava a dare un colpetto sul braccio al marito, che aveva preso a canticchiare tra sé leggendo il suo libro. Siger smise all'istante, scambiandosi subito dopo uno sguardo affettuoso con la moglie. Sherlock sospirò.

"Vedo che non è cambiato nulla."


"E come potrebbe? Questa sarà solo un'altra tipica giornata in casa Holmes... Ben tornato, Sherlock." disse Mycroft e Sherlock, con una smorfia, si lasciò cadere all'indietro, testa sul cuscino e braccia incrociate sul petto. Sarebbero state le vacanze più lunghe della sua vita.





Erano le dieci e mezza del suo terzo giorno a Musgrave Hall e Sherlock iniziava già ad annoiarsi a morte: era la Vigilia di Natale e lui, steso sul divano del salotto con l'Enrico V in grembo, stava sfogliando svogliatamente le pagine mentre in sottofondo Violet intimava a Siger di smettere di barare e farle vedere le carte.

"Ti ho visto, Siger, non fare finta di aver sempre avuto quella carta!"

"Era il mio asso nella manica, cara."

"Beh, lo era letteralmente! Mycroft, per l'amor del cielo, digli qualcosa!"

Mycroft, seduto al tavolo tra i genitori, roteò gli occhi e si passò una mano sul volto con un sospiro stanco. Sherlock sogghignò mentre i genitori riprendevano a bisticciare con rinnovato vigore e Mycroft si accingeva a fare da paciere per l'ennesima volta.

"Ti annoi, fratello?" chiese una voce femminile alle sue spalle e pochi istanti dopo Sherlock vide Eurus raggiungerlo e accomodarsi accanto a lui, costringendolo a piegare le gambe per farle spazio.

"Secondo te?" mormorò con un sospiro, "È tutto così monotono qui, ogni anno è sempre la stessa storia."

"Alle persone piacciono le tradizioni, la monotonia: le rassicura avere l'illusione che tutto possa restare per sempre lo stesso, senza cambiare mai."

"È una cosa stupida."


"Ho detto che alle persone piace," commentò Eurus, "non che sia intelligente."

Sherlock sbuffò, fissando lo sguardo sul soffitto. Si chiese dove fosse John in quel momento, cosa stesse facendo: probabilmente si stava godendo la Vigilia con la sua famiglia, come chiunque faceva a Natale. Chiunque tranne i fratelli Holmes, ovvio, ma al momento a Sherlock non interessava soffermarsi ad analizzare le differenze tra la sua famiglia e il resto del mondo. In realtà voleva solo pensare a John, parlare a John, stare con John... Voleva John.


Si erano sentiti poco prima di cena via Skype e per quella mezz'ora o giù di lì a Sherlock era sembrato quasi di averlo sul serio accanto a sé. Poi avevano dovuto chiudere la chiamata e puff!, tutto si era dissolto nell'aria, lasciando Sherlock ancora una volta solo perso nei pensieri e nei ricordi. Specialmente nel bacio, sì: quello ormai era diventato un evergreen per il suo cervello. La morbidezza delle sue labbra, il contatto con la pelle screpolata, il calore del corpo di lui contro il suo, il sapore della frittella alla mela ancora sulla sua bocca, la-

"A cosa stai pensando?" chiese Eurus, riportandolo alla noiosa e irritante realtà. Sherlock sbatté per qualche istante le palpebre, disorientato. Poi, contraendo il viso in una smorfia, si lasciò cadere il libro aperto sulla faccia.

"A niente." mugugnò da sotto le pagine. Eurus schioccò la lingua e Sherlock, pur avendo il volto coperto, poté quasi vedere la smorfia assunta dalla sorella.

"Non è vero."


"Sì, invece."

"No, non lo è: io riesco a leggerti, lo sai."

"E sentiamo, cosa stai leggendo adesso?"

"Stai pensando a qualcosa. Anzi, no..." mormorò Eurus, "Stai pensando a qualcuno."

Sherlock abbassò il libro di quel poco che bastava per far entrare la sorella nel suo campo visivo. Strinse le palpebre, poi chiese:

"Come lo sai?"

"Non lo sapevo," ammise Eurus con un ghigno, "ma grazie per aver confermato la mia ipotesi."

"Sei insopportabile." borbottò Sherlock, tirandosi a sedere. Eurus inclinò la testa e chiese, incuriosita:

"Lui chi è?"

"Chi?"

"Il ragazzo a cui pensavi."

"Chi ti dice che fosse un ragazzo?"

"Se fosse stata una donna non avresti avuto quell'espressione ebete."

"Touché. E comunque non sono affari tuoi." mormorò Sherlock, alzandosi in piedi e iniziando ad incamminarsi alla svelta verso la sua stanza. Eurus però non sembrava intenzionata a lasciar cadere la questione e lo seguì all'istante, continuando a stargli attaccata come una sanguisuga.

"Me lo dici o no?"

"Dirti cosa?"

"Non fare l'idiota, dimmi chi è lui!"

"Te l'ho già detto, Eurus, non sono affari tuoi!"

"Non è quel tuo amico che sta in stanza con te, vero?"

"Victor?" Sherlock aggrottò la fronte, fermandosi all'imbocco delle scale per il piano di sopra, "Perché lo chiedi?"

Eurus si strinse nelle spalle, lanciando uno sguardo distratto al resto della famiglia, ancora riunita in salotto a discutere sulle carte.

"Perché non mi piace: quando era qui l'estate scorsa ve ne stavate sempre per conto vostro, non potevo mai stare con te."

"Premesso che non è a te che i miei amici devono piacere, lascia perdere Victor."

"Quindi non è lui. Lavora con te?" chiese Eurus mentre Sherlock sbuffava e iniziava a salire le scale.

"No."

"Mmh. Non è uno del tuo corso, di solito dici sempre che sono tutti idioti."

"Eurus, piantala."

"Secondo me studia medicina: da quando hai sviluppato quella sorta di kink per militari e uomini in divisa, hai sempre avuto un debole per i ragazzi con la sindrome del supereroe, quelli che vogliono salvare la gente e il mondo dal male e blah blah blah..." disse Eurus, roteando gli occhi con una smorfia nauseata. Quando il fratello si fermò di botto davanti alla porta della sua stanza, gelato, sorrise soddisfatta.

"Oh, ho indovinato, vero? Studia medicina." gongolò e Sherlock le rivolse un'occhiataccia.

"Vuoi lasciarmi in pace, per favore?" sibilò, cercando poi di chiudersi in camera lasciando Eurus fuori. La ragazza però aveva tutt'altro in mente e bloccò la porta con un piede, seguendo poi il fratello in camera. Sherlock fece una smorfia e ringhiò, spazientito:


"Non mi lascerai in pace finché non ti darò le risposte che vuoi, non è vero?"

Eurus si strinse nelle spalle.


"Mi annoio." disse e Sherlock emise un gemito esasperato.

"E va bene, allora fai come ti pare, come sempre!" sbottò, allontanandosi dalla sorella. Lo sguardo di Eurus assunse un'aria compiaciuta di sé.

"Come si chiama?" domandò poi, sedendosi sul letto di Sherlock a gambe incrociate. Lui nel frattempo si avvicinò alla finestra e, aperto il vetro, si accinse ad accendersi una sigaretta seduto sul davanzale. Quando ebbe tirato la prima boccata di fumo, liberata poi nell'aria popolata da fiocchi di neve, rispose:

"John."

"È il ragazzo con cui stavi parlando prima di cena su Skype."

"... Sì. Come lo sai?" chiese Sherlock, sospettoso ed Eurus si strinse nelle spalle.

"Non sono una stupida, a differenza di tutti gli altri. Tu gli piaci?"

"Ha importanza?"


"Sì, dal momento che tu sei cotto di lui."

"Io non... I-io non sono cotto di lui!" squittì Sherlock e la sorella sogghignò.

"Ovviamente. State insieme?"

"No."

"Ma tu lo vorresti."

"Eurus, dove vuoi andare a parare?" chiese Sherlock, stizzito e lei commentò, cominciando ad innervosirsi:

"Voglio capire. Pensavo non ti interessasse l'amore, invece ne sei caduto vittima."

"Non mi interessa, infatti."

"Sì, invece e anche parecchio. A differenza degli altri, io noto queste cose." mormorò Eurus e Sherlock inclinò lievemente il capo, senza smettere di osservare la sorella.

"Gli altri lo sanno?" chiese soltanto, la voce flebile ed Eurus roteò gli occhi, annoiata. Si lasciò cadere con la schiena contro il materasso, poi, fissando il soffitto, rispose:


"No, ovviamente no: la mamma e Mycroft hanno intuito qualcosa, è da quando sei arrivato qui che sei strano... Papà invece non ha capito niente, come al solito."

"Tu invece hai capito tutto subito."


"Non che ci volesse molto, era palese che fossi innamorato. Ma gli altri sono tutti così lenti... Non mi sorprende che stiano ancora cercando di capire cosa non vada in te in questo periodo. Lui com'è?"

"Lui?"

"John. Ci sarà un motivo se ti sei innamorato proprio di lui... È meno idiota degli altri?" chiese Eurus e Sherlock ridacchiò.

"A volte."

"E allora perché lui? Non capisco."

Sherlock guardò la sorella minore: sembrava infastidita, come se il non comprendere le facesse rodere il fegato. Sherlock conosceva bene quella sensazione, l'aveva provata lui stesso innumerevoli volte. Era un tratto di famiglia, a quanto sembrava.

"Lui è..." mormorò Sherlock, riportando lo sguardo sul giardino innevato, "È coraggioso, altruista, forte... Mi fa ridere e in più è anche bello. Ma soprattutto lui riesce a farmi sentire come se non ci fosse nulla di sbagliato in me, riesce a... A farmi sentire a casa, come se il mio posto nel mondo fosse accanto a lui. Non ho mai provato niente del genere in tutta la mia vita."

Eurus restò in silenzio per qualche istante, immobile. Poi arricciò naso e labbra in una smorfia.

"Ti sei rammollito, fratello." disse, alzandosi in piedi, "Stai diventando un patetico sentimentale come tutti gli altri, non usi più il cervello."

"Come fai ad esserne così sicura?"


"Parli di lui come se fosse una delle sette meraviglie della Terra, pur sapendo che un giorno ti farà soffrire: questo non è certo usare il cervello, Sherlock."

"Quindi secondo te dovrei lasciarlo perdere solo perché un giorno potrebbe farmi soffrire? È ridicolo, Eurus."

"Tu sei ridicolo. Ti sei preso una sbandata per quel tizio e hai spento il cervello. Ti pensavo superiore a meri impulsi fisici."

"John è diverso. E se sei venuta qui solo per farmi la paternale, allora esci, vattene!" ringhiò Sherlock, fulminando la sorella con lo sguardo. Eurus restò apparentemente imperturbabile, ma Sherlock distinse una luce rabbiosa farsi strada nelle sue iridi chiare. La ragazza si alzò dal letto con un movimento fluido e si avviò verso l'uscita, imperterrita. Si sbatté la porta alle spalle e Sherlock non la fermò: rimase seduto sul davanzale della finestra a guardare la neve che cadeva dall'alto.

Non gli importava cosa pensasse sua sorella, non gli sarebbe importato nemmeno quello che gli avrebbe detto la sua famiglia, specialmente Mycroft: lui si fidava di John. Non aveva la certezza che sarebbe finita bene, che non avrebbe sofferto, ma non gli importava, perché lui si fidava di John. E sarebbe sempre stato così.





La sua sveglia segnava le diciotto e ventotto minuti del trenta dicembre e Sherlock, seduto alla sua scrivania, si annoiava a morte. Era seduto davanti al PC, lo sguardo fisso sullo schermo e le immagini che vi si susseguivano, ma quella sera nemmeno Netflix e Breaking Bad sembravano in grado di catturare la sua attenzione.

Chiuse il computer con uno sbuffo, inarcandosi all'indietro e passandosi le mani sul viso. Forse sarebbe dovuto sgattaiolare in camera di Mycroft, rubargli i dolci che nascondeva nell'armadio e nasconderli da qualche parte in giro per casa. Magari avrebbe potuto seppellirli in giardino: ci avrebbe messo settimane a trovarli e a quel punto... Beh. Che peccato. La noia gioca brutti scherzi, eh?, pensò con un velo di amarezza. Sherlock era quasi sicuro che, se John fosse stato lì con lui, il suo soggiorno a Musgrave Hall sarebbe stato infinitamente più gradevole, nel peggiore dei casi per lo meno sopportabile.

Lo sguardo andò a posarglisi quasi per caso sul quaderno che John gli aveva regalato, custodito con cura quasi maniacale sulla scrivania, proprio accanto al PC. Sherlock lo prese tra le mani, iniziando a osservarlo per la quattrocentesima volta nell'arco di quelle vacanze. Sfiorò la copertina con la punta delle dita, poi, come sempre, lo aprì, fissando lo sguardo su quella striscia di numeri che lo stava facendo dannare da quando aveva scartato il suo regalo. Sherlock si mise a studiarla ancora una volta, cercando di intuire uno schema, ma come succedeva praticamente ogni volta dopo qualche minuto distolse lo sguardo con uno sbuffo irritato: le aveva provate tutte, davvero, si era arrovellato per ore, giorni interi, ma niente, la soluzione di quell'enigma per lui restava ancora avvolta nel mistero. In preda alla disperazione, era addirittura arrivato a prendere in considerazione l'ipotesi di farsi aiutare da Mycroft- Eurus no, neanche per sogno: dopo quella discussione in cui aveva dovuto difendere John è ciò che sentiva per lui dalla rabbia della sorella, chiedere aiuto a lei era impensabile-, ma il suo spropositato orgoglio si era subito opposto a gran voce, dando man forte al pensiero che, in fondo, John aveva pensato quell'enigma apposta per lui, sicuro che sarebbe stato in grado di farcela e Sherlock non voleva certo deludere le sue aspettative. No, doveva farcela da solo, non poteva fare altrimenti.

Emise un sospiro esasperato e si massaggiò la radice del naso con due dita, richiudendo il quaderno con un gesto secco nel frattempo. Aveva ancora tempo, si diceva, ma il momento di tornare all'università si faceva sempre più vicino e lui non stava assolutamente facendo progressi: d'accordo che doveva farcela da solo, ma non poteva nemmeno presentarsi da John e dirgli "Sai com'è, dico di essere tanto intelligente ma non sono riuscito a risolvere il tuo enigma". Che figura ci avrebbe fatto? Forse John si sarebbe anche pentito di averlo baciato, in fondo nessuno voleva avere a che fare spontaneamente con un idiota di quelle proporzioni, quindi... No, Sherlock decise di non pensarci. Doveva risolverlo e farlo alla svelta, era l'unica soluzione.

Poi, ad un tratto, successe una cosa strana: Sherlock riportò un po' scoraggiato lo sguardo sulla tavola periodica della copertina e il suo sguardo si posò su un numero che in quei giorni gli aveva letteralmente tolto il sonno. 53. Sherlock aggrottò la fronte, confuso: era un'illusione o cosa, inizialmente non capì. Suggestione, forse, si disse, ma quando rivolse alla tabella un secondo sguardo dovette per forza ricredersi: il 53 c'era davvero, era il numero atomico dello iodio, il cui simbolo era la lettera I.

Quando lo risolverai, non fare caso alla grammatica: le parole di John gli risuonarono in testa e Sherlock fu colto dall'illuminazione. Dio, aveva avuto la soluzione a quell'enigma per tutto il tempo, come aveva potuto essere così cieco? Afferrò alla cieca una penna dalla scrivania e iniziò freneticamente a cercare sulla tavola i simboli relativi ai numeri scritti nella sequenza indicata da John: le lettere iniziarono a sommarsi formando parole e Sherlock fu quasi certo di sentire il proprio cuore tentare di sfondargli lo sterno, non ricordava di essere mai stato così agitato. Finì di scrivere in meno di due minuti e a quel punto, fissando la scritta che la sequenza di lettere aveva formato, ebbe un tuffo al cuore.

I Am IN LuV WITh YOU


Gli occhi iniziarono a pungere e a farsi pericolosamente lucidi e Sherlock, nonostante tutto, scoppiò a ridere, coprendosi la bocca con le mani. John era innamorato di lui. E glielo aveva detto con un enigma, così come aveva fatto lui stesso. John lo ricambiava, Cristo santo, lo ricambiava! Non poteva crederci, era ... incredibile. E Sherlock non si capacitava del fatto di essere stato così fortunato da conquistare l'amore di qualcuno di così fantastico e incredibile come John, non riusciva a realizzarlo. John. Devo parlare con John, subito, devo vederlo!

Riprese il PC tra le mani e si collegò su Skype veloce come non mai, eseguendo i passaggi del login in tempo record e maledicendo il server per quella lentezza eccessiva. Non appena ne fu in grado, selezionò il contatto di John e fece partire la videochiamata, pregando che l'altro rispondesse. Aveva bisogno di vederlo, di sentire la sua voce e vedere il suo sorriso, dopo quella rivelazione aspettare ancora due giorni era impensabile. Andiamo, John, rispondi, avanti!, pensò, mordendosi lievemente il labbro inferiore per il nervosismo. Era raggiungibile, lo sapeva, altrimenti la chiamata non sarebbe nemmeno partita. Ma allora perché ci metteva tanto a rispondere? Era con qualcuno? Non voleva parlargli? Le ipotesi più disparate e catastrofiche si ammassarono senza sosta nella mente di Sherlock, che iniziava ad avere l'accenno di un infarto. Quando finalmente John accettò la chiamata e un muro color crema apparve sullo schermo, Sherlock tirò un sospiro di sollievo. Quando però un John Watson con i capelli umidi e spettinati, sorridente, ma soprattutto a torso nudo fece la sua comparsa, il suo encefalogramma si ridusse ad una linea drasticamente piatta.

"Ehi, Sherlock! Scusa se ci ho messo un po' a rispondere, sono appena uscito dalla doccia."

"N-non... Non ti preoccupare. Io stavo solo... Nulla. Mi annoiavo." balbettò Sherlock e John rise.

"Chissà perché non ne sono sorpreso. I tuoi fratelli non ti fanno compagnia?"

"Per Dio, no!" mormorò Sherlock, abbandonando il suo shock in favore di un'espressione di puro schifo, "Non sono così disperato!"

"Beh, devi esserlo comunque parecchio per chiamare me." commentò John, divertito, e Sherlock si concesse l'accenno di un sorriso.

"Qualcosa del genere." concesse, cercando di racimolare il coraggio necessario per parlargli del suo regalo. John sembrò non rendersene conto e continuò a ciarlare allegramente, parlando del più e del meno per qualche minuto.


"...questo pub fichissimo, certo ogni sera musica dal vivo, birra e patatine fritte a volontà, è davvero forte. Secondo me piacerebbe anche a te."

"Ne dubito."


"Perché?"

"I pub non sono proprio il mio genere."

"Come gli alcolici e le feste, giusto?"

"Precisamente."

"Ah-ha... Senti, si è fatto un po' tardi: tra poco devo uscire e vado un po' di fretta. Ti serviva qualcosa?"

"Io... Perché lo chiedi?"

"Beh, mi hai chiamato su Skype: se non fosse stato davvero importante, mi avresti mandato solo un messaggio, no?" mormorò John, inclinando lievemente il capo. Sherlock sentiva la bocca secca, la lingua impastata e totalmente incapace di emettere alcun suono. Si schiarì la voce e prese coraggio, preparandosi a parlargli di quella cosa.

"Sì, io... In effetti una cosa ci sarebbe."


"D'accordo... Di cosa si tratta?"

"I-io... Io ho... Sai, poco fa ho... Dannazione!"

"Sherlock, mi sto preoccupando: cosa-"

"Ho risolto il tuo enigma, John!" lo interruppe Sherlock, fissando lo sguardo sul volto di John. Il ragazzo restò in silenzio per qualche istante, sorpreso. Aveva la labbra lievemente dischiuse e gli occhi un poco spalancati, come se la notizia l'avesse davvero colto alla sprovvista. Per un attimo Sherlock ebbe quasi paura che la connessione fosse saltata e che John avesse detto o fatto qualcos'altro che lui non aveva sentito. E poi, proprio quando Sherlock stava meditando di andare a cercare un defibrillatore da tenere accanto a sé- giusto per precauzione, certo-, la postura di John si rilassò e il suo volto si sciolse in un sorriso che Sherlock giudicò davvero molto dolce.

"Bene, mi... Mi fa piacere. E hai capito cosa volevo dire?"


"Sì, io... Credo di sì."

"Ottimo, perché anche io ho risolto il tuo." disse John e Sherlock ebbe un tuffo al cuore.

"L'hai risolto?"


"Sì. Ci ho messo un po': l'anagramma mi ha dato parecchio filo da torcere, ma... Penso proprio di esserci riuscito. E credo che ora anche tu sappia che anche per me vale lo stesso."

"Davvero?" sussurrò Sherlock e John annuì. Sherlock si ritrovò a ricambiare il suo sorriso senza nemmeno accorgersene.

"Non mi sembra vero." mormorò, passandosi le mani tra i capelli, e sia lui che John si misero a ridere.

"Sì, neanche a me... E non vedo l'ora di rivederti per parlare di tutto questo di persona." disse John, assumendo una smorfia imbarazzata subito dopo, "E magari anche baciarti ancora. Anche quello mi piacerebbe."

"Sì, effettivamente non sarebbe affatto male." commentò Sherlock e John tornò a sorridere. Ad un tratto si sentì il suono di una porta sbattere e John voltò la testa verso la fonte del suono, ad un tratto sull'attenti. Quando tornò a guardare Sherlock sorrideva ancora, ma sembrava aver perso l'aura di calma e serenità di pochi istanti prima.

"Senti, ora devo proprio andare. Ci sentiamo domani, okay?"


"Sì, io.... Certo. Va bene. A domani." rispose Sherlock, confuso dall'improvviso cambio d'atteggiamento di John. Okay, anche all'inizio della chiamata gli aveva detto di andare di fretta, ma solo pochi istanti prima sembrava così tranquillo, perché ora aveva tutta quella fretta di chiudere? Forse era per quella porta che aveva sbattuto e- oh. Aveva fretta perché era arrivato qualcuno. Già, ma chi?

"A domani, buona notte." disse John, adoperandosi per chiudere la comunicazione. Prima che ci riuscisse, però, successe qualcosa che Sherlock non sarebbe mai riuscito a dimenticare e che gli fece gelare il sangue nelle vene: qualcuno stava chiamando John. E quel qualcuno aveva una voce decisamente poco virile.

"Johnny, dove sei? Ho finito la doccia, tu sei pronto?" chiese quel qualcuno e Sherlock, gelato, ebbe un ulteriore tuffo al cuore quando vide John voltarsi di scatto, il cellulare ancora in mano, mentre una silhouette palesemente femminile e con un solo asciugamano addosso apparve alle sue spalle. La comunicazione si interruppe proprio in quel momento e Sherlock restò fermo immobile a fissare la schermata di Skype con aria smarrita.

Era... Dio, quella era una donna, John era con una donna! Che accidenti ci faceva una donna- seminuda oltretutto- con lui? E quel Johnny, poi, da dove l'aveva tirato fuori? Perché si era rivolta a lui in quel modo, chi era, come osava chiamare così il suo John? Sherlock se lo chiese sul serio, ma più di ogni altra cosa si chiese questo: alla luce di quello che si erano appena detti, perché John lo aveva permesso? Sherlock non era sicuro di volere la risposta a quella domanda. Forse perché avrebbe fatto troppo male.

L'eccitazione e la felicità dovute al regalo di John erano state bruscamente sostituite da un groppo in gola e un disagio mai provato: un misto di ansia e tristezza, qualcosa di veramente sgradevole. Sherlock chiuse con un gesto secco il computer e si rannicchiò sulla sedia girevole con una smorfia, appoggiando la testa allo schienale. Una parte di lui gli diceva che non era giusto da parte sua condannare John così su due piedi, doveva dargli un po' di fiducia e concedergli il beneficio del dubbio: poteva anche non essere una situazione così scontata e deplorevole, forse c'era tutt'altra spiegazione dietro... Poi però interveniva l'altra parte del suo cervello, quella che gli diceva chiaro e tondo che a quello che aveva visto e sentito c'era una spiegazione soltanto, davvero molto difficile da fraintendere.


Non aveva idea di quanto tempo restò fermo su quella sedia, rannicchiato su se stesso in preda allo sconforto. Probabilmente per parecchio, perché ad un certo punto sentì qualcuno chiamarlo per cena, probabilmente sua madre, ma non ci fece caso: era come sentire una voce lontana, un eco di dubbia importanza. In quel momento aveva ben altro a cui badare, non aveva voglia di passare un'ora a fare buon viso a cattivo gioco per non farsi psicanalizzare da tutti i presenti a tavola: era talmente giù che persino suo padre avrebbe iniziato a fare domande, perciò no grazie, sarebbe rimasto ben lontano dalla sala da pranzo.

Lo sguardo tornò a posarsi sulla scrivania, più precisamente sul quaderno: Sherlock sentì il peso che aveva sul petto farsi più ingente, insopportabile, e fu costretto a guardare altrove. La sua stanza si era improvvisamente fatta minuscola, soffocante a causa di tutte le speranze e i sogni apparentemente infranti che Sherlock aveva coltivato entro quelle quattro mura. Gli sembrava che tutto gli ricordasse di quelle sue fantasie così effimere che un tempo gli erano parse così reali, la possibilità di quel futuro con John che nel giro di pochi secondi gli si era sgretolata davanti agli occhi e che, lo sapeva, l'avrebbe tormentato in continuazione. È come una prigione... È una prigione. E io sono in gabbia, pensò, in preda all'ansia, Devo andarmene di qui.

Balzò in piedi con uno scatto e, dopo aver afferrato sigarette e accendino dal cassetto del proprio comodino, corse fuori dalla sua stanza, lasciando la porta spalancata dietro di sé. Scese a due a due i gradini delle scale che portavano al piano terra è una volta giunto lì si diresse verso l'ingresso, ignorando l'ennesimo richiamo di sua madre ad unirsi alla cena. Devo uscire, ho bisogno di uscire, era l'unica cosa che riusciva a pensare mentre si allacciava frettolosamente le scarpe e si apprestava ad afferrare il cappotto, appeso ad uno dei ganci dell'attaccapanni a muro.

"William Sherlock Scott Holmes, non te lo ripeterò un'altra volta: esci da quella stanza e vieni a cenare con la tua famiglia, subito!" sbraitò Violet Holmes, uscendo dalla sala da pranzo come una furia e sporgendosi verso le scale. Sherlock, solo a pochi metri di distanza da lei, si augurò con tutto il cuore che sua madre non lo vedesse e non venisse a fargli il terzo grado, non sarebbe davvero riuscito a sopportarlo. Quindi, onde evitare spiacevoli inconvenienti, cercò di fare tutto il più piano e lentamente possibile, in modo da non dare nell'occhio e sgattaiolare via senza essere notato. Mycroft ed Eurus raggiunsero la madre subito dopo, proprio mentre lei esclamava:

"Siger, per l'amor del cielo, va' da tuo figlio e digli qualcosa!"

"Lascia in pace il ragazzo, Violet: avrà altro per la testa in questo momento, mangerà quando ne sentirà il bisogno." rispose pacatamente il marito, raggiungendo il resto della famiglia davanti alle scale. Eurus fece una smorfia infastidita e distolse lo sguardo: Sherlock sapeva benissimo che la conversazione avuta con lui qualche giorno prima era ancora impressa a fuoco nella mente della sorella, che non accettava quasi per partito preso che lui potesse essere interessato a qualcuno. E Sherlock sapeva ancora meglio che Eurus considerava la loro discussione come un affronto personale e che lei non dimenticava mai un affronto; se non faceva niente al riguardo per un po', era solo perché era troppo impegnata a pianificare la sua vendetta, che probabilmente non sarebbe tardata ad arrivare. Proprio mentre finalmente prendeva il Belstaff tra le mani, Eurus spostò lo sguardo su di lui e i due fratelli si fissarono in silenzio per qualche istante, mentre Violet continuava a discutere prima col figlio, poi con Siger.

Ti prego, Eurus, non farlo, sembrò chiederle Sherlock con lo sguardo.


Ti prego, Sherlock, risparmiami le suppliche, sembrò rispondergli lei, mentre le labbra si piegavano lentamente in un ghigno.

"Oh, guardate," esclamò la ragazza come se avesse visto il fratello solo in quel momento, "eccolo lì!"

Istantaneamente tutti gli occhi della famiglia Holmes furono puntati su di lui e Sherlock rivolse alla sorella un "vipera" con il labiale, al quale Eurus rispose con un sorrisetto soddisfatto.

"Sherlock, si può sapere che cosa diamine stai facendo?!" esclamò Violet, dirigendosi con passo deciso - e anche vagamente furibondo, sì- verso il figlio. Sherlock, ormai consapevole di non poter più scappare, si limitò a sospirare mentre indossava una volta per tutte il cappotto.

"Sto uscendo." rispose, lapidario. Violet fece una smorfia e si mise a braccia conserte, squadrando con aria critica il suo secondogenito.

"E dove credi di andare?"


"Fuori."

"Sherlock, ti avverto, sto perdendo la pazienza: adesso togliti quel cappotto e vieni a mangiare, dopo cena potrai fare tutte le passeggiate che vorrai."

"Non ho fame." sibilò, digrignando i denti. Iniziava ad innervosirsi, si sentiva in gabbia e aveva bisogno di stare da solo, di pensare, non di tutta quella confusione, quel vociare, quel rumore: c'era già abbastanza caos nella sua testa senza bisogno di aggiungere quello provocato dalla sua famiglia. Mycroft probabilmente notò la sua aria da animale braccato, perché mise una mano sulla spalla della madre e tentò un:

"Mamma, perché non cominciamo ad andare a mangiare? Sherlock ci raggiungerà quando-"

"Non cominciare, Mycroft! Tuo fratello verrà con noi adesso, non ammetto repliche, chiaro?!"

"Violet, cara, Mycroft ha ragione, non c'è bisogno di farne una tragedia."

"Povero piccolo Sherlock, vuole starsene per conto suo..."

"Eurus, da brava, perché non vai a vedere se la zuppa è già in tavola e-"

"Non ci vado perché non sono la tua serva, fratello caro, vacci tu!"

"Eurus, non parlare così a tuo fratello, chiedigli scusa subito!"

"Ma ha iniziato Mycroft, mamma!"

"Zitta, Eurus, fai come ti dico! E Siger, per Dio, non startene lì impalato, fa' qualcosa!"

"E cosa dovrei fare? Stai già facendo tutto da sola!"

Quell'accozzaglia di voci andò sempre più in crescendo e man mano che il suo volume aumentava, Sherlock sentiva l'irritazione montare dentro di sé come l'onda di uno tzunami, fino a quando l'ultimo strillo di sua madre non andò a sommarsi a tutti gli altri, rappresentando alla perfezione l'iconica goccia che fece traboccare il vaso già ampiamente danneggiato della sua pazienza.

"Volete stare zitti, una volta tanto?! Non vi sopporto più, fatela finita!" si ritrovò a urlare, mettendo freno al casino che regnava nell'ingresso fino a pochi istanti prima. Sherlock si rese conto- anche se in modo piuttosto astratto- di avere gli occhi di tutti puntati su di sé, ma con sguardi nettamente differenti: Eurus lo fissava come se tutt'un tratto fosse impazzito, Mycroft sbalordito per quella scioccante perdita di contegno davanti ai loro genitori, mentre questi ultimi... Beh, iniziavano ad essere un po' preoccupati, anche se questo non fermò Sherlock dal proseguire con il suo sfogo.

"Ho ben altro a cui pensare che ad una stupida cena, non ho fame, voglio stare da solo, quindi smettetela di assillarmi e lasciatemi stare!"

"Sherlock, tesoro... Prendi un respiro profondo e calmati, okay? Sono certa che non-"

"No, basta, lasciatemi in pace! Mi manca l'aria qui dentro!"

Siger pensò che la situazione si stesse facendo più seria del previsto e, mentre Sherlock si apprestava ad aprire la porta e uscire, cercò di trattenerlo con una mano sul braccio.

"Sherlock, figliolo, adesso non-"


"Non toccarmi, stammi lontano!" sbottò Sherlock, voltandosi di scatto e fulminandolo con lo sguardo. Siger fece un passo indietro, costringendo anche la moglie ad arretrare. Nella stanza calò un silenzio surreale, quasi assordante, e vedendo che addirittura Eurus ora sembrava preoccupata per lui, la parte razionale di Sherlock, momentaneamente soffocata dalle emozioni, gli fece capire che probabilmente aveva esagerato a strepitare in quel modo.

"I-io non..." balbettò con un fil di voce, ma le parole faticavano a uscire, restavano incastrate nel maledetto groppo che aveva in gola e si concentravano in quelle maledette lacrime che minacciavano di uscire da un momento all'altro per la vergogna, la frustrazione, la tristezza... "Mi dispiace. Non volevo, io... Scusatemi."

A testa bassa aprì velocemente la porta e corse fuori, ignorando la voce di sua madre- sorprendentemente gli sembrò di sentire anche Mycroft- che gli diceva di tornare indietro. Ma lui non le ascoltò: continuò a correre in mezzo alla neve, senza curarsi del freddo che gli si infiltrava nelle ossa e della neve che gli bagnava i capelli, scendendo copiosa dalle nuvole blu-grigiastre nel cielo di fine dicembre. Ad un certo punto, quando fu abbastanza lontano dalla casa e completamente senza fiato, si fermò sotto ad uno degli alberi dove, da bambini, lui ed Eurus giocavano sempre: era un faggio, se non ricordava male. Eurus l'aveva inserito anche in una filastrocca piuttosto inquietante che gli ripeteva sempre quando erano piccoli, puntualmente a notte fonda o quando era certa di poter terrorizzare suo fratello. Una sorella amorevole, davvero.

Sherlock si abbandonò contro il tronco per riprendere fiato e si asciugò con un gesto stizzito della mano quelle lacrime solitarie che, maledette, erano riuscite ad eludere il suo controllo e se n'erano andate allegramente a spasso per le sue guance. Per quale razza di motivo adesso piangeva? Non c'era alcuna ragione, doveva smetterla di comportarsi come un lattante e fare l'uomo, Cristo santo, aveva quasi ventun anni: il momento in cui i pianti isterici potevano essere definiti accettabili era già passato e finito da un pezzo.

Affondò una mano nella tasca del cappotto, emettendo un gemito infastidito quando la trovò completamente vuota: le sigarette. Nella confusione di quei momenti doveva averle dimenticate in casa, forse gli erano cadute. Un soffio di aria gelida lo investì in pieno e Sherlock realizzò in quel momento di essersi scordato anche la sciarpa e i guanti. Grandioso.

Chiuse gli occhi e alzò il viso verso il cielo, inspirando a pieni polmoni l'aria gelida della sera dicembrina: era quasi dolorosa talmente era fredda e pungente e i fiocchi di neve sul viso non erano così piacevoli come poteva sembrare. In un momento di follia totale si paragonò a uno di quegli eroi romantici di cui aveva studiato al liceo sui libri di letteratura, immersi nella natura e in stato catatonico-depresso-contemplativo, con tanto di cappotto o mantello svolazzante. Se Victor fosse stato lì l'avrebbe sicuramente preso in giro iniziando a chiamarlo "Lord Byron", ma se in un'altra occasione quel pensiero l'avrebbe fatto sorridere, in quel momento non fece altro che irritarlo ulteriormente.

Si era un po' calmato, aveva riacquistato la lucidità momentaneamente perduta e ora stava cercando di razionalizzare l'accaduto: aveva esagerato, quello era poco ma sicuro; gli capitava piuttosto frequentemente di sbraitare, specialmente se era irritato, ma perdere totalmente il senno come era successo poco prima mai. Riusciva ancora a vedere le espressioni dei suoi genitori, a sentire il silenzio assordante della stanza... Dio, ma cosa gli era preso?

Riprese a camminare nella neve, stringendosi di più nel cappotto. La neve aveva iniziato a scioglierglisi addosso e i ricci scuri avevano preso a farsi via via sempre più umidi e pesanti, appiccicati alla pelle. Sherlock aveva voglia di urlare, di gridare a pieni polmoni: non si riconosceva più, il ragazzo che era diventato non era lui, era... Non sapeva chi fosse. Qualcuno che gli somigliava, ma i cui tratti erano stati storpiati dall'amore e dalle emozioni. Il cervello era diventato schiavo del cuore e Sherlock si chiese per la prima volta se ne valesse davvero la pena.

, rispose quasi subito una voce nel suo cervello, certo che ne vale la pena: stiamo parlando di John.

Sherlock si fermò di nuovo, stavolta davanti alle finte lapidi in giardino. Era John, lo stesso John che gli aveva scritto quella lettera, lo aveva baciato e non vedeva l'ora di rivederlo per dirgli in faccia che era innamorato di lui, Sherlock lo sapeva e si fidava di lui: lo amava, era ovvio che si fidasse. Ma subito dopo nella sua testa tornava a palesarsi quella silhouette, quell'ombra sconosciuta che minacciava di farli sprofondare nel buio, senza che lui sapesse come riportare la luce.

E Sherlock, stringendosi il cappotto addosso come una coperta, si sentì ancora una volta come un bambino sperduto.




Mycroft guardò Sherlock correre via in mezzo alla neve, preoccupato.

"Sherlock!" provò a chiamarlo, ma il fratello non si voltò né si fermò. Sembrava del tutto intenzionato a sparire. Mycroft pensò in fretta cosa fare e prese una decisione, probabilmente un po' affrettata, ma sul momento gli sembrò la migliore: non aveva mai visto Sherlock così sconvolto, doveva essergli per forza successo qualcosa di serio per ridurlo così. E lui non poteva semplicemente fare finta di niente, davvero non poteva: era il suo fratellino, non l'avrebbe lasciato solo per nessun motivo al mondo.

I loro genitori erano sconvolti, Mycroft lo vedeva: Sherlock era sempre stato il più emotivo tra i tre fratelli, ma non era mai arrivato a tanto. Violet era impallidita e anche Siger, sempre serafico e tranquillo, sembrava teso. Eurus invece no, notò con una certa sorpresa: lei sembrava solo amareggiata, irritata. Sa qualcosa.

"Oh, William, il mio piccolo William... Che cosa gli è successo, Siger?" sussurrò Violet, rivolgendo al marito uno sguardo addolorato. Siger scosse la testa, ricambiando lo sguardo con uno della medesima entità.

"Non lo so, cara. Non l'ho mai visto così."

"Nemmeno io, è questo che mi spaventa... Che si sia messo nei guai? Cielo, e se fosse drogato?"

"Per favore..." sibilò Eurus, ma il suo commento fu uditp solo da Mycroft. Il ragazzo le rivolse uno sguardo sospettoso, al quale la sorella rispose con uno gelidamente composto.

"Mamma, papà... Perché voi non andate a farvi una tazza di tè? Vado io fuori a cercare Sherlock, non vi preoccupate." disse, spostando l'attenzione sui genitori. Siger e Violet gli rivolsero uno sguardo preoccupato, ma anche commosso.

"Sei sicuro? Vengo con te." mormorò Siger, ma Mycroft scosse la testa, risoluto.

"No, stai con la mamma: a Sherlock ci penso io."

"D'accordo, io... Vado a fare un po' di tè, allora."

Siger sfiorò il braccio della moglie con le dita, poi si diresse in cucina. Violet guardava ancora fuori dalla porta aperta, lo sguardo perso in mezzo alla neve. Quando lo portò su Mycroft, sembrava ancora piuttosto scossa. Gli si avvicinò, appoggiandogli una mano sulla guancia.

"Riporta tuo fratello a casa, Mycroft. Riportamelo qui." sussurrò e Mycroft annuì. Violet accennò un sorriso grato, poi seguì Siger in cucina. Eurus si accinse a fare lo stesso, ma Mycroft la fermò.

"No, tu no. Dobbiamo parlare, sorellina."

"Parlare di cosa? Non ho niente da dirti."

"Ma io ho parecchio da chiederti."

Eurus roteò gli occhi, annoiata, e incrociò le braccia sotto al seno.

"Del tipo?" chiese, irritiata. Mycroft fece una smorfia, poi disse:

"Tu sai cosa sta succedendo a Sherlock."

"Ha avuto un esaurimento nervoso e ha dato i numeri. Non che ci volesse granché per capirlo, potevi arrivarci persino tu."

"Tu sai perché è successo. Tu conosci la causa."

Eurus restò in silenzio qualche istante, poi, imperturbabile, annuì.

"Sì."

"Dimmela."

"Arrivaci da solo."

"Non fare la bambina, Eurus: stiamo parlando di Sherlock e da quanto abbiamo visto nei giorni passati potrebbe anche essere..." sibilò Mycroft, lasciando cadere la frase quando si accorse di quanto sarebbe suonata ridicola agli occhi della sorella. Eurus sogghignò.

"Cosa? Innamorato?" commentò e Mycroft alzò di scatto lo sguardo su di lei.

"Non essere ridicola. Sherlock-"

"Lo è, Mycroft: si è fatto coinvolgere e ora ci sta male. Non è così sveglio come credevi." mormorò Eurus, riportando lo sguardo sul giardino innevato. Mycroft annuì, quasi in trance. Sherlock... innamorato. Dio, quella sì che era una cosa che non aveva previsto. E che oira non avrebbe più potuto controllare, perché lei stava già controllando suo fratello.

"Da quanto?" chiese ed Eurus fece spallucce.

"Non lo so. A giudicare dal suo stato, direi da parecchio, questo fantomatico John deve essere il suo pensiero fisso da chissà quanto; il problema sono stati gli sviluppi recenti."

"Quali sviluppi?"

Eurus emise un gemito esasperato e rivolse uno sguardo incredulo al fratello maggiore.

"Sono davvero l'unica in questa casa ad avere un briciolo di spirito d'osservazione? Possibile che non vi siate accordi di niente?"

"Eurus, spiegati."

"Vive attaccato al cellulare, ma sorride quando risponde ai messaggi; ogni sera si collega su Skype e ci passa minimo mezz'ora, se non di più; telefona: Sherlock non lo fa mai."

"L'ho notato anche io."

"E allora fa' due più due, fratello caro: è innamorato. E ora gli hanno spezzato il cuore. Dio, è davvero un idiota..."

"Non è colpa sua." mormorò Mycroft ed Eurus gli rivolse uno sguardo sprezzante.

"Non potrai proteggerlo per sempre, Mycroft, men che meno tirarlo fuori dai guai ogni qual volta Sherlock ci si ficchi. Abituatici." disse, prima di voltarsi e andare verso il piano superiore, in camera sua. Mycroft la seguì con lo sguardo, lasciandosi sfuggire un sospiro mentre si passava una mano sul viso. Dio, l'avrebbero fatto ammattire, prima o poi... Ma quella era la sua famiglia: non poteva certo far finta di niente e abbandonarli. Sopratutto se si trattava di Sherlock.

Indossò in fretta il cappotto e la sciarpa, poi uscì di casa, chiudendosi la porta alle spalle e armato di torcia. La neve ora cadeva copiosa e Mycroft quasi aprì l'ombrello senza rendersene conto. Uscì in giardino, cercando di remprimere una smorfia quando le sue costose scarpe in pelle affondarono nella neve. Le impronte di Sherlock erano già state coperte da un nuovo stato di neve fresca, ma erano ancora abbastanza visibili. Mycroft le seguì fino ad un certo punto, quando vide che iniziavano a sovrapporsi, per poi virare e cambiare direzione. Mycroft alzò lo sguardo e sospirò: avrebbe dovuto immaginarlo.

La lapide di Nemo Holmes era coperta di neve, ma Mycroft l'avrebbe comunque riconosciuta senza problemi in mezzo a tutte le altre. Specialmente se suo fratello era seduto lì davanti, la schiena contro la pietra e lo sguardo puntato a terra. Sembrava triste, confuso... Mycroft non l'aveva mai visto così: anche se non l'avrebbe mai ammesso, gli si strinse il cuore.

Fece qualche passo avanti, fino a fermarglisi accanto. Sherlock l'aveva notato, ma non si decideva ad alzare lo sguardo. Si limitò a stringersi nel cappotto, scrollandosi un po' di neve di dosso. Mycroft inclinò lievemente il capo.

"Sherlock..."

"Che vuoi? Sei venuto a farmi la partenale per la mia deplorevole scenata? In tal caso sta' tranquillo, non ti disturbare." mormorò Sherlock, amareggiato. Mycroft sospirò.

"No, non sono qui per questo."

"Per cosa, allora?"

Mycroft estrasse dal cappotto un pacchetto di sigarette e un accendino: quelli di Sherlock, a dire il vero. Sherlock alzò lo sguardo su di lui, diffidente, e Mycroft emise un gemito esasperato.

"Ti erano caduti nell'ingresso. Ho pensato li rivolessi." spiegò e Sherlock spalancò lievemente gli occhi. Prese pacchetto e accendino dalle mani del fratello, rigirandoseli tra le dita.

"Per una volta hai pensato bene.", sussurrò, "Grazie."

"Sherlock Holmes che ringrazia, quale onore..."

"Posso sempre rimangiarmelo, sai?" soffiò il ragazzo e Mycroft sorrise.

"Sì, lo so... Che cos'è successo, Sherlock? Me lo dici?" chiese, paziente. Sherlock si strinse nelle spalle, accendendosi una sigaretta e porgendone un'altra al fratello.

"Niente di importante."

"Non direi: a te sembra importare parecchio. Come sta... John?"

Sherlock alzò di scatto lo sguardo su di lui, la sigaretta a penzoloni tra le labbra, mentre Mycroft faceva un primo tiro. Quando incrociò il suo sguardo, capì e fece una smorfia.

"Eurus... Cosa ti ha detto?" disse, prendendo a sua volta una boccata di fumo. Mycroft sospirò.

"Non molto, solo informazioni generali... Tu hai qualcosa da dirmi in proposito?"

"Non c'è niente da dire." mormorò Sherlock, a denti stretti. Mycroft colse il suo disagio e si chiese cosa avesse sconvolto così profondamente il suo fratellino: Sherlock alla lunga aveva sviluppato un certo pelo sullo stomaco, ormai insulti e prese in giro lo scalfivano davvero poco, almeno in apparenza. Per ridurlo così, quel John doveva esserci andato davvero giù pesante.

"Credi... Credi che ci sia qualcosa di sbagliato in noi?" chiese Sherlock ad un certo punto, talmente piano che Mycroft pensò di averlo immaginato. Aggrottò la fronte.

"Cosa vuoi dire?"

"Niente, è che... Perché le persone sono così complicate? Perché è così difficile capire cosa pensino, perché facciano questo e quello o si comportino in un certo modo? Siamo noi ad essere sbagliati o... Non lo so nemmeno io.", sussurrò, scoraggiato. Quando alzò lo sguardo sul suo viso, Mycroft sentì lo stomaco torcersi per tutto il dolore concentrato nelle iridi di suo fratello.

"Perché è tutto così difficile?" chiese Sherlock, sofferente. Mycroft serrò la mascella e, preso un respiro profondo, si mise a sedere accanto a lui, tenendo l'ombrello aperto sopra le loro teste. Restarono in silenzio a fumare per un po', poi mormorò:

"Le persone ragionano in modo diverso da noi, Sherlock... Hanno altre priorità. Avresti dovuto metterlo in conto, quando hai iniziato a frequentare questo John."

"Lui è diverso. Lui... A lui piaccio per ciò che sono." mormorò Sherlock. Mycroft gli rivolse uno sguardo cauto.

"Ne sei davvero così sicuro?"

Sherlock emise un respiro spezzato, prendendosi la testa tra le mani.

"Non lo so più." sussurrò. Mycroft esitò qualche istante, incerto su come comportarsi. Cosa doveva fare, adesso? Abbracciarlo? Non era davvero nel suo stile, men che meno in quello di Sherlock... Semplicemente, non era da loro. Così si limitò a sospirare, alzandosi in piedi e porgendo al fratello una mano per fare lo stesso.

"Coraggio, torniamo a casa." disse e Sherlock restò ancora fermo un attimo a guardarlo, prima di abbassare lo sguardo e accettare l'aiuto. Mycroft riparò entrambi sotto l'ombrello e scrollò la neve dalla testa e dal cappotto di suo fratello. Sherlock lo lasciò fare, continuando a fumare in silenzio. Finirono tranquillamente le rispettive sigarette, procendendo lentamente verso Musgrave Hall. A pochi passi dall'ingresso, Sherlock disse:

"Mycroft?"

"Che c'è?"

"Nel caso la mamma si accorgesse che abbiamo fumato..." mormorò Sherlock, fermandosi sul patio mentre nascondevano nella neve i mozziconi.

"Sì?" lo incitò Mycroft. Sherlock sogghignò.

"Sappi che darò la colpa a te."

Sherlock si voltò e tornò in casa, senza voltarsi indietro. E Mycroft, nonostante tutto, non poté fare a meno di sorridere.






Il ritorno in università fu penoso, pieno d'ansia e tensione: Sherlock davvero non riusciva a calmarsi, a mettere un freno ai pensieri e tutta l'aria attorno a lui sembrava risentirne, crepitando di elettricità.

Quando, dopo il suo sfogo, Mycroft l'aveva riaccompagnao a casa, si era scusato per il suo comportamento con tutta la famiglia, riunita in salotto e preoccupata per lui. Sua madre l'aveva abbracciato e lui l'aveva lasciata fare, non aveva davvero né la voglia né la forza di discutere di nuovo. A giudicare dalle espressioni dei suoi, Eurus doveva aver vuotato il sacco anche con loro: normalmente Sherlock si sarebbe infuriato, ma in quel momento l'unica cosa che voleva fare era chiudersi in camera sua, dormire e sperare di svegliarsi il più tardi possibile con la certezza che quella serata fosse stata solo un incubo.

Alla fine, poco prima dell'ora di pranzo del primo gennaio, era letteralmente fuggito da Musgrave Hall: doveva vedere John e l'esasperazione l'aveva portato a precipitarsi il prima possibile in università, sperando di poter chiarire una volta per tutte con John la loro situazione e ricevere spiegazioni per quello che aveva visto.

Quando aprì la porta della stanza, la prima cosa che fece fu buttare il borsone con i propri abiti a terra e lasciarsi cadere sul letto, passandosi le mani sul viso con aria stanca. Non ce la faceva più. Dio, erano tre giorni che il ricordo di quella videochiamata lo perseguitava e oltretutto non aveva avuto l'occasione di chiedere a John come stessero le cose: si erano sentiti via messaggio il giorno dopo, ma erano stati contatti sporadici e limitati, quasi sbrigativi. E a Sherlock non piaceva per niente.

Tornò a fissare il soffitto, rimuginando sul da farsi: era meglio aspettare l'ora concordata con John per farsi vedere o era accettabile manifestarsi anche prima? Magari aspettandolo fuori dal suo dormitorio finché non fosse arrivato. Era primo pomeriggio, forse ci sarebbe voluto un po', ma in fondo che aveva da perdere, a parte salute e reputazione? Niente.

"...mmh-hm, okay, allora ci vediamo tra poco. Sì, sì, tranquilla, Sherlock non- oh, Cristo!"

Victor Trevor, appena aperta la porta e messo un piede in stanza, aveva fatto un salto di due metri per lo spavento individuando il suo coinquilino e migliore amico steso come una balenottera spiaggiato sul suo letto, quasi cinque ore prima dell'ora prevista per il suo ritorno in università. Inizialmente Victor doveva ver sicuramente preso in considerazione l'idea di mettersi a urlare e ricoprirlo di insulti, ma Sherlock fu abbastanza certo che una singola occhiata allo stato pietoso in cui versava fu più che sufficiente a fargli cambiare idea.


"Carly? Sì, tesoro, scusami ma temo proprio che non potremo vederci, oggi. Lo so, lo so, mi dispiace. Senti, ti chiamo stasera, okay? D'accordo, ciao."

Victor chiuse la chiamata e si avvicinò lentamente al letto di Sherlock, sedendosi ai piedi dell'amico. Diede un lieve strattone alla gamba del pantalone per richiamare la sua attenzione e Sherlock abbassò lo sguardo su di lui con una flemma estenuante e del tutto inusuale per i suoi standard.

"Allora?" chiese Victor e Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre.

"Allora che?"

"Che ci fai qui a quest'ora? Mi avevi detto che saresti tornato per le sei, adesso sono le tre passate da una manciata di minuti: sei in anticipo di tre ore, Sherlock."

"Avevo di meglio da fare." commentò Sherlock e Victor lanciò uno sguardo scettico verso l'alto.

"Tipo guardare il soffitto con aria da cane bastonato? Perché in effetti sì, questa sì che è davvero un'occupazione intrigante."

Sherlock gli rivolse uno sguardo irritato, poi tornò si voltò verso il muro rannicchiandosi su se stesso.


"Piantala, non sono in vena di sarcasmo."

"Tu sei sempre in vena di sarcasmo, tu vivi di sarcasmo."

"Non stavolta, Victor, okay?!" esclamò Sherlock irritato, voltandosi di nuovo verso di lui e Victor gli rivolse un'occhiata sorpresa. Restarono in silenzio a fissarsi per qualche istante, poi Sherlock sospirò e disse, passandosi le mani sul viso:

"Scusa, non volevo urlarti addosso."

"Non fa niente. Cos'è successo?"

"Cosa non è successo, semmai."

"Okay, dimmi pure. Ti ascolto." lo incitò Victor, a metà tra l'incuriosito e il cauto. Sherlock sospirò di nuovo, poi mormorò:

"John."

"John cosa? È morto?"

"No! Perché dovrebbe essere morto, scusa?!" esclamò Sherlock, tirandosi sui gomiti con un'espressione stizzita. Victor si strinse nelle spalle.

"Che ne so, era la prima cosa a venirmi in mente. Allora? Che è successo?"

"È innamorato di me. O almeno, così mi è sembrato di capire." sussurrò tristemente Sherlock, lasciando Victor di stucco.

"E si può sapere perché hai quella faccia da funerale, allora? Dovresti essere entusiasta, al settimo cielo!"

"E invece no, perché proprio mentre chiudeva la chiamata su Skype ho sentito una ragazza chiamarlo 'Johnny', chiedergli dove fosse e se fosse pronto, perché lei aveva finito la doccia. E oh, giusto, aveva solo un asciugamano addosso!"

Sherlock vide lo sguardo e l'espressione di Victor attraversare tutti ogni possibile spettro dell'emotività umana nel giro di tre secondi, passando da uno stadio di shock ad uno di furia cieca, il tutto sostando nella tristezza.

"Sai chi era? La ragazza, dico, l'avevi mai vista?" chiese, gelidamente calmo e Sherlock scosse la testa.

"Non l'ho vista in faccia, l'ho solo sentita parlare e ho visto la sua silhouette proiettata sulla parete e credimi, sotto quell'asciugamano c'era solo pelle bagnata. In ogni caso, non avevo mai sentito quella voce prima d'ora, quindi direi di no."

"Ah... Io lo ammazzo. Vado lì e lo ammazzo di botte, ma che cazzo ha nel cervello?!" sbottò Victor, furibondo. Era saltato in piedi e Sherlock si alzò a sua volta, cercando di trattenere Victor dal mettere in atto i suoi propositi: John giocava a rugby, quindi sapeva come fare a botte, ma Victor aveva frequentato insieme a lui pugilato, quindi... Beh. Meglio evitare che si ammazzassero a vicenda.

"Vic, calmo, calmati!"

"Calmati un cazzo, Sherlock! Che ci faceva una donna nuda con lui?!"

"Non lo so, Victor! È quello che speravo di scoprire stasera: dovevamo vederci davanti al suo dormitorio alle otto."

"Sai se sia già tornato?"

"Non lo so, non me l'ha detto. Perché?"

"Perché andiamo lì adesso. Mettiti il cappotto, usciamo."

"Cosa?" pigolò Sherlock, nel panico. Victor gli lanciò addosso il Belstaff e gli rivolse una smorfia.

"Magari non è niente, questo non lo so: fino ad ora John mi è sempre stato simpatico, quindi posso anche concedergli il beneficio del dubbio. Ma se scopro che c'è davvero qualcuno che non sia tu al suo fianco e che per tutti questi mesi ti ha solo preso per il culo, che Dio possa avere pietà di lui, perché di certo io non ne avrò." ringhiò, indossando la giaccia con un gesto secco.

Sherlock lo fissò senza emettere una sillaba, sgomento: aveva già visto Victor arrabbiarsi in passato, ma così... Dannazione, così mai, era la prima volta. E il fatto che si fosse infuriato a quel modo perché temeva che l'avessero solo preso in giro era... Sherlock non sapeva cosa fosse. Di certo non se lo sarebbe mai aspettato. Victor notò lo stato di paralisi di Sherlock solo dopo qualche istante, realizzandolo concretamente solo quando lo vide con il cappotto ancora stretto tra le braccia nella medesima posizione in cui lui glielo aveva lasciato addosso. Allargò le braccia, inarcando le sopracciglia.

"Beh? Che ti prende, adesso? Ti si è inceppato il disco?"


"Tu... Lo faresti davvero. Per me."

"Fare cosa?"

"Fare a botte, dare inizio ad una rissa. Lo faresti."

"Certo che lo farei, sei tipo mio fratello: se qualcuno ti spezza il cuore, ho il sacrosanto diritto e dovere di spezzare lui. Anche se si tratta di John Watson, chi sia a quel punto davvero non mi tange. Perché quella faccia da trota, adesso?"

"Niente, è che... Non me l'aspettavo. Tutto qui." sussurrò Sherlock, mettendosi lentamente il cappotto. Victor sorrise appena, scuotendo debolmente il capo mentre indossava il suo berretto di lana rosso.

"Te l'ho mai detto che il mio migliore amico è un maledetto idiota?"

"Qualche volta, sì."

"Mmh, dovrei fartelo conoscere. Sarebbe come guardarsi allo specchio per te."

"Molto divertente, Victor, davvero... Sei sicuro di volerlo fare? Di andare da John adesso, dico."

"Io sì. Che mi dici di te, invece?" chiese Victor, mentre procedevano verso la porta della loro stanza. Sherlock, allacciata la sciarpa blu, si mise i guanti con un sospiro.

"Non lo so: mi fido di John, davvero, è solo che... Credo di aver paura di cosa potrei trovare una volta lì. Nel caso ci fosse davvero quella ragazza con lui, nel caso mi dicesse che in realtà ha sbagliato e che non vuole più avere niente a che fare con me... Non credo che ce la farei a sopportarlo. Dio, è ridicolo, non so cosa mi sia preso, io-"

"Ehi, ascoltami." Victor gli mise una mano sulla spalla, attirando lo sguardo di uno spaventatissimo Sherlock sul suo viso, "Qualsiasi cosa troveremo, la affronteremo insieme. Sei il mio migliore amico, non ti lascio solo. Intesi?"

"Intesi... Grazie." sussurrò Sherlock, abbassando lo sguardo sulle sue scarpe. Victor chiuse la porta dietro di loro e si strinse nelle spalle.

"Lo faccio volentieri. Spera solo che il tuo John sia puro e innocente come un agnellino, altrimenti giuro che gli spaccherò il culo."

Sherlock non realizzò concretamente i minuti che seguirono: era come se li stesse vivendo per inerzia, senza capire veramente quello che stava facendo. Victor gli camminava accanto, seguendo con un certo sforzo le sue falcate chilometriche: nonostante fosse più alto, era sempre stato anche più lento. Riusciva solo ad avanzare, aumentando sempre di più velocità e ampiezza delle falcate.

Aveva paura. Dio, era terrorizzato di cosa avrebbe trovato al suo arrivo. E se John fosse stato ancora con quella ragazza? Cosa gli avrebbe detto? E cosa avrebbe fatto lui? Davvero non lo sapeva. Era a malapena consapevole di cosa stesse facendo in quel momento, figurarsi predire azioni future, altrui per di più. No, al momento l'unica cosa su cui riusciva a concentrarsi era il suo cuore in tachicardia: avrebbe avuto un infarto, probabilmente sarebbe morto da un momento all'altro, batteva troppo forte. Sherlock non aveva mai provato un terrore più cieco in tutta la sua vita e sinceramente non pensava nemmeno che l'avrebbe mai sperimentato, ma con John... Beh, con lui aveva scoperto un'intera gamma di emozioni e sensazioni che gli erano state precluse fino ad allora: forse quella era soltanto l'ultima aggiunta alla lista.

"Sherlock, Cristo santo, ho capito che è urgente, ma per Dio, rallenta un po'!" Sherlock si bloccò all'istante, voltando la testa verso Victor: era rimasto indietro di parecchio e ora stava arrancando nella neve fresca per raggiungerlo. Sherlock in un istante ebbe dinanzi a sé l'immagine di una scena a dir poco atroce: nel caso fosse andata male e Victor fosse stato con lui, John se la sarebbe vista bruttissima. A dire il vero, entrambi l'avrebbero vista brutta e nonostante tutto, Sherlock non voleva affatto che andasse in quel modo: non voleva che John o Victor si facessero del male a causa sua, semplicemente non sarebbe riuscito a sopportarlo. Così, anche se a malincuore, decise di fare la cosa giusta: privarsi del suo unico appiglio prima di cadere nell'oblio, in modo da salvare entrambi.

"Vic, io... Scusa, ma... M-ma ho cambiato idea." disse quando l'amico lo ebbe raggiunto. Victor aggrottò la fronte.

"Che significa?"

"Significa che voglio farlo da solo, io... Io credo sia meglio così. Meglio per tutti, per me soprattutto: sarà già difficile così, non voglio che tu assista ad una scena tanto patetica."

"Sherlock, guarda che per me non c'è problema, io-"


"Vic, ti prego, io..." Sherlock si interruppe, limitandosi a sospirare e a rivolgere all'amico uno sguardo straziato, "Non rendermi le cose ancora più insopportabili. Per favore."

Victor restò immobile qualche istante, per un tempo che a Sherlock sembrò infinito; poi però distolse lo sguardo, serrando le labbra in una linea dura.

"D'accordo. Come preferisci. Vuoi che ti aspetti qui o...?"


"Ci vediamo in camera."

Victor lo guardò ancora per qualche istante, subito prima di annuire lentamente e con ben poca convinzione.

"Ci vediamo lì. Se hai bisogno chiama, d'accordo? Sono sempre pronto a spaccare un naso, se la situazione lo richiede."

Sherlock fece un debole sorriso.

"Te lo farò sapere."

Victor a quel punto gli diede una breve pacca sulla spalla, poi si voltò e tornò da dove erano venuti. Sherlock restò fermo a guardarlo, seguendolo con lo sguardo fino a che la neve non lo ebbe avvolto nella sua coltre bianca, rendendolo invisibile. Fatto questo, prese tutto il coraggio in suo possesso a due mani e a testa bassa riprese il cammino: mancava poco al dormitorio di John, così poco che Sherlock si sentiva già male al pensiero di affrontarlo.

Aveva fatto la cosa giusta: conosceva Victor, sapeva che avrebbe perso le staffe facilmente in qualsiasi caso, ma quella volta proprio non poteva permetterlo; l'aveva fatto per il bene dei due ragazzi a cui teneva di più al mondo, anche se in due modi differenti: era la cosa giusta, lo sapeva. Ma questo non riuscì a distoglierlo dal pensiero che ora sarebbe stato completamento solo. E non farcela non era più un'opzione contemplabile.

Quando arrivò davanti al dormitorio, per un attimo sembrò che l'edificio fosse deserto: le finestre erano tutte chiuse, con le tende tirate o le tapparelle abbassate. La rastrelliera delle biciclette era vuota e le poche che erano rimaste lì erano coperte di neve, così come le aiuole. L'unica traccia di vita erano le impronte sbiadite di scarpe e stivali impresse nel soffice manto candido che ricopriva erba e selciato, fino ai gradini d'ingresso. Alcune erano vecchie, altre fresche e Sherlock sentì un rivolo di sudore freddo correre lungo la sua spina dorsale quando distinse tra le tracce recenti quelle di un paio di stivali da donna accompagnate passo passo da un paio di scarpe da ginnastica Adidas. Lo stesso modello di John. Non farti condizionare, si disse, è una marca comune: probabilmente mezzo dormitorio ne avrà un paio, non è detto che siano di John.


Alzò lo sguardo verso il secondo piano, più precisamente sulla finestra che sapeva essere quella della stanza di John: era chiusa, le tapparelle abbassate e dall'interno sembrava non filtrasse il minimo accenno di luce. Sherlock sospirò, sollevato. Vedi che non era lui? Che idiota che sei, Sherlock Holmes. Si lasciò sfuggire una risatina incredula, passandosi una mano sul viso: come aveva fatto a ridursi così? Lui non era mai stato un tipo geloso, mai. E John non gli aveva mai dato motivo di esserlo, chissà chi era quella ragazza... Magari era pure sua madre, che ne poteva sapere lui? Scosse debolmente il capo e si voltò, riprendendo a camminare con più calma in direzione del suo dormitorio. Fece una decina di passi, raggiungendo uno dei grossi arbusti che qualche idiota aveva piantato anni prima nel punto sbagliato e ora coprivano parzialmente la vista dell'ingresso degli alloggi, talmente erano cresciuti. A quel punto, però, successe qualcosa che lo fece bloccare di colpo, gelandolo sul posto. Già quando aveva iniziato ad allontanarsi, aveva iniziato a sentire delle voci in lontananza avvicinarsi, ma sul momento non vi aveva fatto caso. Ma ora, sentendo la voce di John, tutto acquistò un valore differente. Soprattutto perché John non era da solo.

Una risata femminile. Una risata emessa da una ragazza, la cui voce aveva tormentato Sherlock sin dal momento in cui l'aveva sentita la prima volta. Non può essere. Dio, non può essere, non... Ti prego, no.

Sherlock, parzialmente nascosto dal cespuglio, si voltò lentamente, il cuore in gola; quando vide chi aveva appena raggiunto il dormitorio dalla strada opposta, ridendo e scherzando, quel suo povero cuore martoriato si ruppe definitivamente, diventando più gelido della neve che lo circondava: John era lì, sorridente e allegro come sempre, bello come Sherlock lo ricordava; aveva le guance e il naso arrossati per il freddo e i capelli pieni di neve fresca, ma a lui sembrava non importare. Rideva, John, rideva spensierato, mentre teneva un borsone a tracolla e il braccio destro stretto attorno alla vita di una ragazza, anch'essa sorridente. Era la ragazza della videochiamata, Sherlock me era sicuro: l'altezza era la stessa e vedendola così, quella silhouette proiettata sul muro sembrava proprio la sua; per di più, la voce combaciava perfettamente con quella che Sherlock aveva sentito. Perciò non c'era alcun dubbio: la fantomatica ragazza esisteva e in quel momento aveva preso il posto che Sherlock credeva sarebbe stato suo. Quello accanto a John.

Era carina, sembrava rientrare pienamente negli standard di John: capelli biondo grano dalle sfumature color paglierino nascosti sotto a un berretto color vinaccia, lisci e lunghi fino alle spalle con frangetta annessa; occhi che da lontano gli parvero chiari, forse blu e naso dritto, lievemente a patata, labbra sottili dipinte di rosso e un fisico minuto- era addirittura più bassa di John, il che era tutto dire-, ma comunque dalle forme ben evidenti sotto il cappotto nocciola e la sciarpa in tinta col cappello; aveva un paio di stivali neri, in netto contrasto con le Adidas Stan Smith del ragazzo accanto a lei. Sembrava una ragazza allegra, spigliata, vulcanica, la sua risata era davvero coinvolgente. C'era qualcosa di familiare nei suoi tratti, anche se Sherlock al momento non era davvero in vena di mettersi a dedurre e analizzarla. Poteva solo dire che aveva scelto bene, John. Aveva davvero scelto bene con chi rimpiazzarlo, se mai c'era veramente stato qualcosa da rimpiazzare.

Sherlock si appoggiò alla pianta, restando ad osservare la scena senza rischiare di essere visto: raggiunto l'ingresso, John buttò il borsone a terra mentre la ragazza diceva qualcosa, armata di un sorrisetto malizioso e uno sguardo ammiccante; John si strinse nelle spalle e le rispose, rivolgendole un sorriso appena accennato, un po' timido. Sherlock si ritrovò a pensare che quel sorriso l'aveva rivolto anche a lui, in passato, e Dio, faceva male. La ragazza scoppiò a ridere, scuotendo la testa, poi fece quella che a Sherlock, a giudicare dalla smorfia assunta da John, parve una battuta poco gradita. Per farsi perdonare la giovane diede un buffetto con la mano guantata a John, che lo accettò con un sorriso divertito.

Sherlock lo vide farsi più serio mentre si avvicinava ancora di più a lei e le chiedeva qualcosa, inclinando un poco la testa per incontrare il suo sguardo, al momento fisso sul suolo. La ragazza rispose dopo pochi attimi e John annuì, dicendole qualcosa in tono probabilmente rassicurante e mettendole una mano sulla spalla. Lei gli rivolse un sorriso grato, sincero, poi coprì quei pochi passi che ancora li separavano e si strinse a lui, abbracciandolo stretto e appoggiando la testa alla sua spalla. John la strinse a sua volta, sfiorandole la schiena con gesti affettuosi. Sherlock si ritrovò a distogliere lo sguardo, ormai offuscato dalle lacrime. Era decisamente troppo da sopportare.

Avrebbe potuto fare tante cose, a quel punto: andare da John e chiedere spiegazioni; iniziare a strepitare, urlare e fare casino, probabilmente cercando di ammazzare la ragazza dagli occhi chiari che gli aveva portato via il suo John; chiamare Victor e chiedergli di raggiungerlo per dare una lezione a John. Avrebbe davvero potuto fare tante cose, di alternative tra cui scegliere ne aveva tante.

E invece fece la cosa più difficile e meschina che avrebbe potuto fare: a testa bassa e con gli occhi che ormai non riuscivano più a frenare l'avanzata della lacrime, si voltò e stretto nel suo cappotto se ne andò in silenzio, senza dire una parola.

Aveva il cuore spezzato, Sherlock Holmes: come un idiota aveva creduto che la felicità, così effimera e ingannatrice, sarebbe potuta durare per sempre e l'avrebbe fatto con lui accanto a John, che lo amava almeno la metà di quanto lui lo amava. Si era lasciato sopraffare dai sentimenti, aveva ignorato la logica che gli urlava di fare attenzione, di non fidarsi e di preparare un piano B per rialzarsi con dignità in caso le cose fossero andate male. E invece lui non aveva fatto niente, si era lasciato andare e fatto trascinare dai sentimenti; era andato alla deriva e non se n'era neanche accorto, talmente era inebriato da quella sua illusione di paradiso.

Ma ora la realtà l'aveva riportato alla presente con un colpo ben assestato, come un pugno allo stomaco: John aveva un'altra persona accanto a sé, qualcuno che sicuramente l'avrebbe reso più felice di quanto Sherlock avrebbe mai potuto fare. John aveva quella ragazza, con cui aveva passato le feste e che l'aveva riaccompagnato in università e che ora era stretta a lui davanti al loro dormitorio; lui non era altro che un tentativo fallito relegato al passato, una storia finita prima di iniziare con un tizio strambo che non avrebbe mai potuto dargli il futuro che John auspicava. Sherlock si era immaginato per tutto quel tempo al posto di quella ragazza, in un ipotetico futuro, ma solo ora realizzava che quel futuro non ci sarebbe mai e poi mai stato. Era semplicemente una fantasia, una bugia ben costruita, un castello di carta pronto a crollare al minimo soffio di vento.

E Sherlock, come una foglia appena nata piegata dai venti gelidi dell'inverno, non poteva fare altro che sperare di resistere al tempo e al dolore di quel suo fragile cuore spezzato per la prima volta, cercando di non crollare sotto il peso opprimente di tutte quelle speranze infrante.






Note:
Ciao a tutti!
E questo, signore e signori, era il capitolo 4. E la svolta angst è arrivata, anche se non subitissimo. Ditelo che per un po' vi ho illuso di avervi solo preso in giro, ditelo.
Comunque, che dire? Sherlock l'ha presa piuttosto male, ma direi che vista la situazione non avrebbe potuto essere altrimenti. Nel prossimo capitolo (l'ultimo... sigh) lo vedrete cercare di elaborare l'accaduto, rimettersi in sesto e... andare avanti? Sì, credo si possa dire così, anche se sarà più difficile del previsto e non solo per lui. Riusciranno lui e John ad avere il loro lieto fine? Chi lo sa.
Cioè, io lo so, ma non spoilero niente. Sorry not sorry.
Per quanto riguarda il capitolo, qualche giorno fa avevo accennato su Twitter di non essere affatto convinta riguardo ad una scena: temevo fosse troppo OOC per il personaggio, ma alla fine mi sono dimenticata di postare lo screen, così alla fine ho detto "al diavolo" e here you are, quello che avete letto era il capitolo versione integrale. La scena in questione era quella della "crisi di nervi" di Sherlock davanti alla sua famiglia: è stata un azzardo, come la scena di Beyoncé e Crazy In Love, ma in modo più cupo. Spero non risulti stonata, volevo sottolineare lo stato d'animo innervosito, esasperato e impaurito di Sherlock in quel momento e... Non so, mi auguro non risulti esagerata.
Dunque, come sempre vorrei ringraziarvi di cuore: il vostro entusiasmo per la storia sembra aumentare con il numero dei capitoli e non potrei esserne più felice. Spero che il capitolo non vi abbia deluso- è stato un po' diverso dagli altri, ma era una svolta che pianificavo sin dall'inizio, quindi non volevo rinunciarvi- e mi auguro che l'epilogo di settimana prossima sia degno delle vostre aspettative.
Per quanto riguarda gli enigmi, la soluzione di quello di Sherlock verrà fuori nel prossimo capitolo. Voi siete riusciti a risolverlo? ;)
Quel "luv" sarebbe tipo il nostro "TVB" ma mi sono resa conto troppo tardi che si poteva fare anche "Lov" con la tavola periodica e, visto che avrei dovuto cambiare troppe cose, l'ho lasciato così.
Bene, per ora è tutto. Spero che non vogliate uccidermi per tutto... questo. In caso, accolgo il mio destino di morte a braccia aperte.
Un bacio, al prossimo capitolo!
Cami

   
 
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