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Autore: Kim WinterNight    29/07/2017    2 recensioni
[Sequel di 'Alive'.]
«Siamo giunti all'ultimo campo per Laura.
Stavolta però si ritrova ad avere qualcuno al suo fianco, qualcuno che però non è Marco.
Forse questa è la volta buona, forse la ragazza riuscirà a superare l'attrazione che da sempre la lega a qualcuno che non la ama.
Lei ci proverà, supportata da sua sorella Tamara, dall'immancabile e storica amica Viola e da tutti i loro compagni di avventura, sotto la supervisione di educatori e istruttori che non rinunceranno a mettere i ragazzi alla prova e a combinare un bel po' di casini.»
Come per le due storie precedente, troverete una colonna sonora diversa per ogni capitolo. Vi basterà cliccare sul collegamento presente sul titolo per essere rimandati direttamene al brano su YouTube.
Inoltre, come di consueto, il titolo della storia porta il nome di una canzone dei P.O.D. intitolata proprio 'Boom': vi consiglio di andarla a sentire! ;)
Buon ascolto e buona lettura e, come sempre, non esitate a farmi sapere il vostro parere ♥
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Youth Of The Nation'
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ReggaeFamily

Capitolo quindici: Are you gonna be my girl




Sole, sole, sole. C'era sole ovunque, neanche uno sprazzo d'ombra, neanche per idea.

I miei piedi, così come quelli dei miei compagni d'avventura, avanzavano per inerzia sullo stretto sentiero sterrato. Eravamo circondati soltanto da bassi cespugli di macchia mediterranea, niente che potesse confortarci dalla calura che si abbatteva spietata sui nostri corpi stanchi.

Dopo dieci giorni di campo, una sfacchinata del genere non ci voleva; forse avrebbero dovuto organizzarla all'inizio, quando ancora avevamo le energie necessarie per affrontare qualsiasi cosa. In ogni caso, non capivo come una passeggiata naturalistica alla scoperta della macchia mediterranea potesse svolgersi in piena mattinata. Rischiavamo seriamente un'insolazione.

«Dai, fate uno sforzo! Arriveremo presto al mare!» continuava a ripeterci una delle guide, di cui avevo già dimenticato il nome.

Eravamo decisamente stravolti: in linea di massima eravamo sfiniti, dal canto mio avvertivo il solito mal di schiena farsi sempre più pungente, mentre Marco aveva mal di testa.

«A pranzo non bevo» dichiarò a un certo punto.

Mia sorella rise. «Non ci credi neanche tu» lo contraddisse con ironia.

«No, no... vedrai... ho un mal di testa atroce...»

Dentro me sapevo che Tamara aveva ragione: quel cretino non avrebbe resistito alla tentazione di prendersi una birra o un quarto di vino durante i pasti. Era un caso perso.

«Io te l'avevo detto ieri, no? Avevo scommesso che avresti avuto il mal di testa e ho vinto! Sono un genio!» continuò a schernirlo Tamara, sempre più divertita dalle condizioni del ragazzo.

Lui non rispose e si limito a borbottare qualcosa d'incomprensibile. Tipico di chi si trova in torto e non può assolutamente negarlo.

Non so quanto tempo trascorremmo a camminare, mi parve infinito, finché finalmente non ci fermammo su una spiaggetta deserta e molto bella. Ci sistemammo sulla sabbia e ci accostammo alla riva per rinfrescarci e fare il bagno, ma subito ci accorgemmo che era pieno zeppo di pesci che non facevano che pungerci i piedi e le caviglie. Rinunciai all'idea di fare un bagno decente e, sbuffando, mi accostai alla mia borsa. Decisi di ristorarmi un po', bevendo diversi sorsi d'acqua e mangiando i miei immancabili grissini al sesamo.

Troppo tardi mi resi conto che, per andare via, avremmo dovuto ripercorrere tutto il tragitto a piedi e mi sentii mancare. Non ce la potevo fare.

Stranamente, il ritorno verso il pulmino fu più breve, forse perché le guide avevano scelto una sorta di scorciatoia; quando arrivammo alla nostra meta, stavo morendo di fame e di sete, non vedevo l'ora di andare a pranzo e sedermi, per poi rialzarmi il più tardi possibile.

Il problema era che non avevamo tempo: alle quattro del pomeriggio avremmo avuto il secondo incontro con Maria Vittoria e Alfonso, e quando giungemmo a un chiosco per pranzare, si erano già fatte le due.

Mi ritrovai seduta accanto a Marco e la cosa mi lasciò piuttosto indifferente, anche perché stavo pensando solo a ciò che avrei mangiato. Ordinai dei ravioli al pomodoro, una caprese e delle patatine fritte e attesi con ansia che il mio cibo arrivasse.

Potei presto constatare che Tamara aveva vinto la seconda scommessa – che, piuttosto, era stata una certezza fin dal principio – della giornata: inizialmente Marco ordino una Coca Cola, ma a metà del pranzo richiamò la cameriera e si fece portare un quarto di vino rosso, dopo aver appreso con la birra c'era solo in formato da trentatré centilitri e lui l'avrebbe voluta da sessantasei.

Un caso perso, mi fece veramente schifo e pena, non vedevo l'ora che il campo finisse anche e soprattutto per non doverlo più vedere e non dover più assistere a certe scene raccapriccianti.


Una volta rientrati al residence, non avemmo neanche il tempo per darci una rinfrescata: si era già fatto tardi, Maria Vittoria e Alfonso arrivarono puntuali e ci riunirono nuovamente di fronte alla stanza dei ragazzi.

Ero piuttosto seccata dal fatto di non avere neanche un minuto per riprendere fiato: avevamo sudato come cammelli durante la passeggiata, inoltre ci eravamo buttati in spiaggia e qualcuno aveva fatto il bagno. Era da animali non correre in doccia fin da subito, ma ancora una volta noi ragazzi non avevamo avuto voce in capitolo e ci eravamo dovuti attenere alle decisioni prese dall'alto.

«Lau?» mi richiamò Tamara, mentre aspettavamo che i due nuovi arrivati cominciassero a spiegarci cosa avremmo fatto quel pomeriggio.

«Dimmi.»

«Ma... anche tu hai notato che Samuele non si è mai cambiato i pantaloni da quando siamo arrivati? Ha sempre quegli orribili bermuda in fantasia militare...» bisbigliò in tono indignato.

Risi. «Sì, e tra l'altro si è portato appresso solo due magliette. Gliene ho visto addosso solo due durante tutti questi giorni.»

«Secondo me si è portato appresso solo quello zaino che ha sempre addosso, in cui ha ficcato solo una maglietta di ricambio e forse qualche capo di biancheria intima. Mi viene da vomitare...»

Scoppiammo a ridere, così Viola volle sapere cosa ci stesse prendendo. Tamara le spiegò la situazione e anche lei si unì alla nostra ilarità, asserendo che probabilmente quelli erano gli unici vestiti in suo possesso.

Maria Vittoria, poco dopo, attirò la nostra attenzione. «Ragazzi, oggi faremo qualcosa di diverso rispetto all'altra volta.»

«Cosa?» si incuriosì subito Nicolò.

«Ora ve lo spieghiamo, giovanotto» lo rassicurò Alfonso con un leggero sorriso.

La donna proseguì: «Ora vi daremo un cartoncino su cui ognuno di voi dovrà scrivere alcuni suoi pregi. Mi raccomando, solo qualità positive. Devono essere ameno cinque».

Nel frattempo ci distribuirono qualcosa su cui scrivere e alcuni pennarelli e penne; decidemmo che noi ipovedenti avremmo aiutato i non vedenti a scrivere le loro qualità, dato che non era disponibile, al momento, del materiale per far sì che loro scrivessero in braille.

Fu piuttosto difficile scrivere qualcosa di positivo, non solo per me, ma per tutti noi; alla fine riuscii a buttar giù qualche parola, come per esempio schiettezza o empatia.

Quando finimmo tutti di annotare i nostri pregi, Maria Vittoria ci spiegò come avremmo proceduto: «Ora ognuno di voi leggerà a voce alta ciò che ha scritto, e gli altri dovranno commentare, dicendo ciò che pensa. Se pensate che i pregi scritti dai vostri amici siano corretti o se avete dei suggerimenti per far sì che migliorino qualcosa di loro stessi, non esitate a dirlo. Dovete essere sinceri il più possibile».

«Interessante...» commentai.

Così cominciammo l'attività; mi ritrovai a essere veramente sincera con tutti, perché lo scopo di ciò che stavamo facendo era proprio quello, e inoltre nessuno avrebbe dovuto prendersela per i consigli e suggerimenti altrui.

A Nicolò dissi che forse avrebbe dovuto essere più tranquillo ed evitare di infastidire gli altri con il suo modo di fare sempre esuberante e pedante, perché comunque ognuno aveva il diritto di avere i suoi spazi e lui non poteva permettersi di disturbare ogni volta che ne aveva voglia. A Gabriella e Simona dissi più o meno qualcosa del genere, aggiungendo che avrebbero dovuto contenersi ed evitare di ripetere sempre le stesse cose all'infinito, perché gli argomenti che portavano fuori non sempre erano di interesse comune e le persone potevano anche non aver interesse per i loro discorsi, soprattutto se ripetuti allo sfinimento. A Giorgio dissi che, secondo me, avrebbe dovuto impegnarsi maggiormente per socializzare e per mostrare il vero se stesso, dato che era un ragazzo simpatico, intelligente e divertente, doveva soltanto portarlo fuori e mettersi in gioco.

A Viola dissi che spesso era testarda e che avrebbe dovuto ascoltare maggiormente i consigli che le venivano dati, perché su certi argomenti non poteva avere ragione sempre e solo lei; le dissi anche che a volte si lasciava influenzare dalle persone sbagliate, che magari con forza e con determinati modi di fare, riuscivano a convincerla di cose che lei non avrebbe mai condiviso, se avesse ragionato con la sua testa.

A Tamara più o meno dicemmo tutti che era molto dolce e sensibile, ma che aveva tanti problemi con l'autostima; le consigliai di non sottovalutarsi perché, se avesse imparato ad amarsi, avrebbe scoperto di essere una persona davvero apprezzabile e bella.

Lei parve commossa, dato che tutti le stavano facendo un sacco di complimenti che non credeva di meritare; le sembrava strano che tutti pensassero tante cose positive di lei.

Anche io, francamente, mi sentivo sull'orlo delle lacrime; sentire tutti noi parlare con tanta sincerità gli uni degli altri era qualcosa di davvero bello: non c'era astio, non c'era competizione, non c'era rabbia. Mi ritrovai a pensare che quell'attività di autocritica e di riscoperta di se stessi e degli altri sarebbe stata molto utile per molti di noi.

Quando arrivò il momento di parlare di Marco, lui esclamò: «Adesso tutti mi diranno che sono un beone!».

Io gli dissi: «In effetti quello non si può negare».

Gli spiegai che secondo me era troppo chiuso in se stesso e che avrebbe dovuto, ogni tanto, aprirsi e affidarsi agli altri quando aveva qualche problema, anziché rifugiarsi in modi effimeri e inutili come l'alcol o il fumo, che non avrebbero comunque risolto un bel niente. Inoltre gli dissi che avrebbe dovuto accettarsi di più, accettare anche il suo essere ipovedente.

Poco dopo giunse il mio turno di essere bersagliata; stranamente, ricevetti anche io dei buoni complimenti, anche se qualcuno mi disse che avrei dovuto calmarmi e cercare di non dare di matto per tutto. Mi dissero che ero impulsiva e che spesso non davo ascolto agli altri, ma che comunque avevo un buon carattere, sapevo stare in gruppo e aiutare chi ne aveva bisogno.

Mi fece piacere ricevere certi consigli da loro, perché in un modo o nell'altro avevano imparato a conoscermi e sapevo che avevano certamente ragione.

Qualche lacrima sfuggì al mio controllo, proprio perché quell'attività mi colpì molto e mi servì per capirmi e riflettere su me stessa e su ciò che avrei potuto migliorare di me.

Verso le sette salutammo Maria Vittoria e Alfonso, poiché avremmo dovuto fare la doccia e prepararci per l'ultima sera del campo. Mentre eravamo impegnati con i due psicologi, Giovanna era venuta a chiederci come volevamo la pizza per la cena, dato che l'avremmo mangiata a bordo piscina dopo averla ordinata dalla nostra pizzeria di fiducia, quella in cui ci eravamo recati diverse volte sia quell'anno che il precedente.

Poco prima di risalire in camera, notai che Marco si stava dirigendo verso la nostra stanza per un motivo a me ignoto, così mi venne spontaneo affiancarlo, lasciando indietro gli altri.

«Ce l'hai con me?» gli chiesi con semplicità.

Sinceramente, sarebbe stato l'ultimo mio campo, probabilmente non l'avrei mai più rivisto – e lo speravo – ma non volevo che ci lasciassimo in malo modo. Ero tendenzialmente una persona pacifica, detestavo avere dei problemi con gli altri, specialmente se non ce n'era un vero motivo. Con lui era andato sempre tutto male, ma non avrei dovuto frequentarlo in futuro, quindi non aveva senso che ci ignorassimo anche in queste ultime ore di campo.

«No, non ce l'ho con te» borbottò, mentre salivamo le scale che conducevano al terrazzo di camera mia. «È solo che io non ho fatto niente con cattive intenzioni, tutto qui.»

Ci fermammo di fronte alla porta, dato che le chiavi le aveva Marta e quindi avremmo dovuto aspettare che arrivasse; eravamo soli sul terrazzo e pensai che fosse arrivato il momento di parlare, di dirci qualcosa che avrebbe definitivamente messo fine al nostro rapporto, se così si poteva definire.

«Non so, non ti credo. Sono successe tante cose, posso avere dei dubbi, non pensi?» gli feci notare.

Mi afferrò per le mani. «Lau, ascolta. Credimi, io sono davvero felice che tu stia con Danilo, non voglio assolutamente rovinare ciò che c'è tra voi. Non avevo secondi fini, volevo solo abbracciarti perché a te ci tengo. Davvero.»

Continuavo a non credergli, ma non glielo dissi e finsi il contrario. «Okay, va bene. Non importa» concessi con un sospiro. «In ogni caso, sono contenta che questo campo stia per finire e che sia il mio ultimo. Non rivedrò più nessuno di voi ed è meglio così» aggiunsi.

Lui lasciò la presa e sbuffò. «Perché dici così? Senti, io durante tutti quesi mesi avrei voluto vederti, giuro, mi piacerebbe che non perdessimo i contatti... non appena mi sistemo all'università, giuro, prendo il treno e vengo da voi. Se c'è un bed and breakfast nel vostro paese, rimango anche più di un giorno. Mi dispiace che la pensi così, però possiamo...»

Dovetti trattenermi per non scoppiare a ridergli in faccia. «Non ci credi neanche tu, Marco. Andiamo!»

«Non è vero! Lo farò, vedrai!» affermò con enfasi.

Scossi appena il capo. Mi faceva piuttosto pena, ma non glielo dissi. Non avevo voglia di discutere con il vento. Avevo ormai capito com'era fatto: non si era preoccupato di venirmi a trovare neanche quando i rapporti tra noi erano un po' più stretti, ero stata sempre io a prendere il treno per raggiungerlo, a organizzarmi per andare da lui; da parte sua non c'era mai stato niente di concreto, perché avrebbe dovuto fare qualcosa ora? Era impensabile, davvero ridicolo.

«Sono contento che abbiamo chiarito, comunque. E non dire così, vedrai che verrò a trovarvi» ribadì Marco con un mezzo sorriso.

Presa da uno slancio improvviso, lo abbracciai. Non so cosa mi fosse preso, però era come se volessi dargli il mio addio, quello definitivo e ultimo.

Lui ricambiò e mi disse: «Ti voglio bene Lau, voglio che tu sia felice».

«Sì» mormorai. «Anche io.»

Non sapevo se quelle ultime due parole fossero riferite al fatto che gli volessi bene o che desiderassi essere felice; Marco aveva comunque rappresentato qualcosa di importante per me, nonostante ora lo disprezzassi e trovassi riprovevoli i suoi atteggiamenti.

Ci separammo quando udimmo i passi di Marta e Viola che salivano le scale.

«Marco, cosa ti serviva?» chiese Marta, sventolando le chiavi mentre si avvicinava alla porta.

«Devo prendere il vino, ce l'ho in frigo da voi, ricordi?» rispose lui. «Ah Lau, nella playlist per stasera l'hai messa Are you gonna be my girl dei Jet? Ce l'ho in testa da quando stavamo ascoltando musica in piscina, giorni fa...»

«L'ho messa, tranquillo!» assicurai, entrando in camera.

E mi venne in mente che no, non sarei mai stata la sua ragazza. E non lo ero mai stata, ciò che c'era stato tra noi era sempre stato illusorio e pieno di bugie.

Ero contenta che fosse finito tutto, che non ci saremmo più rivisti e che ci eravamo detti finalmente addio.

  
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