Anime & Manga > Full Metal Alchemist
Ricorda la storia  |      
Autore: My Pride    15/06/2009    16 recensioni
Sentivo il rombare possente dei muscoli del mio cuore, il fremente palpitare del sangue nelle vene; ogni cosa, che fosse insignificante o meno, sembrava ingigantita alle mie orecchie e pulsare all’unisono dei miei pensieri e del mio essere, come un’unica entità.
Era una sensazione bizzarra, un qualcosa che non avevo mai provato.
[ Edwar Elric POV ]
[ Agli esordi de «Il bacio del vampiro» ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Edward Elric, Hohemheim Elric, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Vampire's Story ~ Il Bacio del Vampiro'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Dirty Life, Dirty Darkness [Vampire’s Awakening 1] Titolo: Dirty Life, Dirty Darkness [Vampire’s Awakening]
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 6242 parole ]
Personaggi: Edward Elric, Van Hohenheim, Roy Mustang
Genere: Dark, Drammatico, Sovrannaturale

Rating: Arancione
Avvertimenti: AU, Non per stomaci delicati, OOC, Shounen ai



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.
 
We are like the living dead
Sacrificing all we have
For a frozen heart and a soul on fire
We are like the living dead
Craving for deliverance
With a frozen heart and a soul on fire
[1]

    Mi ritrovai in una calda e confortevole oscurità, così densa ma al contempo così ovattata che sembrava quasi si potesse stringere fra le mani o svanire d’un tratto come fumo. Io ero al centro di essa e tentavo in ogni modo di mettere a fuoco qualcosa, qualsiasi cosa si fosse assiepata in quel mondo di tenebra perpetua che mi circondava, nonostante l’opprimente terrore che, senza che ne capissi la vera ragione, stava invadendo a poco a poco il mio intero essere, facendomi tremare con spasmi violenti che mi lasciavano senza fiato.
    Scoprii ben presto di essere carponi su un terreno umido, viscido. Un odore simile a quello della ruggine incrostata sul ferro mi invase le narici subito dopo, serrandomi la gola in una morsa devastante. Repressi un conato di vomito e provai a rimettermi in piedi sulle gambe malferme, sentendo una massa vischiosa e densa avvolgermi le caviglie, e il sentore della ruggine aumentò, facendomi persino dolere la testa; premetti entrambi i palmi contro le tempie nel tentativo di contenere almeno in parte il dolore che mi martoriava il cervello, ma esso serpeggiò in tutto il corpo spropositatamente e mi parve che i muscoli dell’addome mi si stessero attorcigliando in spire.
    Una presa d’acciaio mi artigliò lo stomaco e lo mandò a fuoco, e urlando ricaddi in avanti, atterrando con un tuffo che risuonò sordo alle mie orecchie in quella che, nella mia momentanea cecità, catalogai come un’infinita pozza d’acqua stagnante. Solo quando, in lontananza, una fioca luce illuminò il luogo in cui mi trovavo, capii realmente di cosa si trattava. Inorridii, sgranando gli occhi; mi portai una mano insanguinata alla bocca mentre il dolore imperversava sempre più dentro di me, strisciando come un serpente infido e irto di spire nelle profondità del mio animo. Quella debole fonte di luce mi mostrava montagne di cadaveri ridotti a pezzi, le cui teste mozzate erano ammassate negli angoli più disparati, e io stavo sguazzando nel loro sangue...
    Urlai così forte che i polmoni mi si infiammarono, e mi svegliai in preda ai sudori freddi su un materasso coperto da lussuose lenzuola di seta nera, nascosto dietro un tendaggio semitrasparente che tendeva al medesimo colore. Le scostai e mi guardai intorno con il respiro velocizzato e il cuore che mi batteva a mille, come se cercassi quell’orrore che mi ero ritrovato ad osservare in quell’incubo. Sondai con gli occhi ogni angolo, minuziosamente, vedendo tutto ciò che mi circondava come se fosse la prima volta, quando invece non era così. Ero in camera mia, ma la mobilia presente mi sembrava estranea, eterea.
    Colto dalle vertigini, abbassai le palpebre, tenendomi un braccio premuto contro lo stomaco. Sentivo il rombare possente dei muscoli del mio cuore, il fremente palpitare del sangue nelle vene; ogni cosa, che fosse insignificante o meno, sembrava ingigantita alle mie orecchie e pulsare all’unisono dei miei pensieri e del mio essere, come un’unica entità. Era una sensazione bizzarra, un qualcosa che non avevo mai provato. Tutto era divenuto più consistente di quanto io stesso ricordassi, come se, allungando un braccio, potessi trapassarne la materia e liquefarla con un sol gesto. Gli odori erano densi, mi arrivavano alle narici come quando, da bambino, mi trovavo a girare da solo nella brughiera, assaporandone i profumi che si innalzavano con il lieve vento. Non seppi dire se fosse piacevole o meno, ciò che sentivo.
    Mi passai ebolmente una mano sugli occhi, riaprendoli. Davanti al viso, osservai attentamente il pallido colorito della mia pelle, deglutendo sonoramente e leccandomi le labbra che sentivo secche. Le gengive mi facevano male come non mai, e  inconsciamente mi portai la mano che stavo fissando alla bocca, toccandole fuggevolmente. Qualcosa mi ferì un dito. Qualcosa di appuntito, acuminato.
    Ritrassi immediatamente la mano senza capire, restando stupidamente a guardare quella perla vermiglia che era il mio sangue. Sbattevo le palpebre rimirandola in tutte le sue angolazioni, lasciando che colasse lungo il mio dito in un rivolo finissimo in gran contrasto con la mia pelle d’alabastro. Alle narici mi giunse devastante il suo sentore, e cominciai a boccheggiare come se mi trovassi sott’acqua, senza fiato, nell’ inutile tentativo di sfuggire a quell’odore penetrante di ferro e ruggine. Febbrili, i miei occhi non riuscivano a staccarsi dall’immagine di sangue che registrava la mia mente, riportando a galla l’incubo dal quale mi ero svegliato poco prima.
    Non seppi cosa mi spinse a farlo, ma riavvicinai il dito alle labbra e leccai la ferita con la punta della lingua, sentendo un bizzarro e lascivo desiderio opprimermi terribilmente il petto. L’odore del sangue divenne più forte, quasi distruttivo per la mia integrità, e cominciai a succhiarlo avidamente, leccando tutt’intorno alla falange per non rischiare che me ne sfuggisse una goccia, in un gesto che ad occhi estranei sarebbe apparso deviato o erotico. Ma non per me. Io stavo solo placando la mia sete. La mia sete di sangue...
    Interruppi ciò che stavo facendo così in fretta non appena me ne resi pienamente conto che, scattato all’indietro sul materasso come se stessi sfuggendo a mani invisibili che minacciavano di sfiorarmi, rischiai di sbattere con la schiena contro la testata del letto. Presi a respirare dalla bocca per evitare che il sentore della ruggine mi andasse nuovamente alla testa, ma fu solo un madornale errore. Mi riempì la gola, accrescendo l’insano desiderio che mi animava. Serrai gli occhi cercando di allontanare quella che ormai era divenuta una devastante voglia, senza sortire però l’effetto sperato.
    Un leggiadro rumore di passi richiamò la mia attenzione, facendomi schiudere le palpebre; mi voltai in direzione di una porta che sulle prime non avevo notato, rivelando il profilo indistinto e sfocato di qualcuno che, a passi lenti e moderati, avanzava verso di me. Nonostante la penombra che regnava nella camera, riuscii distintamente a guardarlo in volto, storcendo la bocca in una smorfia di disgusto. Rammentavo solo adesso ciò che mi era realmente accaduto. Io ero morto. O, almeno, la mia non poteva più esser considerata vita. E tutto a causa della creatura che mi ritrovavo a fissare in questo momento, quel mostro che un tempo avevo chiamato padre.
    Senza fiatare, lui provò ad allungare un braccio verso di me, come se volesse accarezzarmi una guancia o i capelli con dolcezza, ma, ringhiando come un cane, snudai quelle zanne che prima mi avevano ferito, minacciandolo con un brontolio sommesso che si innalzò dal fondo della mia gola. Non fece una piega, restando immobile ad osservarmi saccentemente con quei suoi occhi ambrati così simili ai miei prima di ravvivarsi i capelli all’indietro, sistemandosi anche l’occhiello. «Non dovresti agitarti tanto, Edward», mi disse con voce eloquente, e una febbrile voglia di aggredirlo sfrecciò come un dardo nel mio stomaco.
    Le mie zanne palpitarono per un motivo a me sconosciuto, le mie mani artigliarono convulsamente le lenzuola nere nel tentativo di dar un freno alla mia inarticolata vendetta. Volevo strappargli il cuore dal petto. Volevo affondare i canini nella sua carne fino a dissanguarlo. Era stato lui a farmi diventare così, e allora sarei stato la sua rovina. Come una belva incatenata e rimasta senza cibo a lungo, mi avventai contro di lui con i canini ben in mostra, riuscendo a sentire la sensazione dei miei occhi dilatati e neri come due pezzi di carbone; ma ancor prima che potessi scalfirlo, lui mi rigettò all’indietro sul materasso, poggiandomi una mano di pietra sul petto e mozzandomi il respiro, premendo sempre più forte mentre i miei polmoni invocavano come impazziti aria. 
    Gli artigliai il braccio, incidendo profondi solchi nella sua carne nel tentativo di fargli allentare la presa, incrociando quelle fervide iridi che, senza espressione, mi osservavano. Annaspai come se un peso mi si fosse posato sullo stomaco, provando ancora e ancora a liberarmi, ma smisi ben presto di lottare, lasciando ricadere le braccia sulle lenzuola, immobili. E solo a quel punto mi lasciò andare.
    Respirai così veloce e in modo irregolare, dilatando e comprimendo i polmoni, che rischiai di andare in iper-ventilazione, boccheggiando e provando nel contempo a non distogliere lo sguardo dal suo volto diafano e scialbo. Avevo anch’io il colore della morte? Anche il mio viso sarebbe rimasto immutato perennemente? Seppur a molti la prospettiva della lunga vita e della giovinezza eterna sarebbe apparsa allettante, io non la pensavo affatto così. Lo consideravo un castigo senza fine. E a questo pensavo mentre, disteso parzialmente su quel materasso, lo osservavo sistemarsi distrattamente e con fare non curante quegli abiti di una foggia ancor più antica di quelli che era solito indossare.
    Mi guardò con distacco, le sue zanne lampeggiarono appena fra le sue labbra. «Non bramare la morte, ora che ti ho donato la vita», la sua voce parve lontana, vellutata come seta, tagliente come una lama. «Accettalo, così come ha fatto tuo fratello».
    Dilatai gli occhi per la sorpresa. Aveva riservato anche ad Alphonse quella sporca vita? Che razza di padre avrebbe mai condannato i suoi figli a ridursi arrancanti nel buio, a sottrarre vita e sangue agli uomini per non perire? Solo... un vampiro. Una creatura la cui esistenza si basava soltanto sulle menzogne e sul sangue.
    Mi toccai il collo inconsciamente, convinto di trovarvi ancora i segni profondi che, nel mordermi, avevano lasciato i suoi canini; però, con mia grande sorpresa, non trovai nulla, come se si fossero già rimarginati. Lanciai un’occhiata interrogativa a mio padre, vedendolo stirare appena le labbra in un sorriso, avendo però l’accortezza di non mostrarmi le zanne. Ricambiai il sorriso con un ringhio rauco e profondo, assottigliando lo sguardo.
    «Dov’è Alphonse, ora», la mia non suonò come una domanda, bensì come un ordine cui esigevo risposta. Quel sorriso beffardo e sardonico si accentuò, e lui mi offrì appena la sua mano per aiutarmi a rimettermi in piedi. La, ignorai scansandola di malo modo e provvedendo da me. «Dov’è», ripetei, sfidandolo con lo sguardo.
    Intorno a noi l’aria si concentrò come se ci trovassimo nell’occhio di un ciclone, quasi mi parve che tutto stesse trattenendo il respiro in attesa della sua voce. Una sgradevole sensazione mi investì in pieno, accompagnata da una corrente satura di zolfo, il cui odore bastò a farmi quasi sentire nuovamente male, ma passò ben presto, e mi ritrovai ad osservare i suoi occhi completamente vuoti.
    «Non devi preoccuparti di lui, adesso», mi intimò, la sua voce possente parve rimbalzare contro le pareti del mio cranio. «Ha ripreso conoscenza tre giorni fa».
    «Non è questa la domanda che vi ho posto, padre», continuai testardo, enfatizzando con disprezzo l’appellativo. «Voglio sapere dov’è mio fratello».
    «Tutto a tempo debito», ribadì con calma, e l’odore che sentivo nell’aria divenne mieloso e denso, quasi dolciastro di fiori. Provai ancora una volta a replicare, ma un suo sguardo di ghiaccio mi costrinse a restar muto. Nessun essere umano avrebbe potuto rivolgere un simile sguardo ad un altro. Sembrava che in quelle iridi dorate ci fosse dipinto l’Inferno, l’Inferno dove io stesso ero caduto risucchiato dalle fiamme, e dove nessuna mano, mortale o divina che fosse, avrebbe potuto salvarmi. Ero stato condannato alla dannazione eterna. Io, il cui unico peccato era stato amare più della mia stessa vita un ragazzo inglese, ero adesso perduto in un labirinto senza uscita.
    Mi si strinse maggiormente il cuore al pensiero che non avrei più potuto rivederlo, e, a pensarci bene, se anche avessi potuto incontrarlo... mi avrebbe accettato? Mi avrebbe ancora amato come un tempo? L’unico modo per saperlo era accertarmene, ma avevo il timore di scoprire ciò che avrebbe pensato.
    A ridestarmi dai miei pensieri furono i passi leggeri, ma al contempo terribilmente rumorosi, di quel vampiro che non avrei mai più voluto chiamare padre, che si stava tranquillamente avviando verso la soglia della camera. Una bizzarra consapevolezza negativa si impossessò di me, mentre osservavo la sua schiena. Non capivo purtroppo cosa potesse significare. Mi ritrovai a deglutire senza una vera ragione, tentando frattanto di rimettermi quanto meno in piedi. Ricevetti un suo sguardo, distante come gli altri che mi aveva rivolto, e anche l’aria sembrò gelarsi all’improvviso.
    «Tu non ti muovi di qui, Edward», mi ordinò, afferrando la maniglia con la sinistra. «Non posso rischiare che ti accada qualcosa. Sei una risorsa troppo preziosa, per me».
    Restai a fissarlo allibito, cercando di assimilare le sue parole inutilmente, però non avevo comunque intenzione di ubbidirgli. Non potevo di certo sperare di avere una vita normale giunti a quel punto, ma... «Non puoi trattarmi come se fossi il tuo cane», sbottai, e intorno a me sembrò che l’aria si stesse comprimendo prima di un’esplosione. Nemmeno aspettai che replicasse, mi alzai in piedi e feci esitante qualche passo avanti, provando a rendere stabili le mie gambe. Seppur a fatica, riuscivo a camminare. Quante possibilità avevo, di attaccarlo e scappare?
    «Non puoi distruggermi», mi disse pacato, come se mi avesse letto nel pensiero, e il mio sguardo confuso si fermò sul suo volto. «Ora resta qui, ho una faccenda in sospeso». Scomparve con l’eco di quelle parole prima ancora che potessi dire o fare qualcosa, lasciando solo un intenso odore di fiori e una leggera nebbiolina bianca che si disperse come fumo.
    Sulle prime non capii cosa volesse intendere, ma pian piano rammentai le ultime parole che avevo udito uscire dalle sue labbra, prima che mi mordesse e cadessi in quello stato d’incoscienza per chissà quanto tempo. Doveva togliere di mezzo un ostacolo... ancor prima che potessi pensarlo le mie gambe si mossero fulminee seguendo la scia di quell’odore attraverso i corridoi del nostro maniero fino all’entrata, il mio sguardo osservava frenetico i dintorni cercando la sua figura, invano. Era come sparito. E anche se era buio, riuscivo distintamente a focalizzare ogni minimo dettaglio del paesaggio, ogni rumore, ogni presenza... ma non la sua. Solo un leggero sentore di fiori e ruggine. Quell’odore che avevo seguito poco prima in quella camera e che avevo seguito.
    Corsi fra gli alberi fiutandolo fino in fondo ai polmoni, avvertendo il crepitio di un temporale nella volta celeste sopra di me come se lo stessi toccando a pelle, con la pioggia che poco dopo ricadde bagnandomi il capo; ma continuai a correre più veloce che potei, una sagoma indistinta in quel buio fitto che mi risucchiava e in cui rami d’alberi e acqua scrosciante si curvavano e abbattevano furenti, attutendo ogni rumore. Pregai Dio che arrivassi in tempo, seppur sapessi che ormai, una creatura dannata come lo ero io, non potesse più essere ascoltata. Pregai e pregai pur non riuscendo più a formulare un pensiero coerente mentre la parte debole di me supplicava di fermarmi a riprendere fiato. Pregai persino me stesso e il mio corpo nella speranza che non mi abbandonasse proprio quando ce n’era più bisogno, ma fu tutto inutile. Pur avendo seguito la scia, arrivai troppo tardi.
    Lui giaceva quasi completamente immobile in una pozza nerastra di sangue, attirato in quella radura da chissà quale subdolo trucco; i suoi lunghi capelli neri, sparsi sul terreno bagnato dalla pioggia, si confondevano fra quella scura macchia vermiglia, incorniciando il suo volto diafano. Respirava, certo, ma con fatica. Il petto si alzava e si abbassava a ritmi sempre più irregolari, mentre vedevo la sua mano artigliare convulsamente la terra, forse nel vano tentativo di restare aggrappato alla vita. Poco distante da lui, quel bastardo che l’aveva ferito a morte. Mio padre.
    Qualcosa, dentro di me, andò in frantumi, a quella scena. Il dolore aveva lasciato spazio ad una furia cieca, tutto il mio corpo tremava, instabile di scosse d’energia negativa. «Cosa gli hai fatto, bastardo!» ringhiai furioso, e a farmi da eco ci fu il rombo d’un tuono prima che un fulmine squarciasse il cielo nero.
    Un movimento, appena un batter delle mie ciglia e quasi mi parve che lo scrosciare della pioggia aumentasse, che le foglie si staccassero dai rami sopra di noi mulinando frenetiche, infittendo e nascondendo quasi tutto alla vista. Guardandomi parzialmente, inespressivo come non mai, mio padre si avvicinò appena, ed entrambi ci squadrammo a zanne snudate, con il cielo che ruggiva affannoso lacrimando senza sosta. Il sangue di Roy gli macchiava le labbra, nemmeno si era curato di ripulirle, forse per mostrarmi ciò che lui aveva fatto e ciò che, se non gli avessi obbedito, avrebbe potuto fare a me. Ma cosa c’era di peggio dell’esser condannati all’eterno oblio?
    Uno spostamento d’aria, un balzo fulmineo; il tronco d’uno degli alberi della foresta andò completamente in frantumi schizzando fra noi in una pioggia di corteccia, mentre fulmini si abbattevano senza pietà poco lontani da noi, quasi mandando a fuoco la vegetazione. Ebbi solo il tempo di vedere il lampo d’oro dei suoi occhi prima che il mondo ridiventasse buio e la schiena mi si piegasse all’indietro, mozzandomi il fiato. Andai a sbattere contro qualcosa, e solo in seguito mi accorsi che era una roccia. Dei passi, il respiro gelido e sommesso di qualcuno che si avvicinava mescolato con un altro ansimante e basso, una mano di ghiaccio che mi spostava appena i capelli dal viso.
    «Cerca di stare al tuo posto, Edward», mi sussurrò la sua voce all’orecchio, e quando aprii debolmente gli occhi per incrociare il suo sguardo, ebbi solo un fuggevole assaggio del suo volto prima che sparisse, lasciandomi da solo con lui, morente su quel terreno macchiato del suo stesso sangue.
    Da me sfumò via qualsiasi sentimento come se fosse fluito via simile ad un fiume, restò solo la terrificante consapevolezza che lui stava morendo.


    Mi avvicinai a passi ,alfermi, lasciandomi cadere in ginocchio con gli occhi dilatati senza riuscire a dire una sola parola. E mi sentii ancor più male quando Roy cercò con lo sguardo il mio volto, sorridendomi tirato una volta esserci riuscito.
    «Ti... aspettavo», sussurrò a spezzoni, boccheggiando, con voce talmente bassa che sarebbe risultata inudibile ad altri. «Era da tanto che non... ti vedevo». Alzò piano un braccio per provare a sfiorarmi una guancia con la mano, ma non riuscendoci fui io ad afferrargliela, stringendola forte e portandomi il dorso alle labbra, premendolo contro di esse. E a quel tocco sussultò appena, senza abbandonare il sorriso stentato. «Come sei... freddo», provò a scherzare, annaspando alla ricerca d’aria, mentre intorno a noi continuava incessantemente a piovere. «O forse sono io ad... esserlo».
    Tentavo a mia volta di dire qualcosa, di razionalizzare ogni mio pensiero, ma davvero non riuscivo a spiccicar parola per quanto ci provassi. Non volevo vederlo morire davanti ai miei occhi, e mi rifiutavo di credere che avrebbe potuto.
    «Sei ancor più... bello», mi richiamò la sua voce strascicata, costringendomi a fare i conti con la realtà. «Hai come qualcosa di... diverso», le labbra, di solito rosee e piene, erano adesso livide e sottili. «La morte rende tutto... più bello».
    Forse fu quel pizzico di umanità rimasta in me a permettermi di farlo, non seppi dirlo con certezza, ftto sta che lo strinsi forte a me, piangendo. L’odore del suo sangue, mescolato a quello salato delle mie lacrime e all’umidità del terreno, mi stavano facendo impazzire, ma era la sofferenza a straziarmi il cuore, strappandomelo dal petto. Non c’era spazio per null’altro se non per il dolore.
    Debole, la sua mano si poggiò sulla mia schiena, stringendomi in un moto convulso la stoffa della camicia esageratamente leggera che indossavo, fradicia di pioggia. Il colorito che aveva assunto la sua pelle stonava di gran lunga con l’ebano dei suoi capelli, resi ancor più scuri dall’acqua scrosciante. La vita lo stava abbandonando lentamente, e in quel momento mi sentii sul punto di raggiungerlo. «Ed...» mormorò in un soffio ormai ben udibile alle mie orecchie.
    Con le lacrime che mi rigavano il volto, lavate subito via dalla pioggia, mi allontanai un po’ da lui per poterlo guardare in viso, trovandolo ancora sorridente, come se non si rendesse conto di ciò che stava accadendo. Ma mi sforzai a mia volta di sorridere nel tentativo di rassicurarlo, e nel far questo, purtroppo, scoprii le zanne.
    Dapprima lui le osservò, confuso per quanto potesse, poi, sputando sangue, alzò una mano quel tanto che bastava per sfiorarmi con due dita le labbra, lasciando ricadere subito dopo entrambe le braccia sul terreno. «Avevo ragione», mormorò, con voce rauca, ma in tono esageratamente dolce. «Sei... bellissimo».
    Mi sfuggì un singhiozzo che tentai di camuffare in una specie di risatina isterica. Più un lamento che altro, in realtà. Gli scostai i capelli dal viso, chinandomi appena per baciargli delicatamente la fronte, e scorsi sul suo collo i solchi profondi di due canini, non troppo per trasformarlo, ma abbastanza per riuscire ad ucciderlo. Con due dita li sfiorai appena, sentendolo trattenere un fremito. Se avessi provato io, a morderlo, cosa sarebbe accaduto? L’avrei salvato o... sarei solo stato capace di finirlo?
    Schiusi le labbra e snudai maggiormente le zanne, senza avere però il coraggio di affondarle nel suo collo, proprio al di sopra dell’arteria. A quanto sembrava ero ancora un po’ umano. Mi limitai quindi ad accarezzargli spasmodicamente i capelli, con i canini che ancora facevano capolino dalla mia bocca. Il suo respiro, frattanto, diminuiva.
    Mi fissò negli occhi con i suoi velati di morte, difficile dire che quelle che rigavano anche il suo volto fossero lacrime o soltanto pioggia. Sorrise appena, con trasognata dolcezza. «Tu... mi ami?» mi chiese d’improvviso, le mani pallide e fredde che cercavano di toccarmi, come per volermi sentire vicino.
    Un groppo mi strinse la gola mentre sentivo il suo respiro scemare sempre di più, il suo petto alzarsi e abbassarsi a ritmi sempre più lenti e irregolari. Mi sforzai di sorridergli, il labbro inferiore scosso da un fremito incontrollato. «Le parole non basterebbero per dirti quanto», riuscii a dire con voce strozzata e resa rauca dai singhiozzi instabili che mi scuotevano, riprendendo lento ad accarezzargli una guancia senza che potessi almeno donargli un po’ di calore. Ero gelido quanto lui, se non di più.
    Con un po’ di sforzo, Roy mi afferrò la mano libera con la sua, debolmente ma abbastanza forte. Sembrava non volesse lasciarla andare. «Non sarei potuto essere più... felice», sussurrò, abbassando lentamente le palpebre. Per qualche secondo smise di respirare.
    Strinsi più forte la sua mano, mordendomi con furia il labbro inferiore. Temevo ciò che la mia mente aveva appena formulato. Tale pensiero mi straziava quell’infimo cuore che possedevo, ma un annaspare mi richiamò immediatamente, facendomi quasi trasalire. Gli occhi di Roy erano ancora chiusi, ma boccheggiava, come se stesse guadando un corso d’acqua, quasi stesse annegando.
    Storcendo il viso in una smorfia di rinnovato dolore, emise un lamento. Lungo, lugubre. E, se possibile, impallidii quando vidi quella scena: fra le sue labbra schiuse facevano capolino l’accenno di zanne. Piccole, minute. Come quelle d’un cucciolo. Serrò le palpebre, agitandosi fra le mie braccia. «Fa caldo», si lamentò con un fremito sofferente. «Fa troppo caldo... il fuoco».
    Era straziante assistere a quella scena. Il dolore che vedevo impresso sui suoi lineamenti era estenuante.
    Cominciò a respirare a fatica e a sserrare la mia mano in una morsa, forse nel vano tentativo di cercare un appiglio a ciò che stava imperversando dentro di lui in quel momento. «Perché la pioggia non lo spegne», riprese ancora, lasciandosi sfuggire un gemito maggiore mentre rivoletti d’acqua gli incorniciavano il viso, incollandogli i capelli alla fronte.
    Il freddo intorno a noi quasi non si sentiva più. C’era solo lui in preda alle fiamme, e io potevo solo stare ad assistere. D’un tratto riaprì gli occhi, fissandomi intensamente. Due scuri pozzi d’onice. Un cielo notturno senza luna. Ecco a cosa somigliavano in quel momento le sue polle d’antracite.
    Annaspando ancora, arricciò il naso, come un cane che si prepara all’attacco. La bocca si spalancò famelica, senza che avesse però i mezzi necessari per placare la sua sete. «Ed...» mi chiamò con voce incrinata da quello che poteva essere pianto, mentre la mano, sempre più forte, sembrava quasi sul punto di spezzare le ossa della mia. «Cosa... cosa mi succe-...»
    Ignorando la presa, mi limitai solo a stringerlo a me, ignaro di ciò che avrei dovuto fare in quel momento. Se l’avessi saputo, forse, sarei riuscito a salvarlo. «Va tutto bene», provai, ben conscio però che nulla andava bene.
    Lo vidi serrare la mascella, come se stesse cercando di contenere un dolore ben maggiore di quello che stava provando, e ad un certo punto ringhiò, voltando la testa verso il terreno. Nuvolette di vapore si condensavano ad ogni suo respiro irregolare, divenendo nebbiolina bianca qualche frazione di secondo dopo. «Ho... paura», mormorò ancora, e sentii, come se mi trovassi con l’orecchio al suo petto, la fremente pulsazione del suo cuore che pompava veloce. I battiti divennero dapprima lenti, poi rapidi, susseguendosi così per attimi che mi parvero infiniti.
    Un altro suo veloce sguardo, ancora quegli occhi privi del barlume di vita che mi osservavano. Quelle piccole zanne, che ormai facevano capolino fra le sue labbra, sembravano quasi risplendere di luce propria, in quel mondo nero e senza stelle. «Perché non me l’hai mai detto», mi domandò, aggrappato con quelle poche forze a quella scintilla di lucidità che il dolore non gli aveva portato via.
    Capii cosa volesse intendere immediatamente. Quello che ero, quello che gli stavo mostrando, e quello che, senza ragione alcuna, sembrava star capitando anche a lui. Gli accarezzai una guancia, sentendo l’altra mano ormai intorpidita. «Non ne ero a conoscenza nemmeno io», gli confessai, vedendo le sue sopracciglia appena corrugate, come se continuasse ancora a resistere alla sofferenza.
    Si sforzò di sorridere, un rivolo di pioggia gli accarezzò lento le labbra. «Me lo avresti... detto?»
    Ancora un quesito, ancora una conferma, e nemmeno persi tempo, a rispondere. «Saresti stato il primo a cui lo avrei raccontato», lo rassicurai, nel vano tentativo di calmarlo. Si stava agitando, lo sentivo dal battito insistente del suo cuore. La risposta, però, parve bastargli, perché annuì stancamente, respirando a grandi boccate.
    Abbassò e rialzò le palpebre, rendendo quegli oscuri oblii quasi lucidi. Vi lampeggiò appena una nota simile alla follia quando si fusero con i miei. Le zanne fra le sue labbra palpitavano. «Sto male», berciò con voce rotta, annaspante. «Quest’odore mi fa... star male».
    Ben capivo a cosa si riferisse. Era il suo sangue quello che stava sentendo. Cercai di riportarlo alla quiete, cominciando ad accarezzargli i lunghi capelli fradici di pioggia. Senza fiatare, mi chinai su di lui per rubargli un bacio al sapore di ruggine e umidità. Non cercò la mia lingua né rispose, si limitò solo a stuzzicarmi con le neo nate zanne il labbro inferiore, con un lascivo desiderio che non gli avevo mai sentito. Quando mi guardò negli occhi, potei scorgere il tormentato bisogno di sopprimere la sete.
    Mi sentii strano, sotto quello sguardo. Sembravano gli occhi con cui un serpente osservava la sua preda, però mi feci coraggio, mostrandogli il collo senza che ne capissi il perché. Se fosse servito, gli avrei donato tutto il sangue di cui necessitava per sopravvivere.
    Restio dal farlo, però, si limitò solo ad avvicinarsi piano a me, inebriandosi del mio odore che si confondeva sinuosamente con quello della pioggia, della vegetazione, e del suo sangue. I suoi canini mi sfiorarono la pelle, il suo respiro gelido me la solleticava. «Ti amo», sussurro, forse quasi inconsciamente.
    Attesi ad occhi chiusi, ma qualcosa sferzò l’aria intorno a noi. Non un fulmine, non un tuono, bensì il rombo d’un colpo. Non riuscii nemmeno a rendermene pienamente conto, sentendo solo la presa della sua mano farsi più debole e cadere inerte al suolo bagnato. Spalancai le palpebre, incapace di crederci. Era tornato. Mio padre era tornato per completare la sua opera di distruzione, e fissò entrambi senza emettere fiato, impassibile sotto la fitta pioggia che cadeva.
    Incredulo, ritornai a guardare il volto di Roy. Le palpebre abbassate, le labbra serrate in una linea sottile... non riuscivo a sentire più nemmeno il battito del suo cuore, poiché qualcosa, forse un proiettile, gli aveva perforato il petto. Le lacrime mi offuscavano l’orlo delle ciglia, impedendomi di focalizzare il paesaggio che ci circondava e il suo volto, sul quale la pioggia continuava a battere insistente.
    Gli accarezzai le palpebre con delicatezza, con un leggero tremore che mi imperversava nel corpo, senza dar peso alla vaga presenta di mio padre. Era... morto. Non potevo pensarci. Non volevo pensarci. Un’eternità senza di lui... e a quei pensieri, investito da una rabbia cieca, ringhiai e a gridai in quella notte buia macchiata di sangue; tutto ciò che avevo intorno fu investito da un’ondata di gelido odio che mi sembrò rimbalzare contro le cortecce degli alberi lì presenti, ferendoli, mandandoli in frantumi. Sperai che nella loro furia colpissero anche quel bastardo che avevo chiamato padre.
    Schizzarono gocce di pioggia e frammenti, turbinando senza sosta come un tornado da me stesso creato, mentre urlavo il suo nome al vento furente che mi sferzava il volto, costringendomi a serrare la mascella e stringere gli occhi, forse nel tentativo di contenere le lacrime, ma intorno a me vigeva il caos. Ogni cosa fluttuava con rabbia mentre continuavo a stringere a me quel corpo immobile, mentre il terreno sul quale ero inginocchiato sembrava inaridirsi come le foglie che mi colpivano, divenendo quasi polvere appena mi sfioravano. E quel terrore di cui erano succubi gli abitanti che popolavano quella foresta non si attenuò fin quando non mi lasciai cadere inerte accanto a lui, sentendo soltanto una mano estranea e gelida posarsi sulla mia spalla per costringermi ad alzarmi.
    Aprendoli lentamente, i miei occhi si abituarono pian piano al paesaggio che mi circondava; sbattei le palpebre e mi guardai intorno, quasi stessi riemergendo dal fondo dell’oceano. Una radura fiocamente illuminata... ah, già. Avevo perso fin troppo tempo a rammentare il passato. Era stata la voce di mio fratello, e la sua mano che mi aveva sfiorato, a farmi ritornare alla realtà. Trassi un profondo respiro, a testa china, prima di voltarmi debolmente verso di lui, squadrandolo con distacco. Mi succedeva spesso, ormai, di perdermi nei ricordi. Soprattutto quando ero a caccia con lui.
    Ricevetti un'occhiata incuriosita da Alphonse, il biondo sopracciglio inarcato accentuava l’aria scettica che gli vedevo dipinta in volto. «Non è da te startene calmo a lungo, mo bhràthair
[2]», la voce suonava tremendamente sarcastica. «Di solito fai scoppiare temporali solo per divertirti».
    Ignorai il suo commento, poggiando la mano sul ramo dov’eravamo entrambi seduti prima di sbuffare impercettibilmente, alzando lo sguardo verso la verde cappa di fogliame sopra di noi. «Se dovevi richiamarmi solo per dirmi questo, sarebbe stato meglio non proferir parola, Alphonse», gli dissi a bassa voce, consapevole che lui avrebbe preso quelle mie parole come una minaccia. Difatti lo sentii muoversi per rimettersi in piedi, come se un brivido freddo gli avesse d’improvviso attraversato la schiena; lo guardai inespressivo, godendo però dell’aria timorosa che si era dipinta sul suo volto.
    «Volevo solo metterti al corrente che stanno uscendo dal maniero», provò a dire con voce distaccata e seria, quasi non riuscendoci. «Il Sindaco sembra anche insicuro, lo fiuto dal suo odore».
    Le mie labbra, a quelle sue parole, si stirarono in un sorriso. Non era il Sindaco ad interessarmi, ma colui che aveva seguito lui e i suoi uomini. Imitando mio fratello, mi rimisi in piedi a mia volta, puntando lo sguardo verso il sottobosco. «Sei convinto di ciò che dici?» gli chiesi in un sussurro che mi sembrò disperdersi nell’aria.
    Lui esitò, forse per il mio tono, poi l’ombra di una piccola risata aleggiò intorno a noi, e l’atmosfera circostante ci avvolse nel suo gelido abbraccio, come fossimo in una coltre di neve. Il sole sopra di noi, alto nel cielo, fortunatamente non poteva nuocerci, nascosti com’eravamo. Alphonse mi rivolse uno sguardo che poteva significare tutto, sorridendo appena a sua volta. «Mai stato così convinto come lo sono adesso», ribattè ridacchiando, distogliendo lo sguardo per puntarlo a sua volta nel bosco.
    «Perfetto, allora», replicai, ritornando a sedermi. «Ti occuperai tu del Sindaco».
    Sentii i suoi occhi ripuntati su di me, quasi curiosi come non mai. «Pensavo fosse compito tuo, questo», mi tenne presente in tono saccente, e lo sentii fare qualche passo verso di me. «Non ti starai ancora opponendo agli ordini, vero?»
    «Sai bene che questi non sono affari che ti riguardano», sbottai immediatamente, voltandomi verso di lui con le sopracciglia aggrottate da una rabbia mal celata, e lui se ne accorse, decidendo d’impulso di fare un piccolo passo indietro.
    «Lo dicevo solo per te», rispose, i suoi occhi verde ambra mi osservarono appena. «Non voglio vederti con una croce d’argento appesa al collo».
    Una risata si levò dalla mia gola senza che me ne accorgessi, ma non stavo ridendo per divertimento o altro, lo facevo solo per evitarmi di alzarmi e azzannare il mio stesso fratello in un impeto di rabbia. «Io gli servo ancora, non mi farà nulla per adesso», lo rassicurai, sorridendo senza entusiasmo. «Il mio unico pensiero, adesso, è quel prete che è con il Sindaco».
    Lui si scostò, sedendosi accanto a me su quel ramo in un movimento così leggiadro che non fece alcun rumore, nemmeno smosse le foglie in precario equilibrio su di esso. «E anche questo non lo comprendo», disse semplicemente, ravvivandosi all’indietro la zazzera bionda dei suoi capelli. «Con tutti gli esseri umani che potresti avere, vuoi proprio un uomo di Dio».
    Risi ancora, quasi divertito dalla sua curiosità, stavolta. Mi portai distrattamente una mano a sistemarmi il colletto della camicia di pizzo e persino il piccolo foulard nero che mi cingeva la gola, inclinando la testa verso di lui nell’imitazione di un bambino innocente, sorridendo falsamente. «Chissà, lui forse sarà in grado di salvare la mia anima», sghignazzai, sentendo un flebile venticello scompigliarmi la lunga coda in cui erano legati i miei capelli. «O forse di condannarla incatenandola ancor di più a quest’Inferno che noi chiamiamo vita».
    La sua espressione non cambiò di una virgola, divenne solo maggiormente distaccata, quasi disgustata. «Non sei affatto spiritoso», sbottò con voce neutra. «Speravo che in trecento anni avresti acquistato almeno un po’ di decente senso dell’umorismo».
    Mi ritrovai a ridere maggiormente, alle sue parole. «Che bisogno ce ne sarebbe stato», replicai fintamente spassoso, sorridendo maggiormente per sbeffeggiarlo. «Ci basti tu».
    «Non prendermi in giro, Edward», mi ammonì raggelando l’aria, ma non potei non sfidarlo con lo sguardo.
    «Altrimenti?» domandai mormorando, schiudendo appena le labbra.
    Sopra di noi, una nuvola carica di pioggia oscurò il sole. Tutto sembrò divenire più cupo e sommesso, il vento che si era alzato faceva vibrare ogni singola fibra degli alberi che si ergevano nella foresta, i cui rami si piegarono sinistramente verso di noi. Persino gli animali che popolavano il sottobosco tacevano, non si avvertiva nemmeno il frullio d’ali o il cinguettio di qualche uccello.
    Sorrisi ancor di più nel vedere l’espressione con cui mio fratello si guardava intorno, quasi timoroso che potessi far qualcosa. Aveva già assaggiato la mia ira, una volta.  Sapeva benissimo di cosa ero capace quando perdevo la pazienza, e anche se non mancava mai l’occasione che mi provocasse, gli incutevo paura. Non quanto nostro padre, certo, ma abbastanza.
    Quando non riuscì più a sostenere l’abisso dei miei occhi, distolse lo sguardo, deglutendo vistosamente. «Non voglio darti battaglia, mo bhràthair», mi disse sottovoce, deglutendo ancora una volta. «Cercavo solo di capire perché ti ostinassi tanto per un misero umano».
    Con un movimento leggiadro, mi scostai non curante la lunga coda che mi era ricaduta su una spalla, alzandomi lentamente in piedi per sfiorargli appena il petto e avvicinarmi al suo orecchio. «Lo capirai presto», sussurrai mieloso e vellutato, sentendolo irrigidirsi appena. «Molto presto, mio caro Alphonse».
    Mi guardò con un’espressione che sfociò nel panico, ma si arrischiò a sollevare le labbra in un isterico sorriso tirato. «Avevo come la netta sensazione che avresti risposto così», bisbigliò, facendo un piccolo passo indietro per allontanarsi da me. Prima che potesse aggiungere altro, però, le sue orecchie si fecero attente e si drizzatono come quelle di un cane, e subito si voltò in direzione del rumore che aveva avvertito nell’aria.
    Sentii a mia volta un fruscio fra la vegetazione del sottobosco, e guardai in giù imitandolo, stirando maggiormente le labbra in un sorriso quando i miei occhi si fermarono sulla figura agile e scattante di colui che mi interessava. Era più grande di quanto lo ricordassi, ma pur sempre bello. I suoi corti capelli d’ebano si muovevano appena al lieve vento che investiva il bosco, mentre avanzava fra le radici nodose degli alberi parlando sottovoce come per non farsi sentire dagli altri uomini con colui che sarebbe dovuto essere il nostro obiettivo principale, ma come avevo detto pocanzi a mio fratello, per me era insignificante. Mi interessava solo lui.
    La morte ci aveva tenuti lontani per trecento anni e, adesso che l’avevo ritrovato, non volevo più che mi fosse strappato via dalle mani. Me ne infischiavo persino di ciò che avrebbe pensato quel bastardo di mio padre. Sarebbe stato ancora una volta al mio fianco, almeno in quella che adesso era la morte. E qualsiasi cosa fosse accaduta d’ora in poi, sarebbe solo stata il principio.













_Note inconcludenti dell'autrice
Bene, adesso credo che si sia più o meno capito tutto il passato che ruota intorno ai personaggi di questa bizzarra storia che ho creato.
Ciò che fin'ora avete letto altro non era che un ricordo di Edward, a caccia con il fratello Alphonse. E, se ben ci fate caso, la chiusura della shot riporta al capitolo tre de “Il bacio del vampiro”, quando tengono sott'occhio Roy e gli altri a loro insaputa. Per essere precisi, è il momento prima che Alphonse chieda ad Edward se è veramente Roy quello che vuole.
Vi siete trovati davanti ad un Edward totalmente impreparato a ciò che gli succedeva, un Edward appena rinato sottoforma di vampiro, e gli avvenimenti qui raccontati sono quelli accaduti trecento anni prima da quelli che avete letto nella storia a capitoli, e quindi alcune cose lì solo accennate ho fatto in modo di renderle maggiormente chiare in questa storia.
Ultime note veloci prima di chiudere. Anche stavolta ho utilizzato una canzone degli HIM [His Infernal Majesty], più precisamente Soul on Fire.




[1] Noi siamo come la morte apparente
Sacrificando tutto quello che abbiamo
Per un cuore ghiacciato e un'anima in fiamme
Noi siamo come la morte apparente
Desiderando ardentemente la libertà
Con un cuore ghiacciato e un'anima in fiamme

[2] Fratello mio [ Gaelico scozzese ]



_My Pride_


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
  
Leggi le 16 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Full Metal Alchemist / Vai alla pagina dell'autore: My Pride