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Autore: rainbowdasharp    16/08/2017    1 recensioni
"Aveva letto un milione di teorie, riguardo la sua scrittura: “un poeta”, lo definivano e Leo davvero non capiva – un poeta di cosa, della sovversione? Della ribellione silenziosa a cui si era condannato?"
| leotsu (e presenza di altre coppie, seppur accennate), soulmate!au |
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Leo Tsukinaga, Tsukasa Suou, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1: Luna nuova
 



“La luce vanitosa della luna fendeva la mia pelle peggio di spade affilate. Era riuscita lentamente a farsi strada tra le nubi scure e minacciose, ma ne risultava malata e piena di un orgoglio che la gonfiava, un orgoglio immeritato – quasi quello splendore fosse merito suo e non del Sole.”

 

Febbraio era un mese strano: Leo aveva la sensazione che l'aria avesse già cambiato odore, come se un leggero anticipo di primavera aleggiasse già persino a quell'ora di sera, quando la notte era ormai calata – eppure, era ancora freddo abbastanza perché nascondesse persino il naso sotto la sciarpa di lana pesante e si riparasse le mani nelle tasche del giaccone lungo (… perché aveva un giaccone lungo? Era già abbastanza basso senza qualcosa che lo facesse sembrare ancora più corto, dopotutto). Finì di percorrere gli ultimi metri che lo separavano dalla porta della casa dei suoi genitori ed esitò, nel suonare il citofono, neanche fosse un estraneo.

Ruka, a differenza sua, viveva ancora a casa con i loro genitori; si era trasferito non appena aveva concluso gli studi, trovando un piccolo appartamento non troppo lontano dal centro, in una zona tranquilla – tornare là dentro, consapevole che sua madre e suo padre erano partiti per una settimana verso luoghi più caldi (sua madre gliel'aveva detto... ? Forse Ruka, ma proprio non ricordava la destinazione del loro viaggio) e che al loro posto avrebbe trovato una massa di ragazzi scalmanati, quando tutto quello che voleva era un piumone sotto cui appallottolarsi...

La luce del citofono con telecamera lo accecò, quasi, non appena premette il pulsante; dall'altra parte dell'apparecchio, non arrivò neanche risposta: la porta si aprì subito e per quanto fosse decisamente comodo, nonché rassicurante, Leo si chiese se davvero tutta questa tecnologia non stesse meccanizzando il mondo più di quanto non lo fosse.

La casa era—più calda di quanto ricordasse: le pareti del corridoio erano state ricoperte da foto sue e di Ruka, forse sotto insistenza della sorella minore, racchiuse in cornici grandi e disordinate, un po' come era la loro famiglia.

Ma non ebbe molto tempo per soffermarvici su: in un attimo, si ritrovò letteralmente assalito da Ruka, che non si era limitata a gettargli le braccia al collo, ma si era aggrappata a lui con tutto il suo corpo, incrociando persino le gambe dietro la sua schiena, come un piccolo koala. Era normale, dopotutto... non si vedevano da Natale, quando lo aveva trascinato di peso a casa a festeggiare con i parenti. Leo la strinse forte, attento a non scompigliarle i capelli che la ragazza si era acconciata con una certa cura e la tenne in braccio il più a lungo possibile, dandole persino un bacio leggero sul naso.

«Sei uno scemo» fu il suo saluto, anche se pronunciato con un sorriso sollevato sulle labbra; aveva pensato che non sarebbe andato, nonostante quanto detto... ? «Ma sono contenta che tu sia venuto». Lo lasciò andare solo in quel momento e, appena posato piede a terra, si affrettò a sistemarsi l'abito bianco che indossava; Leo notò come si era truccata con cura (Ruka? Che si truccava? Ma da quando?) e come, in un attimo, dalla sua tenera sorellina che gli faceva gli agguanti dietro la porta di casa, si fosse tramutata in una donna, seppur minuta e dai tratti ancora dolci; il tempo passava così velocemente che soli due mesi l'avevano resa adulta, sicura di sé e spigliata come non l'aveva mai vista prima.

“E io sono ancora qui”.

Dopo avergli fatto togliere la giacca, Ruka lo prese per mano e lo guidò verso il soggiorno, che la ragazza aveva già preparato per l'arrivo degli ospiti: il sofà e le poltrone erano stati spinti verso le pareti, così da lasciare un maggiore spazio al centro della stanza, dove sua sorella aveva sistemato un tavolo basso su cui aveva disposto torri di bicchieri di plastica colorati, bibite (anche alcoliche... Leo avrebbe dovuto tenerla d'occhio) e vassoi pieni di stuzzichini e patatine.

Arrivare in anticipo era stata una buona idea: non solo poteva starsene un po' di tempo da solo con Ruka ma, soprattutto, poteva intanto sgraffignare cibo prima che arrivasse il resto della mandria di mocciosi sconosciuti a spazzolare tutto. Con la scusa di aiutarla a mettere in ordine, poteva--

«Ruka, dove vuoi che sistemi i pasticcini?»

Sulla soglia del soggiorno, c'era un ragazzo, probabilmente della stessa età di Ruka (un compagno di corso? Un amico? Il suo ragazzo?) che teneva tra le mani un vassoio pieno zeppo di dolcetti di ogni tipo. Non avrebbe saputo dire bene perché, ma Leo notò subito una piccola macchia di panna vicino alle sue labbra, come se avesse appena mangiato proprio uno di quei pasticcini (ma da quando notava certi particolari? In uno sconosciuto, poi?!) ma non si fosse accorto di essersi sporcato. Aveva capelli lisci e rossi, dello stesso colore del tramonto, che gli incorniciavano il volto tondo e puerile, dai lineamenti delicati; dei grandi occhi color ametista facevano capolino tra i ciuffi di una frangia elegantemente disordinata, quasi avesse scelto come scompigliarla prima di arrivare. Indossava dei jeans stretti, che gli disegnavano le gambe slanciate, una camicia bianca, con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un gilet di velluto blu, abbottonato del tutto, come... se si volesse mostrare più adulto di quanto non fosse in realtà.

Quando i loro occhi si incrociarono, Leo si sentì improvvisamente nudo – se avesse dovuto mettere quella sensazione su carta, si sarebbe detto colpito in pieno dalla luce della luna. Fu una sensazione al contempo terrificante e bellissima, come se invece di una persona si fosse improvvisamente trovato di fronte lo spettacolo di un'onda anomala in un mare in piena tempesta, pronta ad abbattersi su una scogliera... la scogliera dove si trovava lui.

Il ragazzo sembrò avvertire qualcosa di simile: Leo non si rese conto di fissarlo così intensamente fin quando non notò il leggero tremolio delle sue gambe e di come avesse quasi fatto scivolare il vassoio dalle mani affusolate; pareva quasi avesse smesso di respirare, mentre gli occhi si dilatavano in un'espressione di confusione, sorpresa e...

Paura.

Gemella di quella che sicuramente si poteva leggere sul volto di Leo.

Fu Ruka ad interrompere quel momento che parve durare un'eternità: si pose di fronte al ragazzo, riuscendo a distruggere quel contatto visivo da cui lo scrittore si sentiva scottato, tanto che si voltò dalla parte opposta, dando le spalle allo sconosciuto e alla sorella.

Non ascoltò neanche una parola di quanto si dissero, mentre si portava una mano tremante alla gola improvvisamente secca: aveva bisogno di bere, ne era sicuro – magari di ubriacarsi fino a svenire, sì. Non sembrava una brutta idea dopotutto, non tanto quanto quel dubbio che stava cominciando ad invadergli la mente, insinuandosi con la fluidità di un serpente ma con la potenza di un esercito.

Le parole di Izumi, quelle di pochi mesi prima, le stesse che avevano distrutto ogni fiducia che riponeva nella libertà testarda che si ostinava a perseguire, per pura caparbietà, tornarono a risuonare nella sua testa con una violenza quasi fisica.

«L'ho trovato».

Doveva fuggire – scappare il più lontano possibile. Il panico prese il sopravvento in un attimo, come se il ragazzo di fronte a lui fosse l'umanizzazione del vaso di Pandora il quale, scoprendosi e rivelandosi, aveva liberato tutti i mali del mondo, tenendosi per sé la speranza. Azzardò uno sguardo nella sua direzione, per sincerarsi che Ruka non ci fosse, che non potesse assistere ulteriormente al momento in cui suo fratello si piegava al volere di un destino che non aveva chiesto – per quel breve attimo, si ritrovò ad odiare quel ragazzo.

Rimasero per chissà quanto a fissarsi; Leo non lo sapeva. Non riusciva a muoversi, come se ogni movimento falso avesse potuto decretare la fine di tutto quello che aveva... e poi? Chi sarebbe stato? Chi era Leo Tsukinaga senza la sua scrittura, la sua battaglia, la sua testardaggine? Non poteva succedere così, non lo accettava.

Trovò finalmente il coraggio di inspirare: i loro pensieri sembravano simili, in un certo senso – il pallore sul volto del ragazzo sembrava piuttosto eloquente, così come il leggero passo indietro che azzardò dopo quella che sembrò un'eternità. Un passo, sotto lo sguardo sbigottito del giovane scrittore. Un altro ancora, per addossarsi allo stipite della porta, come se volesse lasciarlo passare: lo stava lasciando scappare?
Non se lo fece ripetere due volte: prima che se ne rendesse conto, aveva abbandonato il soggiorno e si era precipitato verso l'uscita di casa sua, come un qualunque bandito in cerca di nascondiglio – quella casa sembrava improvvisamente una gigantesca prigione mascherata da affetto e familiarità eppure, Leo lo sapeva, se fosse rimasto lì, lui sarebbe scomparso.

Corse per minuti interi, il che potrebbe sembrare scontato per chiunque, ma lui era un intellettuale – l'educazione motoria non era mai stato il suo forte e, dopo gli ultimi mesi passati a scrivere pagine su pagine, piangersi addosso e imprecare contro l'universo, la sua resistenza non si era di certo rinvigorita. Rallentò quando ormai casa sua era distante almeno cinquecento metri; si voltò indietro solo allora, quando la strada sembrava non era più quella della sua vecchia dimora. Fuori era freddo e umido, la strada vuota perché, era ovvio, quella era l'ora di cena. L'ora in cui tutte le famiglie si riunivano coi propri cari intorno alla tavola, parlando del più e del meno – Leo le poteva quasi sentire, quelle chiacchiere leggere; le discussioni, anche, perché in una famiglia solida quelle non mancavano mai e lo sapeva bene, lui, che per tutto il periodo della superiori non aveva fatto altro che essere inquieto, sfiduciato nei confronti di chi lo circondava e che solo lentamente aveva riacquisito un po' di speranza nei confronti di chi lo avvicinava.

Nella fretta di fuggire, aveva dimenticato la giacca a casa di Ruka; si strinse dunque nelle proprie braccia, tentando di scaldarsi da solo mentre, a passo lento, riprendeva la via di casa – come faceva sempre quando troppi pensieri gli vorticavano nella testa, prese a camminare facendo attenzione a non calpestare le fessure tra i mattoncini che componevano il marciapiede: di solito, era abbastanza per permettergli di riordinare un minimo i pensieri, come se prestare attenzione a dove metteva i piedi riuscisse ad indicargli anche la direzione da seguire. Lo faceva quando era in preda al famigerato e temuto blocco dello scrittore, quando era così arrabbiato da dover frenare l'istinto di strappare tutte le sue bozze.

Purtroppo, non era mai servito quando si era sentito solo.

E mai, come quella sera, mentre tornava verso la fermata della metropolitana, si era sentito abbandonato nonostante nessuno lo avesse fatto; guardava passivamente le persone che lo circondavano, chiedendosi se qualcuno si fosse mai posto gli stessi, forse inutili problemi: era possibile vivere rifiutando il proprio destino? Poteva—costruire qualcosa di suo, solo e soltanto suo, da custodire gelosamente? Era uno scrittore, un cantastorie: avrebbe voluto sedersi di fronte a chissà quante persone e narrare di come, stoicamente, aveva combattuto contro il Destino – come un veterano di guerra, voleva alzare la voce, portarsi la mano sul cuore e dichiarare che amava qualcuno perché era stato lui, a deciderlo. Le sensazioni che aveva provato poco prima non erano positive. Leo non era credente, nessuna religione in particolare lo aveva mai affascinato se non per la portata delle loro storie, ma si chiese se fosse così che ci si sentisse al cospetto di un dio: impotenti, soggiogati eppure affascinati di fronte ad un'energia così grande da essere inquantificabile?

Timbrò il suo biglietto della metro, senza più mattonelle da seguire. Pensò di nuovo ai grandi occhi ametista del ragazzo, al suo portamento mite ma galante, al suo modo di vestire così—adulto. Si corrucciò, ripetendosi per l'ennesima volta che non poteva essere, ma se ipoteticamente fosse stato, di certo non avrebbe mai cercato un signor Perfettino del genere.

Aveva avuto solo due relazioni serie, per quanto brevi, prima di allora. L'ultima, quella con Izumi, lo aveva quasi consumato: era un ragazzo schietto, di paroli breve e concise, scostante per quanto volesse nascondere la sua gentilezza. Odiava avere gente intorno, eppure Leo lo aveva trovato un soggetto così interessante, una personalità così anomala da esserne affascinato. Lo trovava bello nel suo caratteraccio, nella sua difficoltà ad ammettere quello che provava; lo aveva trovato bello quando lo aveva quasi respinto al primo bacio ed elettrizzante quando per poco non lo aveva calciato fuori di casa quando si era intrufolato nel suo letto. Era una storia strana, più piena di bassi che di alti, eppure quella turbolenza lo faceva sentire vivo. Aveva creduto di aver trovato un altro ribelle, come lui.

Poi, aveva capito di essersi sbagliato.

Il suo primo amore, invece, se così si poteva chiamare, era... più etereo, che umano. Ripensandoci, forse Leo aveva visto in lui più una musa ispiratrice che un vero e proprio futuro assieme – Eichi Tenshouin era diverso, in grado di incutere timore, riverenza e ammirazione come un arcangelo armato di scudo e spada. Leo aveva scritto i suoi primi libri pensando continuamente a lui: i suoi capelli di un raro biondo pallido, l'espressione mite e il sorriso leggero, come se potesse svanire da un momento all'altro. Lo ricordava, ai tempi delle superiori, chino a leggere i suoi primi scritti all'ombra degli alberi nel giardino scolastico, senza mai scomporsi in una risata di scherno o uno sguardo perplesso. Era stato il primo a prenderlo davvero sul serio, il primo per cui aveva composto un brano così personale che glielo aveva regalato.

«È affascinante come tu sembri un'altra persona quando scrivi, Leo» gli aveva sussurrato, un attimo prima di portare le proprie labbra sul foglio e poggiarvele delicatamente, come a suggellare una muta promessa. Il giovane Tsukinaga di allora aveva pensato che, in quel silenzioso gesto, gli avesse chiesto implicitamente di non smettere mai di narrare.

E così aveva fatto. In un certo senso, nonostante non avesse mai avuto niente più che lunghe conversazioni o momenti di quiete tra loro, quel ragazzo aveva avuto un impatto così forte su di lui che tuttora aleggiava nelle sue storie – era una presenza effimera, la traccia di un passaggio: nel volto di un dio, di una donna crudele e bellissima, di un fratello distante.

Le porte della metro si chiusero davanti al suo sguardo vuoto che si perdeva in pensieri dolorosi in cui non poteva fare a meno di sprofondare; vedeva, oltre il vetro, il riflesso di Izumi che abbassava lo sguardo e scuoteva il capo. Poi ecco Eichi che lo salutava, prima di sparire dopo la sua travagliata vita scolastica. Infine, Ruka col volto in lacrime, perché era riuscito a deluderla ancora una volta.

La voce metallica della metro annunciò la sua fermata; come un automa, il suo corpo proseguì per la ben nota via di casa sua – aveva ancora un po' del riso avanzato del giorno prima, forse addirittura una birra... Il tempo di pensare alla sua cena solitaria ed era a casa. Lasciò scattare le chiavi nella serratura, prima di dare un leggero colpo alla porta per poi chiudersela dietro – vi si abbandonò contro, inerme e spossato, come se la paura e quella sensazione a cui non voleva dare un nome avessero consumato tutte le sue energie. Chiuse gli occhi e, sovrappensiero, iniziò a canticchiare. Non c'erano parole, era un motivetto sconosciuto (forse un lontano ricordo di qualche colonna sonora... ?) ma riuscì a farlo pensare di nuovo alla scogliera su cui si era sentito, esposto e vulnerabile; eppure, con la forza della sua immaginazione, riuscì grazie alla musica a placare quel mare in tempesta, a cantare contro le onde tutta la sua ribellione: “non mi avrete” ripeteva, nella sua mente, “non riuscirete a derubarmi di me stesso”.

Il canto solitario dell'ultimo pirata rimasto.

 



Note: Eccoci finalmente al primo, vero capitolo di questa storia! Ero molto impaziente di metterlo, perché - in primis - è molto più lungo del prologo e contiene almeno il doppio di informazioni; finalmente cominciamo a conoscere Leo, il mio (dico mio perché in questa storia davvero lo sento come una piccola parte di me) pirata, così preso nella sua battaglia da non capire quanto dolore si infligge. Abbiamo Ruka, l'adorata sorellina di Leo che sarà bene o male sempre presente in questa storia e, infine, Tsukasa.
Inizialmente questo capitolo aveva preso tutt'altra piega, meno... angosciosa. Poi la storia mi si è ribellata tra le mani, riprendendo la piega della "tragedia", così simile a quelle di Shakespeare che Leo si forza di vivere lungo tutto questo percorso. Ho scritto questo capitolo a maggio, più o meno, quando l'evento del Checkmate mi ha preso e mi ha fatto male, un po' come tutti gli eventi di Leo e dei Knights in generale. Per questo i primi due amori di Leo sono Eichi e Izumi; sono davvero contenta di averli inseriti qui, nei suoi ricordi (anche se potrebbero tornare più avanti) perché sono un tassello importante nella vita di Leo in Enstars e volevo che lo segnassero profondamente anche in questa AU che con la storia originale ha poco a che fare.
Spero che vi sia piaciuto questo capitolo e ancora grazie per le recensioni! <3
   
 
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