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Autore: nuvolenere_dna    16/08/2017    7 recensioni
[POV multipli di Freezer, Vegeta e Nappa]
Mi trattengo con tutte le mie forze per non ridere.
Lotti con tutte le tue forze per non gridare.
Lo so, mio dolce bambino... l’oscurità non ha mai fine.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Freezer, Nappa, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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pretty capitolo 3
Ma buonaseeeera amici :)
Io, tanto per cambiare, non sono soddisfatta, ma ormai vi sarete abituati. Ci tengo a precisare che scrivere dal punto di vista di Freezer non è per nulla semplice, nel senso che quello che vorrei realizzare, con questa storia, è dare vita ad un’introspezione di Freezer che sia un po’ personale, approfondendo un po’ il personaggio nel tentativo di rimanere comunque IC. Mi intriga molto il suo rapporto con Vegeta e spero di riuscire a fornirne un’interpretazione interessante o comunque godibile. Eventuali contraddizioni logiche fanno parte del personaggio! Mi sono impegnata, fatemi sapere se vi piace!
Questo dovrebbe essere l’ultimo POV di Freezer, perché il prossimo sarà di Nappa e la chiusura+epilogo di Vegeta, se non cambio idea! :)
Ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente e chi ha inserito nelle preferite/seguite! Troppo buoni *arrossisce*!
Un abbraccio caloroso,
Nu :*
 
Pretty When You Cry
 
Capitolo II
[Freezer’s POV]

 
 
Io sono l’Imperatore del Male, Freezer, un maestro del controllo, burattinaio del mio stesso viso, abile stratega nel trattenere severamente le redini degli arti, invulnerabile al sangue caldo che grida e spinge violento nelle vene. Non un movimento in più del necessario, non una smorfia impercettibile devono riflettersi nell’enorme specchio della sala del trono o nelle iridi bagnate di esseri inferiori che non hanno il potere di suscitare la benché minima sensazione dentro di me.
Non può esistere nulla al di fuori della macabra fermezza dei miei occhi, braci congelate dal tempo, granelli di aurora boreale che si staglia luminosa e cangiante nel rigore della tundra.
«Ancora nessuna notizia, Signore. Come dobbiamo procedere?»
La voce cauta di Zarbon sorge alle mie spalle, distorta da un tremito che tradisce la paura di una mia reazione.
Il mio servo mi conosce bene, molto più di quanto avrei dovuto permettergli.
Sospiro profondamente, il disgusto che si espande acido lungo la mia gola nel sentire il cuore accelerare, sgradevolmente pulsante al centro del mio petto, celato dai muscoli gelidi e coriacei.
Volteggio fra le dita il calice di vino che Zarbon mi ha appena versato, smarrendomi ipnotizzato nell’osservare il liquido, lucido e perfetto, di una sfumatura fra il rosso e il viola, danzare prigioniero delle pareti vitree del bicchiere, ogni volta respinto all’indietro.
Anche se lo volesse, nemmeno lui potrebbe fuggire.
Il suo unico destino è di divenire parte di me, carburante del mio stomaco e delle mie membra algide, oppure di decomporsi, inacidendo, divenendo liquame nelle fogne.
Nessun altro lo potrà mai bere. Nessuno potrà mai rubarlo. È mio, soltanto mio, il mio piccolo vezzo personale, la cui intera esistenza acquista un senso solo in funzione della mia.
Irrigidisco il polso, interrompendo la litania di movimenti meccanici.  
«Parti immediatamente per Hagalaz.» ordino, piatto, non spostando lo sguardo di un millimetro dall’enorme vetrata affacciata sullo spazio aperto.
«Come desidera, signore.»
Zarbon si inginocchia brevemente, la treccia scura che sfiora il pavimento candido, per poi dirigersi rapidamente verso l’uscita, preceduto dall’apertura dalle porte automatiche. Il suo sguardo, screziato d’ocra, ossequioso come sempre, non osa neppure cercare il mio.
Non è trascorso neppure un minuto quando noto una delle mie astronavi da ricognizione svettare fra gli astri a tutta velocità, tracciando una linea immaginaria nel cielo stellato che si estende incommensurabile di fronte a me.
Cerco di rilassarmi, abbandonando la schiena contro il trono.
Il bicchiere si frantuma fra le mie dita, cocci di cristallo accarezzano taglienti i miei polpastrelli, arroganti e impotenti. Il vino implode, sporcandomi, sfracellandosi a terra in uno stillicidio che muore nel silenzio.
Dove cazzo sei finito, Vegeta?
 
La porta automatica si spalanca di scatto rivelando Zarbon, trafelato, il volto grazioso increspato in una smorfia turbata. Fra le sue braccia giace il corpo svenuto di Vegeta, l’armatura incrinata, sporca di sangue e di terra. La coda fulva oscilla, non più trattenuta intorno alla vita, piegata dal contatto con il pavimento.
Un brivido mi accoltella la schiena, glaciale e rovente al tempo stesso.
«Esigo delle spiegazioni.» sibilo fra i denti, minaccioso, riducendo gli occhi a capocchie di spillo. Scendo dal trono, levitando a terra, i passi leggiadri nell’ancorarsi al marmo candido.
«Era coperto dalle macerie di un edificio. Non ho rilevato la presenza di nessun altro, probabilmente chi l’ha colpito è rimasto ucciso nell’esplosione oppure è riuscito a scappare.»
Zarbon tace, un sogghigno compare sinuoso fra le sue labbra armoniose, celandosi subito in un’ipocrita smorfia di preoccupazione. Le braccia muscolose si abbassano per scaraventarlo sul pavimento senza troppa delicatezza, come se fosse un cadavere.
«E dimmi Zarbon, quali sono le ragioni per cui un simile evento potrebbe essere accaduto?» incalzo, incrociando le braccia al petto, mentre un sorriso sarcastico mi piega rigido la bocca.
«Come sospettavamo, il suo scouter è stato distrutto. L’ho ritrovato a qualche centinaia di metri dalle rovine. Le analisi che abbiamo effettuato analizzando i dati non corrotti della memoria interna fanno pensare che sia stato disattivato manualmente.»
Manualmente.
Mi avvicino lentamente, lo sguardo rapito dai movimenti impercettibili del petto che si alza e abbassa, respiri radi, faticosi, che non riescono più a riempire i polmoni perforati. L’espressione del suo viso è assente, contratta dal dolore. Sento la sua forza spirituale lottare per non spegnersi, monitorata dallo scouter sul mio occhio che trilla impazzito nel decretare la decrescita costante del suo flebile ki.
Se lo era... tolto?
«Vegeta! Ti ordino di svegliarti immediatamente!» ringhio, colpendolo rabbiosamente con la coda sui fianchi e sulle gambe nel tentativo di farlo rinvenire. Rimane immobile, le palpebre chiuse come scrigni e le labbra appena inumidite dal soffio vitale.
No.
No.
Un senso di repulsione trapassa la mia gola come un bolo di spilli, facendomi deglutire ripetutamente, incredulo nell’osservare la sua debolezza, gli arti esanimi, la miseria che tradisce il suo corpo vuoto, come una conchiglia svuotata dal mare feroce e gettata come un rifiuto sulla battigia.
Percepisco l’ira consumarmi voracemente, divorarmi arida, fondere i circuiti freddi della mia razionalità fino a farmi impazzire. Mi mordo le labbra e stringo i pugni, notando Zarbon indietreggiare leggermente, come se presagisse la tempesta che inizia a scatenarsi dentro di me.
«Fammi capire, Vegeta, ti sei tolto lo scouter e poi sei caduto in una trappola mortale? Ti ha dato di volta il cervello?»
Senza neppure accorgermene la mia coda gli frusta la faccia, un ceffone talmente forte da farlo sussultare in un gemito, il volto contratto in una smorfia di dolore. La sua pelle diafana e pallida si apre sotto la scorza inflessibile della mia appendice, facendo sbocciare nuovi fiori di sangue, quasi fosforescenti fra i lividi scuri delle sue guance.
I suoi occhi sono polvere interstellare, vuoti e traslucidi, come finestre su un’altra dimensione. Si schiudono appena, voragini nere infiammate di porpora, tradite da uno spiraglio di luce che trema fra le ciglia, fra le palpebre incrostate di terra. Mi fissa, muto, mentre il suo corpo arde e trema dal freddo, probabilmente consumato dalla febbre.
Indugio nel guardarlo, taciturno, soppesando il suo volto con un’attenzione maniacale.
Sta cambiando, i lineamenti corrucciati e schivi del bambino che ho portato via con me stanno svanendo, lentamente sostituiti da quelli di un uomo duro, dagli zigomi pronunciati e dalle labbra sottili come un filo d’erba.
Così simili ai suoi... così dannatamente simili a quelli di quell’essere scialbo, amorfo, che odiavo con tutto me stesso.
«Forse pensava di fuggire... ma è stato sfortunato.» la risata di Dodoria giunge spietata dal fondo della sala, seguita dai suoi passi pesanti. Il volto di Zarbon è eclissato da un’ombra sinistra, che scuote i suoi orecchini e fa brillare di malizia le sue pupille dorate.
Le palpebre di Vegeta si richiudono, attratte dall’oblio, seguite dal respiro sempre più affannato, una melodia dissonante sepolta nelle profondità del torace. China il mento sulla spalla, abbandonato al nulla, come se Io non ci fossi.
Come... come osi ignorarmi?
Sotto lo sguardo incredulo dei servi, paralizzati di fronte all’espressione furente che ha lacerato i miei lineamenti fini, afferro Vegeta per il bavero della battle suit e lo sollevo, scaraventandolo brutalmente contro la parete, fino a portare il suo volto all’altezza del mio. Lo strattono con veemenza, macchiandomi la mano nivea con la porpora che io stesso ho versato. Tossisce, singhiozzando, la bocca piena di sangue che risale dalle interiora, commisto a succhi gastrici. I suoi occhi si aprono di nuovo, titubanti dietro le ciglia, lucidi per lo sforzo.
«Questo si chiama tradimento, Vegeta.»
È un soffio impalpabile quello che sfugge dai miei denti e gli sfiora il viso. Sento i lineamenti del volto talmente rigidi per la tensione da vibrare, spasmodicamente contratti nella versione macabra di un sorriso. Mi guarda, svuotato, come se il tempo si fosse fermato per sempre. Mi sento bruciare, ardere fin nelle viscere nel tentativo di controllarmi e non far esplodere tutto, questa astronave, questo stupido pianeta e questi sciocchi sudditi.
La sua forza vitale è scesa vertiginosamente e una risata isterica mi piega le labbra, rimbombando nell’enorme sala vuota. Chi lo avrebbe mai detto che saresti morto nel tentativo di tradirmi e non ucciso dalle mie mani? Non è che l’ennesima dimostrazione della fallibilità della sua razza, superba senza sostanza, arrogante senza potenza sufficiente per vincere, per vivere, neppure per pestare i piedi sul suolo al mio cospetto.
«E tu lo sai... quanto mi piacciono i traditori.» mormoro, gli occhi impregnati di sarcasmo, avvicinandomi così tanto a lui da sentire i brandelli del suo respiro solleticarmi il volto.
«N-No...» biascica, sibilante, abbandonandosi alla mia presa a peso morto, le gambe come propaggini inerti, ammassi di muscoli e di ossa privi di un briciolo di energia.
«No? Valgo così poco per te da non tentare neppure di tradirmi?» lo provoco, sussurrando piano nel lobo del suo orecchio, insoddisfatto dalla sua apatia.
Non mi piaci così, voglio vedere il fuoco ardere nei tuoi occhi, il mento alto, sospinto dalla boria, voglio sentire il tuo desiderio di uccidermi, voglio specchiarmi nella potenza del tuo odio, voglio sentire quanto sono importante per te.
Dillo.
Lo sai cosa voglio che tu dica.
E tutto sarà perdonato...
Nell’ascoltare i miei stessi pensieri un moto di orrore mi rivolta le viscere: ma cosa mi importa di questa scimmia inferiore? Cosa mi può importare delle fesserie che escono dalla bocca di un animale?
Niente, assolutamente niente.
Ma le sue pupille gridano, occhi del ciclone di disgusto e paura che tormenta la sua anima da quando mi ha conosciuto, rancore antico e sempre vivido, splendido al punto da emozionarmi.
Il mio sguardo suadente, un rubino che riluce incastonato nel ghiaccio, lo trapassa, seducendo il nero delle sue iridi, massacrandolo. Muore e risorge, umiliato, vedo il dolore atroce di quel corpo morente che lotta per sopravvivere, vedo il suo odio, puro e distillato, per me, solo per me, vedo tutta la sua ostilità, e un piacere folle mi colma dentro, facendo trepidare ogni molecola del mio corpo.
«Dillo» sillabano le mie labbra, in silenzio, sbranate dai suoi occhi inorriditi.
Tu riesci sempre a farmi eccitare.
I miei lineamenti aggraziati danzano, ossessionati nell’osservare le sue labbra comprimersi e tremare, come rocce sul punto di sgretolarsi, animali che si sbranano fra loro nel tentativo malcelato di rinchiudersi nel silenzio.
Uno spiraglio si apre nella sua bocca severa, una luce sinistra balena ambigua, linfa nera e densa gli cola lungo il mento. Mi sputa addosso un bolo di sangue e di saliva, il volto contorto nell’ombra di un sorriso, disfatto e acre. I denti si scoprono piano, gravi come terremoti che frantumano la terra nelle profondità, zanne levigate e mutilate dalla frustata che gli ha spezzato la mandibola.
Il nero dei suoi occhi riluce minaccioso, simile a quello di una bestia circondata dal fuoco che ringhia fiera mentre sente il calore della morte avvicinarsi inarrestabile.
È per questo che mi piaci così tanto.
Tu sei nato per me, solo per me, per odiarmi con tutte le tue forze.
Questa certezza fornisce carburante per una risata che risale spontanea lungo la mia gola, condensandosi in un sorriso dolce, mellifluo come filo spinato, che si tramuta repentinamente in un ghigno sghembo che mi taglia la faccia.
«Come hai osato, sporco Saiyan, mancare di rispetto a Lord Freezer?» ringhia Zarbon, il volto livido dall’indignazione, scagliandosi su di lui con i pugni serrati, interrotto da un mio lieve cenno del capo.
 «Ti rifiuti di piegarti? Bene, ragazzino, fai come desideri...» dichiaro, di nuovo inespressivo, allontanandomi bruscamente in direzione della vetrata, lasciandolo cadere, il corpo che si sfracella a terra scomposto.
«Oggi mi sento magnanimo, forse hai soltanto bisogno di ricordare quanto hai bisogno di me... il tuo padrone.» dico, gelido, mentre Zarbon abbassa lo sguardo, intimorito dall’aver incrociato il mio.
Torno a godermi, spietato, lo smarrimento delle sue membra ferite, sfibrate dalla perdita di sangue e dalla mancanza di ossigeno. Il suo corpo è imperfetto, rudimentale come potrebbe essere soltanto quello di un Saiyan, ma la sua anima è potente, vigorosa, un’onda che travolge i massi frantumandoli con la sua innocenza.
Continuo a osservare il suo viso, uguale a quello di quella creatura indegna, di quel verme che si faceva chiamare Re, ucciso da una briciola irrisoria del mio enorme potere. Non ha avuto neppure la dignità di combattermi, ricordo ancora i suoi occhi bianchi, ormai rivolti verso l’abisso, la sua collana che roteava sul pavimento, avvinta in un girotondo di morte.
Gli somiglia ogni giorno di più, la barba rada sta iniziando ad adombrargli le mascelle, la voce sempre più profonda, tagliente come una lama che sfreccia sul campo di battaglia, l’espressione del viso austera, impastata nell’acciaio.
No, no, lui non sarà come lui.
Lui sarà come me.
I suoi occhi furenti cercano i miei, sperduti, schegge di stelle infrante trascinate dal vento siderale. Gli sorrido, freddo e irraggiungibile, superando il suo volto per osservare al di là del vetro lo spazio immenso, incommensurabile, dove si estende e pulsa il mio impero.
«Dal momento che rifiuti la mia autorità... immagino che tu non possa abbassarti a utilizzare le mie sporche macchine di rianimazione.» lo derido, un ghigno che squarcia i denti affilati «Mi aspetto che tu sia di nuovo in forze per la missione su Dagaz... ti ricordo che la diserzione è punibile con la morte.»
Noto la corporatura imponente di Nappa insinuarsi dalla porta principale, gli occhi sbarrati dal terrore, ipnotizzati dalla carcassa inerte del suo compagno e gli faccio un cenno sprezzante, incrociando impassibile le braccia dietro la schiena.
«Portalo in una cella di massima sicurezza.»
Il Saiyan solleva fra le braccia il corpo di Vegeta, nuovamente svenuto, e si allontana senza dire una parola.
Riuscirò a educarti nel modo corretto, ne sono certo, non ti ribellerai mai più.
Tu non sei come lui... non sarai mai un verme, un rifiuto, uno scarto che non dovrebbe neppure alzare le ginocchia da terra al mio cospetto. E non morirai, insubordinato, come lui.
Perché sei, ancora, il mio bambino.
Mio.  
E lo sarai per sempre.
 
 
Continua...
  
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