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Autore: Adeia Di Elferas    18/08/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Mordendosi con agitazione crescente l'unghia del pollice, Bianca Giovanna guardò suo marito entrare nel salottino con passo ciondolante e un calice di liquore in mano.

Attese con pazienza che Galeazzo si guardasse in giro, come faceva sempre, e andasse un attimo alla finestra a fissare l'orizzonte gelido e immobile del novembre bobbiese.

Sanseverino non aveva mai condiviso il letto con la sua sposa, soprattutto in riguardo alla sua giovane età, però spesso, di sera, ne cercava la compagnia per scambiare due chiacchiere o giocare a carte.

Anche quella volta, infatti, dopo il suo consueto giro a vuoto per il salottino la cui seconda porta dava sulla camera della moglie, Galeazzo si sedette sulla poltroncina accanto a lei e propose: “Vi andrebbe una bella partita a carte?”

Bianca Giovanna fece segno di sì con la testa, ma non si alzò a prendere il mazzo come faceva di solito.

L'uomo parve non notare quella strana ritrosia, così la giovane prese coraggio e disse quello che desiderava dirgli da giorni: “Voglio tornare a Milano.”

Galeazzo si accigliò, si grattò il mento squadrato e trattenne uno sbadiglio: “E perché?”

Dal tono annoiato del marito, la figlia del Moro capì subito che se lo avesse messo a parte dei suoi sospetti, si sarebbe fatta ridere dietro. Perciò preferì usare una scusa.

“Dopo Natale, Beatrice partorirà. Voglio passare le feste con lei e restare finché il bambino non sarà nato.” disse Bianca Giovanna, tenendo lo sguardo basso.

Il Sanseverino si sistemò sulla poltrona, come intento a pensarci sopra, poi concesse: “Se è quello che volete... In più, questa città non è molto accogliente, in questo periodo dell'anno.”

La giovane Sforza trasse un sospiro di sollievo e, rincuorata, si alzò per prendere le carte. Mentre giocavano, Galeazzo non nominò più Milano e così fece la moglie.

Solo quando decise di ritirarsi per la notte, l'uomo disse: “Partiremo entro settimana prossima, se per voi va bene. Il tempo di avvisare i miei servi a Milano, affinché rinfreschino il palazzo.”

Bianca Giovanna lo ringraziò di cuore e chiamò le sue domestiche in modo che la preparassero per andare a riposare.

Una volta lontano dall'ala in cui stavano gli appartamenti della Sforza, il volto di Sanseverino si rabbuiò. Sentendosi non dissimile da un Giuda qualunque, andò con passo guardingo fino agli alloggi dei fratelli Dal Verme.

Come sempre, li trovò insieme, intenti a discutere fittamente, tanto vicini che quasi si sfioravano, i profili tanto simili da farli sembrare due specchi che si riflettevano l'uno nell'altro.

“La mia signora vuole tornare a Milano.” disse l'uomo, atono.

“Quando?” chiese Francesca.

“Le ho detto che non potremo partire fino a settimana prossima.” spiegò Galeazzo, mentre le iridi scure dei due fratelli lo tenevano sotto controllo.

“Va bene.” sussurrò la Dal Verme: “Vi daremo un paio dei nostri servi, che vi accompagnino durante il viaggio e si occupino di vostra moglie, quando sarete a Milano.”

 

Dopo i giorni che aveva passato assieme alla Contessa, Giovanni aveva cercato di non darle l'impressione di volerla seguire ovunque e a tutti i costi, benché restare con lei il più possibile fosse in realtà il suo più profondo desiderio.

Aveva notato che ella si era fatta molto distaccata, tutto d'improvviso, come se si fosse pentita di aver indugiato così a lungo in sua compagnia nei giorni addietro.

Così, il fiorentino aveva capito l'antifona e si era limitato a scambiare con lei qualche parola quando si incontravano per caso nei corridoi della rocca e in mezzo alla città, sforzandosi di non darle l'impressione che tutti quegli incontri fossero in realtà da lui molto ricercati.

Non aveva nemmeno più presenziato al Consiglio cittadino, per paura che lei pensasse che la volesse in qualche modo controllare.

Giovanni sapeva che ogni passo falso gli sarebbe costato caro, arrivato a quel punto.

Da Firenze erano arrivate notizie poco rassicuranti circa le tensioni con Venezia e c'era il rischio concreto che, se la posizione della Tigre, apparentemente favorevole alla repubblica, fosse giunta alle orecchie del Doge, Forlì e Imola sarebbero finite tra i primi bersagli della Serenissima.

Il Medici aveva già cominciato a prodigarsi con lettere di ogni tipo alle altre città di Romagna, nella speranza di trovare alleati o almeno di non inimicarsi nessuno, ma sempre più spesso leggeva risposte in cui si accennava in modo eloquente al ritorno di Francesco Gonzaga a Venezia. Quello, per molti, era il segno tangibile che sarebbe stata quella, la fazione vincente in caso di guerra.

In più, cosa decisamente assai grave, l'Imperatore era arrivato in quei giorni a Livorno e si era messo a minacciare apertamente Firenze, tanto che la Signoria aveva ingaggiato Vitellozzo Vitelli e Carlo Orsini per contrastarlo e impedire che scoppiasse un conflitto troppo difficile da gestire.

E l'Imperatore era sposato a una Sforza, oltre che essere l'autorità più riconosciuta dal Ducato di Milano. Giovanni non poteva e non doveva dimenticare che Caterina era una milanese. Prestata alla Romagna, forse, ma con un cuore che portava ancora incisa la vipera dei Visconti e l'aquila imperiale.

In questo clima poco disteso, il Popolano poteva almeno rallegrarsi per la ritrovata salute.

Da giorni non aveva più dolori e pareva che il clima umido e nebbioso del novembre forlivese non stesse influendo più di tanto sulla sua malattia.

Questo ritrovato vigore gli aveva dato un'esile speranza e la possibilità di tornare a pensare al futuro con maggior distensione. Gli aveva permesso, perfino, di vedere con distacco le asperità che parevano volerlo dividere in modo netto dalla donna che amava.

Quindi, quando Simone gli disse che presto sarebbe partito assieme alla moglie alla volta di Firenze – per farle vedere i suoi palazzi e farle conoscere i suoi parenti – Giovanni lo pregò di fare in città alcuni acquisti per lui. Però, prima di dargli un elenco completo delle cose da comprare, il Medici ebbe bisogno di fare qualche piccola indagine.

“Vostra figlia ama i libri, vero?” chiese Giovanni, arrivando alle spalle di Caterina che stava guardando la città che si spandeva davanti a lei, oltre le mura spesse di Ravaldino.

La notte era illuminata da una luna indefinita, che gettava la sua luce in modo acquoso tutto intorno e la nebbia era tanto fitta da faticare a vedere la città stesa oltre la rocca, eppure la Tigre sembrava rapita da quel paesaggio monotono.

La verità era che la Contessa si era immersa nei ricordi. Quella coltre grigia e indifferente le aveva riportato alla mente la sua infanzia nel milanese e, ancor di più, le lunghe battute di caccia nei boschi del Ticino.

“Sì, direi di sì.” rispose la donna, senza staccarsi dalla merlatura alla quale si era appoggiata.

Le guardie di ronda accolsero con indifferenza la presenza del fiorentino e gli passavano accanto senza dar mostra di averlo visto.

“E a vostro figlio Ottaviano cosa piace?” proseguì Giovanni, appoggiando i palmi delle mani sulla pietra ruvida e fredda.

Caterina vide con la coda dell'occhio come il fiorentino le si fosse messo vicino e si perse per un secondo a guardargli le mani. Non poteva fare a meno di trovarle sempre di una bellezza notevole.

“Io... Non saprei.” fece la donna, deglutendo.

Il Medici indossava un giubbetto imbottito blu scuro, su cui erano ricamati in filo d'oro i gigli di Firenze. Caterina, invece, aveva il solito abito che indossava quando era impegnata nei suoi affari quotidiani, ma sopra portava uno spesso mantello imbottito che le lasciava libere solo le braccia.

“Cavalli? Libri? Monili?” provò Giovanni, mettendosi a elencare ciò che di solito poteva interessare a un diciassettenne di famiglia nobile, omettendo con cura 'belle donne' dall'elenco di possibilità.

La Tigre parve in seria difficoltà, tanto che i suoi occhi verdi vagarono a lungo sul profilo nebuloso della città, prima che riuscisse a dire: “A suo padre piacevano molto gli abiti eleganti e le belle stoffe...”

La sua voce era distante e la nuvoletta di vapore che aveva alimentato si mescolò all'umidità della nebbia senza svanire del tutto.

Nel dare quella risposta, Caterina aveva ripensato a come quella caratteristica di Girolamo fosse stata comune anche a Giacomo. E si ricordò anche di come quella cosa l'avesse fatta soffrire.

“Ho capito.” sussurrò Giovanni, prendendo mentalmente nota.

“Perché questa domanda?” fece a quel punto Caterina, voltandosi verso il fiorentino e guardandolo con insistenza.

Dal giorno in cui l'aveva visto in sala di Consiglio, si era accorta che lui si era allontanato un po', come se avesse cominciato a vederla sotto una luce diversa e forse, addirittura, a temerla.

“Nulla...” disse il Medici, sollevando le spalle e cercando di sorridere in modo allegro: “Solo, volevo fare qualche omaggio a voi e alla vostra famiglia, in vista del Santo Natale. So che siamo solo in novembre, ma, per farlo, devo organizzarmi...”

“Non c'è bisogno di nessun omaggio.” ribatté secca la Tigre, distogliendo lo sguardo e puntandolo casualmente su una delle guardie che stava passando loro accanto in quel momento.

“Sono qui da quasi un anno, mi sembra il minimo per ricambiare la vostra gentilezza e...” cominciò Giovanni, interdetto per il tono aspro della donna.

“State solo facendo il vostro lavoro, non siete certo qui come mio ospite.” scosse il capo Caterina.

“Mi avete accolto come un amico, però.” si impuntò l'ambasciatore, abbandonando il sorriso bonario e piantandosi davanti a lei, cercandone gli occhi coi suoi: “Lasciate che vi dimostri la mia gratitudine.”

La Tigre avvertì un morso allo stomaco, mentre le sue iridi si specchiavano i quelle chiarissime di Giovanni, rese così vive e limpide dalle torce che le illuminavano da farle sembrare dipinte dal più grande dei maestri.

Tra loro corse un lungo momento di silenzio e la Contessa si sentì sul punto di osare di più. Ormai le era chiaro che quello che provava per quell'uomo andava oltre la semplice simpatia.

Che male ci sarebbe stato a fare quel passo in più? Cosa la tratteneva dal prendergli una delle sue bellissime mani nelle sue, avvicinarsi a lui e..?

Una risata sguaiata di due guardie che si erano appena date il cambio scambiandosi anche una battuta di spirito molto volgare risvegliò di colpo Caterina.

“Fate come vi pare.” concluse la donna, rifuggendo l'istinto che l'aveva quasi portata a compiere quell'imprudenza.

Mentre lasciava i camminamenti a marce forzate, senza voltarsi nemmeno una volta per sincerarsi di come il fiorentino avesse preso quel suo repentino congedo, la Leonessa di Romagna si diede da sola della stupida.

Non poteva concedersi certe libertà con un uomo del genere. Giovanni Medici era l'ambasciatore di una repubblica che stava per far guerra a Venezia, la potenza che voleva soggiogare la Romagna intera da anni. Era l'ambasciatore di una repubblica che stava per fare guerra all'Imperatore, che era suo cognato e che era alleato con Milano, che gli faceva da sempre da braccio armato in Italia.

Come poteva Caterina anche solo pensare di cercare nel rapporto tra lei e Giovanni qualcosa di diverso dalla distaccata diplomazia tra una Contessa e un ambasciatore?

Il problema non sarebbe stato insormontabile, se la scintilla tra loro fosse stata destinata a durare un solo istante. Ma se fossero andati oltre, se non fosse stato solo il capriccio di un momento, in che guaio si sarebbero cacciati?

 

Le dita grassocce della piccola mano di Beatrice Este presero la lettera che Ludovico stava porgendo.

La donna, il cui pancione era diventato molto ingombrante, tanto da costringerla a starsene mezza coricata sul divanetto imbottito posto davanti al camino, cominciò a leggere in silenzio le parole vergate dalla mano dell'oratore che lei stessa aveva mandato a Forlì.

“Non ne è certo nemmeno lui, però.” disse, quando arrivò alle ultime righe.

Il Moro sbuffò e si alzò in piedi, battendo le manone sui fianchi, spazientito. Sua nipote Caterina gli aveva già dato seri grattacapi una volta, quando si era infatuata di quel ragazzetto di stalla, facendone un caporione e seguendone i consigli idioti fin quasi a rovinarsi da sola alleandosi ai napoletani.

Ci mancava solo che decidesse di far suo un fiorentino della levatura di Giovanni di Pierfrancesco Medici. Anzi, Giovanni il Popolano come si faceva chiamare dai suoi scagnozzi!

Benché non fosse il vero erede della famiglia, con il Fatuo in fuga e i figli del suddetto ancora troppo giovani per reclamarne il ruolo, quell'uomo era di fatto il secondo – assieme al fratello Lorenzo – uomo più influente a Firenze dopo Savonarola.

Se avesse voluto far pesare il suo cognome, avrebbe potuto convincere la Signoria a fare o non fare guerre, a investire, non investire, a rompere e siglare alleanze.

Era forse quello, che Caterina aveva visto in lui? Era quello il motivo per cui l'oratore aveva scritto nella sua lettera che la Contessa Riario era sempre in compagnia del Medici, con cui discorreva amabilmente e senza che nessuno potesse sapere di che parlassero?

Ma se anche fosse stato... Quello era comunque cugino del Magnifico! Caterina poteva credere di fargli fare quel che voleva, ma si trattava di uomo dalla levatura ben diversa da quella del maledetto Giacomo Feo!

“Aspettiamo.” concluse Beatrice, accarezzandosi il pancione: “Il nostro oratore ha parlato solo basandosi su impressioni e pettegolezzi. Può essere tra loro vi sia solo una simpatia. Non è detto che stiano apparecchiando chissà quale alleanza ai nostri danni.”

Ludovico si massaggiò il collo. La nebbia di quel giorno gli aveva risvegliato tutti i suoi dolori, in particolare quello cervicale.

“Giusto! Ma sì!” disse, con voce un po' troppo audace: “Aspettiamo pure che se lo sposi e ci faccia dei figli! E quando avrà partorito gli eredi della famiglia Medici, vediamo un po' se Firenze...”

“Bada bene, Ludovico!” lo bloccò Beatrice, mettendosi in piedi a fatica sulle gambe gonfie e puntando l'indice paffuto contro il marito: “Non ti ho ancora perdonato! Se osi anche rivolgerti a me in questo modo..!”

Il Moro si zittì all'istante, ribollendo internamente di rabbia. Non sapeva nemmeno lui cosa pensare di sua nipote e della sua sconsiderata condotta.

I pettegolezzi sui suoi appetiti erano già arrivati fino a Milano ed erano stati conditi con dettagli che Ludovico voleva non credere veri.

Si diceva che avesse un amante diverso a notte, e che scegliesse le sue prede per lo più tra i suoi soldati, e che molti di questi, per essere ridotti al silenzio, fossero finiti in fondo a un pozzo dalle pareti costellate di lame aguzze.

Facendo due conti, se fosse stato davvero così, aveva pensato il Duca, ormai l'esercito di sua nipote avrebbe dovuto essere decimato.

“Va bene, allora – cedette l'uomo, disperatamente desideroso di riconciliarsi almeno con la moglie, visto che Lucrezia ancora lo trattava con distacco e pretendeva da lui ogni sorta di favori per il fratello – scriverò all'oratore per dirgli di tenere la situazione d'occhio e basta. Per il momento non dirò nulla a mia nipote.”

“Finalmente ci intendiamo.” annuì Beatrice e poi, stancamente, si ributtò sul divanetto e si mise a fissare le fiamme: “Piuttosto, è tutto pronto per l'arrivo di tua figlia?”

Il Moro fece un cenno con la testa, i capelli scuri a zazzera che ricadevano pigramente ai lati della guance piene: “Sì, le offriremo un gran banchetto.”

La Duchessa sospirò, disegnando piccoli ghirigori con il dito sopra al ventre teso: “Speriamo che per il banchetto si sia rimessa...”

 

Sputando un dente rotto e un fiotto di sangue, Achille Tiberti si rimise in piedi. Quando sollevò lo sguardo, gli bastò un attimo per capire che quella era stata solo una disfatta.

Raccattando da terra una spada, l'uomo cominciò a gridare, invocando la ritirata dei suoi. Evitò per un soffio una freccia che, scagliata dall'alto delle mura, lo aveva sfiorato e poi dovette scansare anche uno dei suoi che, urlando, impazzito di dolore, si teneva il braccio mozzato da cui zampillava una colonna rossa che presto, di certo, lo avrebbe condotto alla morte.

Achille non era messo così male. Aveva un occhio gonfio e gli doleva il capo. Quando provò a correre, si accorse di aver anche un gran male a una gamba. Però aveva ancora tutti e quattro gli arti attaccati al corpo.

“Ritirata!” ululò: “Ritirata!” e, prima ancora di essere certo che i suoi mercenari lo stessero seguendo, scappò il più in fretta possibile verso il suo accampamento.

Arrivò con difficoltà alla sua tenda, che nella nebbia che era calata quel giorno si confondeva con le altre, ma quando riuscì a entrarvi, si sentì libero di crollare in terra senza fiato.

Il suo attendendo gli si affaccendò attorno, cercando di pulirlo dal sangue e dal sudore e provando a fargli bere un po' d'acqua. Tentò di chiedergli che fosse successo, ma l'uomo sembrava immerso in una specie di incubo a occhi aperti.

Solo quando si sentirono le prime voci dei soldati che rientravano al campo, Achille ritornò presente a sé stesso: “Il cavallo veloce...” disse in un soffio al suo attendente.

Questi non perse tempo e confermò: “Il cavallo è già pronto, qui fuori. Come mi avevate chiesto prima dell'attacco.”

Tiberti ringraziò, si fece aiutare a mettersi in piedi e poi, chiedendo una cuffia di cotta di maglia, già pensando che non avrebbe sopportato un elmo, andò alla sua cavalcatura, senza neppure togliersi l'armatura o sciacquarsi il volto.

“Tornerete coi rinforzi?” chiese il ragazzo, seguendolo di corsa fuori dal padiglione.

“Sì.” confermò Achille, montando in sella con un gemito per il male alla gamba.

“Vi aspetto.” fece l'attendente, mentre il soldato già spronava la sua bestia alla volta di Forlì.

 

Paolo e Gian Giordano Orsini stavano dormendo in silenzio nell'angolo più buio della cella, mentre Virginio continuava a camminare avanti e indietro appoggiando silenziosamente i piedi sul pavimento levigato delle carceri di Castel dell'Ovo.

Aspettava notizie. La guardia che era riuscito a corrompere sarebbe stata di turno quella notte, o almeno così gli pareva, e sperava che portasse notizie fresche.

Aveva dovuto promettergli soldi e onori che probabilmente non gli avrebbe mai dato, ma si trattava di un ragazzo semplice, nemmeno diciottenne, a guardarlo bene, quasi imberbe. Era stato facile fargli credere che gli Orsini non si sarebbero dimenticati di lui.

Quando sentì delle voci in lontananza, Virginio allungò l'orecchio. Riconobbe l'accento strascicato del giovane soldato e comprese che stava dando il cambio a un suo commilitone.

Attese con pazienza e finalmente il ragazzo arrivò fino alla cella.

“Allora?” chiese Virginio, aggrappandosi alle sbarre e fissandolo, assetato di notizie dall'esterno.

“Allora vostro figlio Carlo sta combattendo contro i tedeschi a Livorno.” disse la guardia, a mezza bocca, mentre la luce della sua torcia inondava la piccola cella degli Orsini: “Quelli hanno attaccato i fiorentini e lui li ha difesi, come la sua condotta imponeva.”

Il signore di Bracciano ascoltava in silenzio e fremente. Carlo, un suo figlio illegittimo, non aveva mai voluto seguire la famiglia. Aveva sempre accettato condotte per conto suo, e se l'era sempre cavata. Però, Virginio aveva sperato che in quella situazione drammatica, avrebbe portato i suoi uomini alla difesa di Bracciano, piuttosto che continuare a combattere le guerre degli altri.

“Tutto qui?” chiese Virginio, visto che il soldato taceva.

Questi fece una smorfia e confermò: “Tutto qui. Non vengono certo a dire le cose a me, sapete... E comunque – concluse, allontanandosi un po' – ho deciso che non voglio fare questa cosa.”

“Ma vi ho promesso denaro e terre!” sbottò l'Orsini, gli occhietti azzurri che si tingevano di delusione.

“E io vi dico che non posso farlo. C'è gente più potente di voi, ormai.” dichiarò il giovane e se ne andò, portando con sé la sua torcia e scalpicciando come uno scolaro riportato in aula a forza.

 

Caterina stava guardando i soldati che si addestravano nel cortile. Si era appoggiata al muro e aveva deciso di non partecipare attivamente, almeno quel giorno. Aveva troppi pensieri per la testa e temeva di essere così distratta da finire a farsi male.

Teneva le braccia incrociate sul petto e l'espressione era concentrata, gli occhi puntati su Galeazzo, che si giostreggiava con il maestro d'armi che quel giorno gli aveva imposto difficili esercizi con la spada corta.

La Contessa stava rimuginando tra sé, la mente che vagava senza sosta tra il suo passato e il suo presente, senza riuscire a intravedere con chiarezza nulla del futuro, quando, cogliendola di sorpresa, sua figlia Bianca le arrivò accanto.

La ragazzina era imbacuccata in un mantellone pesante di foggia maschile che Caterina riconobbe come proprietà di Cesare Feo. Non era difficile immaginare che il castellano avesse visto la figlia della Tigre uscire con solo il suo solito abito da casa addosso e le avesse offerto la sua cappa, come il più nobile dei cavalieri.

“Galeazzo è bravo con la spada, vero?” chiese Bianca, appoggiandosi al muro come la madre e guardando il fratello che volteggiava in mezzo al cortile.

Per terra c'era un po' di fango per colpa di una pioggerella lieve caduta nella prima mattinata e per l'umidità della nebbia. Come la Leonessa, anche la figlia aveva già le scarpe piene di malta, eppure non pareva farvi caso.

Caterina non riusciva a pensare perché mai Bianca l'avesse raggiunta lì, malgrado il fango e il freddo, ma preferì non farsi troppe domande.

I soldati gridavano, parlavano a voce alta e, di quando in quando, ridevano e si insultavano mentre cozzavano le spade spuntate l'una contro l'altra. Quella moderata confusione, permetteva una certa discrezione nel discorrere, benché si fosse a breve distanza dalla truppa.

Così, cedendo a un improvviso bisogno di confidarsi con qualcuno, la Tigre sussurrò: “Vorrei che Galeazzo avesse qualche anno in più. È ancora troppo piccolo... Io sono stanca, ma devo resistere ancora per anni... Non posso lasciargli lo Stato adesso. I lupi che ci circondano lo sbranerebbero...”

Bianca stinse gli occhi, cercando di capire a fondo quelle parole. La voce di sua madre era sottile e stremata come la rugiada di fine estate, e il modo nervoso in cui si stringeva le braccia sul petto faceva ben capire quale fosse il suo stato mentale.

“Dunque è a lui che lascerete lo Stato...” soppesò la ragazzina, cominciando a chiedersi che via legale sua madre avrebbe percorso per estromettere Ottaviano in modo ufficiale.

Caterina stava per dire qualcosa, in parte già pentita di aver messo a parte la figlia di quella sua decisione, quando Cesare Feo arrivò di corsa davanti a loro. Ovviamente, come la Sforza si era aspettata, non aveva il mantello sulle spalle.

“Mia signora, chiedono di voi, subito.” annunciò, con il fiato un po' corto per lo sforzo.

“Chi vuole vedermi?” domandò Caterina, cominciando già a camminare verso l'interno della rocca.

“Achille Tiberti, mia signora. L'ho messo ad aspettare nel mio studiolo.” rispose il castellano, con gravità.

La Tigre si fermò un momento e squadrò Cesare: “Vi ha detto che vuole?”

“No, ma è in armatura, coperto di sangue e sembra ferito.” fece l'uomo, ricambiando l'occhiata con apprensione.

La Contessa scosse il capo, con rabbia, e disse tra i denti: “Andiamo da lui.”

Bianca sospirò, nel vedere la madre sparire assieme al castellano. Dalla folgore che aveva attraversato il viso della donna, la figlia aveva capito che Tiberti, per quanto ferito e provato, non avrebbe avuto un'accoglienza mite.

Non riusciva a immaginarne il motivo, dato che non aveva saputo nemmeno il perché dell'assenza da corte del Capitano in quei giorni, ma poteva scommettere, dalla reazione della madre, che non doveva di certo ripresentarsi alla rocca in quello stato.

Probabilmente si era ridotto a farlo comunque solo perché era disperato.

“Madonna Bianca – la salutò un soldato dai capelli chiari, che aveva all'incirca la stessa età di Ottaviano – vi va una partita ai dadi? Io e un paio d'altri abbiamo appena finito i nostri esercizi e quindi abbiamo un po' di tempo libero e stiamo andando nei baraccamenti a giocare...”

La giovane Riario si impose di non pensare più a sua madre. Avrebbe scoperto più tardi cos'era successo ad Achille Tiberti.

Con un sorriso abbastanza convincente, fece una mezza riverenza e confermò: “Vi raggiungerò tra pochi minuti. Prima voglio guardare ancora un po' i progressi di mio fratello.” e così dicendo, puntò gli occhi blu verso Galeazzo che, distratto dalla partenza improvvisa della madre, era finito gambe all'aria dopo un colpo di piatto assestatogli a tradimento dal maestro d'armi.

 
   
 
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