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Autore: crimsontriforce    17/06/2009    1 recensioni
Dichiarazione d'amore verso un luogo ignoto. Fluff alfabetico. Straniera, tardo 1807.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '3. Storia antica ma non troppo'
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Ph34r t3h c4n0n self-ins3rti0n. Prompt jolly per il Fluffathlon di fanfic_italia, cioè riutilizzare in una nuova fanfiction quattro frasi esatte (tranne eventualmente che per tempo verbale, genere e numero) prese ognuna da una fluffata precedente. Le mie scelte:
  • Atrus si sistemò gli occhiali, mesmerizzato. (Lezioni siciliane, prima settimana)
  • Io le ho già lette”, sussurrò. (Ma non ricordava dove, seconda settimana)
  • Perché stava per dirgli di sì. (Un bacio e il disgelo, terza settimana)
  • A cercare conferma della sua solitudine, stabilendo che, no, non era rimasto proprio più nessuno ad abitare quelle mura? (Ultima tettoia accogliente, quinta settimana)

L'idea invece è un po' più vecchia e risale a quando mi sono arresa al fatto che lo/a Straniero/a non s'era rituffato su Myst appena tornato/a sulla Terra come avrei fatto io – dando per scontato di trovarci i due piccioncini ricongiunti (e ci avrei preso) e di poter chiedere loro di vivere su un'Era tranquilla per i fatti miei e poterne esplorare altre (e sarebbe stato un po' più complesso).
Ora, la mia Straniera è un'europea che cura scavi archeologici in zona; è una donna curiosa, metodica, fissata coi cappelli a tesa larga e con la cotta per Atrus che io non ammetterò mai . E con la cotta per Myst Island che non ho mai negato. Mentre gli aspetti più sporchi e faticosi dell'avventura passata sfumano nella memoria, lasciando spazio solo alla gloria delle Ere e di chi ne ha scritta buona parte, va da sé che gli anni fra il 1806 e il 1815 sono so emo so angst...


Disclaimer: Gli avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. Non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone descritte né offenderle in alcun modo. Se possibile, anzi, il tutto è da intendersi come tributo di affettuosa stima.







Intermezzo: straniera in patria









“Sei sciupata”, mi dicono. “Sembri fin pallida, riguardati.”
“Sarai mica innamorata?”
“Il suo cuore è altrove”, sentenziano. “E non pensa a donarle un sano rossore sulle gote.”

Certo che sono sciupata, vorrei rispondere. Perché sto per dirgli di sì.

Mi attende ogni sera, immobile, con la solita promessa vergata a chiare lettere sulla sua copertina: “MYST”. Non offre altro. Non ne ha bisogno. Nessuna garanzia di ritorno e nessuna certezza di trovare ancora qualcuno su quell'isola che ha da tempo perso ogni benedizione potesse aver accompagnato la sua nascita. Un altro mondo. Solitudine fin dove il pensiero si stende. Molti mondi.
Resisto solo grazie alla codardia – e ai sani giri di spago con cui avvolsi il libro nel giorno del mio ritorno, quando questa scelta si presentò per la prima volta e presi una decisione che speravo essere definitiva. Non riuscii però a imbavagliarlo.
Ancor oggi, so che se arrivassi a vedere nuovamente la sagoma dell'isola stagliarsi sul blu dell'orizzonte allungherei le dita verso l'immagine e...

Lui è immobile sul comodino. Io, immobile rannicchiata all'altro estremo della branda. È la storia di ogni notte.

***


La via del ritorno è lunga e il sole non risparmia i suoi colpi. Mi calco in testa il cappello, sognando fonti d'ombra più sostanziose. O più bianche: dover poggiare lo sguardo sulla sua tesa sudicia è più di quanto si possa pretendere da una signora. Cammino. Mi basterebbe un fosso, mi dico, un buco per terra in cui infilarmi a guardare il cielo finché non si farà blu.

E un buco per terra è esattamente quello che trovo: una spaccatura profonda ai piedi di un vulcano, che mette a nudo ogni strato della bella roccia che compone queste nostre terre adottive. Una gradita novità, dopo miglia di suolo crepato da una rete di cicatrici spesse quanto il mio mignolo, che poco aiutano a spezzare la monotonia del percorso.
Un buco per terra con una scala, per la precisione.

Ogni tanto, penso, basta chiedere.

*

I gradini scricchiolano ma non cedono. Benedetti gradini. Scendo sul fondo, mi siedo nell'ombra e guardo il cielo, respirando un'aria fresca e umida come il terriccio su cui poggio le mani.

Vedo che questo luogo è vivo: da un lato il suolo è fangoso, memoria di una pozza d'acqua che deve aver resistito dall'ultima pioggia a qualche tempo fa. L'afa non raggiunge l'erba né la secca come fa con i tristi arbusti di superficie.
Vedo che questo luogo è amato: delle grotte sono scavate nella parete, a varie altezze, e un tempo sono state abitate. Ogni porta, ogni arcata di roccia è intagliata con figure di rampicanti, uccelli e fiori, come se il loro scultore non si fosse mai arreso alla desolazione che lo circondava. Possibile che tanta cura sia stata riversata in una semplice stazione di via, così al di fuori delle rotte?

Quale che sia la sua storia, a chiunque si debba l'aver trasformato le pareti rosse striate in preghiere accoglienti, rispetto e onoro questa creazione.
E qui, nel menzionare il rispetto, la storia dovrebbe finire, perché una chiazza d'ombra al riparo dal sole torrido non si negherebbe a nessun compagno viaggiatore, ma il permesso di sconfinare nelle altrui stanze è merce più rara. Eppure, nonostante le ginocchia chiedano riposo prima della tratta finale del cammino, è quello che faccio. Cosa mi chiama? Lascio a terra i miei bagagli e mi arrampico sulla pietra, cerco di comprenderla con le mani prima ancora che con gli occhi, ripercorro i miei passi e scosto una tenda su cui rossi e blu un tempo erano esplosi in quadrati e triangoli sempre più minuti fino a svanire nel bordo bianco, ora strappato.
Dietro c'è un letto di pietra, spoglio. Mi allontano in punta di piedi, ma non mi fermo.
Perché? A cercare conferma della mia solitudine, stabilendo che, no, non è rimasto proprio più nessuno ad abitare queste mura? Perché sono tornata ad essere lontana dai miei simili in un ambiente sconosciuto, e aprire ogni senso all'ignoto mi fa sentire viva com'ero su quelle isole lontane e non sono stata più? Ma, al contrario di allora, non c'è nulla di razionale in quel che faccio. Ascolto la storia delle stanze che percorro, rispondendo a una chiamata che sento aleggiare solo qui, al riparo dal mondo comune. I muri però parlano una sola lingua, quella dell'amore con cui sono stati scolpiti; il tavolo scavato tace e così le scodelle di terracotta, che riposano sotto la polvere di anni. Non le disturbo. In una sala attigua, dei libri malamente ammucchiati ne parlano un'altra ancora, ma non è la mia.

Cerco meglio.
Mi sistemo gli occhiali, mesmerizzata. Infine, del buon inglese.

Diari. La vita impietosa di una donna sola. Leggo i suoi giorni e sento che è mia sorella, figlia come me di un padre, di una madre e del deserto. Mi chiedo che roccia nasconda ora le sue ossa.
Era vedova. Aveva amato molto suo marito.

Suo marito Aitrus?

La mia mano aleggia al centro della pagina; trattengo il fiato. Con infinita cura avvicino un polpastrello e lo sfioro, timorosa, ma non accade nulla. È solo carta ricamata d'inchiostro, e io una sciocca che vive in un sogno.
Ma apro uno dei libri che avevo scartato e osservo con maggior cura quell'alfabeto elegante che non è quello dei Greci, che saprei almeno leggere, e nemmeno quello dei Russi che condivide alcune lettere col primo e altre col nostro. Scorro le righe appoggiando una mano sul cuore e l'altra a tener ferma la testa, che si è fatta leggera leggera.
“Io le ho già lette”, sussurro. Voglio crederci.

E le ritrovo. Le barchette a guscio di noce. Quella con la vela a sinistra, quella a destra e quella col trattino.
“Io le ho già lette”, affermo al vuoto della stanza.

In un altro mondo. Le ho già lette in un altro mondo, tempo fa. Erano scritte sulla lavagna di un'aula arroccata su un lago. Ripetute sui muri sotto un soffitto stellato. Adornavano un tavolo che era scrittoio, tempio e altare insieme. La torma di N e di L mutate passava indistinta sotto il mio sguardo avido di indizi, ma avevo imparato a riconoscere almeno le barchette.
Le stesse barchette che ora navigano tranquille sulle pagine fitte di segni.

Scoppio a piangere. Qualcosa è iniziato qui – so di aver capito, anche se non ho capito cosa e temo che non lo scoprirò mai.
Un punto di contatto.

Mi siedo per terra con la schiena al muro e le ginocchia raccolte, protetta dal passato ignoto che mi circonda e dal marrone caldo delle pareti, accogliente come l'abbraccio di una madre. Non so che volto dare ai fantasmi che si affollano ad osservarmi, così mi limito a porgere loro la mano e lasciarmi condurre verso il sonno. Non mi sorprende che mi consegnino su un porticciolo di legno, mentre le onde s'infrangono sugli scogli al di sotto e da qualche parte, nella foschia azzurrina, si sente il richiamo malinconico di un gabbiano.

Se anche resterò straniera nel mondo al di fuori, ho ritrovato casa.



   
 
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