Non è venuta come volevo. Dovrei
riscriverla. Questo trafiletto è un monumento alla memoria dei miei buoni
propositi.
Dialoghi tra un lampione e un cittadino qualunque
La notte in
cui incontrai per la prima volta il Lampione pioveva. A Milano piove spesso.
Era una serata
da dimenticare, come spesso ne avevo in quel periodo, ed ero uscito a fare due
passi per schiarirmi le idee prima che un acquazzone mi sorprendesse quando
ormai mi ero già addentrato nei meandri della metropoli. Ho scoperto intorno ai
sedici anni di essere fondamentalmente inetto a orientarmi, e da allora la mia
vita è stata un susseguirsi di smarrimenti perfino in una città che conosco fin
da bambino. Quella sera in particolare sapevo solo di aver oltrepassato Porta
Romana, ben lontano da casa e dai luoghi che frequentavo abitualmente. Quando
sono sovrappensiero cammino molto.
Quando sono
sovrappensiero tendo anche a infilare le mani in tasca. Quando sono
sovrappensiero tendo anche a dimenticarmi non posso girare con le scarpe di tela
sotto la pioggia, perché la suola liscia sdrucciola come una pietra
da curling. Non credo ci siano difficoltà a capire dove voglia andare a
parare.
Scivolai su
una macchia d’acqua a stento qualificabile come pozzanghera e caddi supino sul
marciapiede. La mia schiena incassò il colpo, provocandomi una fitta che mi
tolse il fiato per diversi secondi. Fu in quel lasso di tempo che, tra gocce di
pioggia che mi picchiettavano le guance e un grido soffocato, pensai di essermi
rotto qualcosa, o perfino che avrei potuto rimanere paralizzato. E fu allora,
prima che potessi verificare tutto ciò, che udii per la prima volta il Lampione.
«Tutto bene?»
mi domandò.
Posso
immaginare una facile obiezione: non ho detto come parla un lampione.
L’unica risposta che io sappia dare è: come una persona normale. A riprova di
ciò, non mi accorsi per nulla di aver sentito parlare un lampione. Pensai
invece, con un certo sollievo, che un passante di cui non mi ero avveduto avesse
notato il mio capitombolo. Imbarazzante, ma quantomeno non sarei morto lì.
«Circa. Scusi, chi è che parla?».
«Mi stai
guardando».
«Non riesco a
vedere nulla, la luce del lampione mi acceca».
Questo
potrebbe essere il momento appropriato per specificare dove fossi caduto:
direttamente sotto il caldo fulgore giallo dell’unico lampione acceso in una via
a senso unico. Il palo da cui era sospeso saliva verticale da terra per poi
inclinarsi diagonalmente in avanti e affacciarsi sulla carreggiata. Mi si
perdonerà di non averlo precisato prima, ma volevo mantenere alta la tensione
narrativa.
«Sì, quello
sono io» rispose il Lampione. «Scusa, non volevo accecarti, qualsiasi cosa
voglia dire».
Compii due
importanti constatazioni: la prima fu che riuscivo a muovere tutte le parti del
corpo, quindi non ero destinato a un futuro su sedia a rotelle. La seconda,
realizzata con la ritrovata mobilità e con il dolore alla schiena che si
attenuava, fu che intorno a me non c’era nessuno.
Nonché che la
voce proveniva da qualche metro sopra di me.
Ovvero, per
l’appunto, dal lampione.
(Ciò parrà
scontato, ma io non avevo il beneficio di un narratore.)
Decisi che non
stavo sognando, perché il semplice porsi il problema significa con certezza
pressoché totale che si è svegli. Il passo successivo fu scendere a patti con il
fatto che un lampione mi stava parlando.
Lo trovai
bizzarro, ma non così bizzarro. C’era
solo un’opzione verosimile che salvaguardasse la nozione comunemente accettata
che i lampioni non parlano: qualcuno doveva aver deciso di giocare uno scherzo
con un ricetrasmettitore a un ebete scivolato sul marciapiede. Essendo la voce
troppo cristallina per essere filtrata da un apparecchio del genere, esclusi
quella ipotesi quasi subito. L’alternativa più credibile a seguire era un
lampione parlante.
Perciò, come è evidente, assumere che un
palo di metallo fosse senziente fu un atto di lucido raziocinio.
«Stai
prendendo acqua, vieni qua sotto» disse il Lampione. «Non copro granché, ma è
meglio di niente».
Rotolai prono
e iniziai a trascinarmi verso di lui, convenendo che il suo era un buon
suggerimento. Dovendo spingermi con la schiena, riuscii solo a mugugnare qualche
parola in mezzo agli spasmi di dolore. «Come fai a parlare?».
«In che
senso?».
Mi appoggiai
al palo metallico e presi un respiro profondo. «Materialmente. Da dove ti esce
la voce?».
«Non lo so.
Come fai tu a parlare?».
Ottima
domanda. «Beh, ho delle corde della gola». Non avevo mai prestato attenzione
alle lezioni di anatomia. «E quando ci passa l’aria…». La Lusvardi era
soporifera, non era colpa mia. «Le corde si muovono in un certo modo e creano le
parole».
Sapevo di aver
vomitato un fiume di cretinate. Mi sarei certamente smentito da solo più avanti,
quindi trovai opportuno chiudere con un attestato di buona fede. «Credo».
Incontestabile.
«Che cosa
stupida» sentenziò il Lampione.
Mi risentii,
per quanto probabilmente avesse ragione. Io non stavo mettendo in discussione il
modo in cui parlava, quindi come si permetteva di farlo lui con me? Almeno dalla
mia avevo il fatto che tutti gli umani
parlano, non solo quelli a cui viene il capriccio. E poi, che cosa poteva
saperne un Lampione?
Prima di
riprendere la conversazione attesi che la mia colonna vertebrale cessasse di
pulsare. La pioggia non accennava a diminuire. «Come sai l’italiano?».
«Tecnicamente
potrei chiederti la stessa cosa».
«Tecnicamente
proprio no. L’italiano l’hanno inventato gli umani». Con il senno di poi non era
esattamente una gran linea di difesa: gli umani avevano anche inventato i
lampioni, e di certo non li avevano programmati per parlare. «E poi è una
lingua. Tu neanche ce l’hai una lingua».
«Sai con chi
saresti andato d’accordo? Con il Lampione Aristodemo. Passava il tempo a farsi
domande come queste, ci passava notti intere. E io gli dicevo sempre, ma perché
ci pensi? Parliamo. Tanto basta. A che scopo preoccuparsi del come o del
perché?».
Una serie di
tre colpi di tosse mi impedì di rispondere. Mi ricordai della situazione in cui
versavo: pioveva e io ero senza ombrello. Più rimanevo in quelle condizioni più
rischiavo una polmonite, e mi sarebbe servita almeno una ventina di minuti per
ritrovare la strada di casa. Feci un tentativo di issarmi sulle gambe, trovando
che la mia schiena era messa molto meglio di quanto credessi. Non avrei potuto
correre, ma camminare era nelle mie facoltà.
«Come va?» mi
domandò il Lampione.
«Meglio. Penso
di dover andare».
Il bagliore
giallognolo che emetteva sfarfallò. «Tornerai?».
«Non lo so,
io…». Titubai. Ovviamente sembrerò un rimbambito ad averci pensato su: era un
lampione parlante. Strano a dirsi, mentre ero lì mi parve una reazione
assolutamente normale. La schiena e la tosse dovevano stare iniziando a darmi
alla testa. «Abito lontano. Non so nemmeno dove mi trovo, in realtà».
«Per favore.
Mi sento molto solo ultimamente».
Sospirai. Sono
sempre stato uno facile da far sentire in colpa. «Va bene. Cerco il nome della
via e un giorno di questi torno».
«Grazie».
Questo fu, a
grandi linee, il mio primo incontro con il Lampione.
Mantenni la
promessa solo il lunedì successivo, avendo combattuto nel resto della settimana
precedente un principio di influenza risultato della mia scampagnata a testa
scoperta sotto la pioggia. Anche quella sera diluviava, ma ebbi l’accortezza di
portarmi un ombrello. Verificai così che non avevo sognato nulla: il Lampione
esisteva.
La cosa mi
affascinava. Certamente non potevo essere il primo a parlare con un lampione se
almeno uno di loro era in grado di farlo, però ero di sicuro il primo tra le
persone di mia conoscenza. Avvertii quasi un dovere morale di andare più a fondo
potessi sulla faccenda.
Iniziai a
fargli visita sempre più spesso, e serata dopo serata scoprii qualcosa in più su
di lui. Ad esempio una volta non era solo: tutta la via in cui ero scivolato era
stata popolata da suoi amici, anche loro in grado di parlare, ma pare si fossero
spenti uno a uno. L’ultimo, il Lampione Aristodemo, se n’era andato da poco più
di una settimana. Il mio Lampione gli era molto affezionato e, sentendosi solo,
aveva deciso di parlare con il primo umano che non gli fosse parso andare di
fretta (era molto preoccupato a riguardo). Sventuratamente, pareva che gli umani
che passavano di là fossero sempre di fretta.
Nel frattempo
avevo cercato su Wikipedia che cosa fossero effettivamente le corde vocali.
Tanto per cominciare non sono nemmeno corde, sono membrane stiracchiate nella
laringe; e poi sono soltanto due. Non riuscii a capire come facessero a produrre
la voce se non a spanne, perché come al solito la Wikipedia scientifica è
pleonasticamente rivolta a chi ha già studiato l’argomento. Raggiunsi però la
ragionevole certezza che i lampioni le corde vocali non le hanno.
Il Lampione,
dal canto suo, non aveva svolto neppure un briciolo di ricerca su come facesse
lui a parlare, il che fu onestamente
parecchio scortese. Sembrava che le sue parole della prima sera non fossero un
modo di dire: davvero non gli interessava il perché delle cose. Non sapeva
neppure dirmi se tutti i lampioni sapessero parlare o se fosse una
caratteristica esclusiva di quelli della sua via. Nel dubbio provai ad attaccare
bottone con qualche lampione nel mio circondario, ma se sapevano parlare non
erano granché socievoli.
D’altronde
anche il mio Lampione aveva deciso di parlare agli umani solo dopo che tutti i
suoi compagni si erano spenti. E a tal proposito, pareva particolarmente restio
ad approfondire quella parte.
Io, pur
assetato di conoscenza su qualsiasi cosa riguardasse il suo mondo, non gli misi
pressione. Per quanto non lo stessi notando, come io scoprivo di più su di lui
anche lui scopriva di più su di me. Anche io mi sentivo solo in quel periodo, e
mi aprii a quel prodigio della natura sul mio lavoro di consulente finanziario
in banca, sui miei reumatismi e su pensieri che mi tormentavano che non mai
avevo raccontato a nessuno.
Senza che me
ne accorgessi, quel Lampione e io stavamo diventando amici. Del resto, da una
certa età in poi non ce ne si accorge mai.
Dalla smorfia che Nicolet cerca di nascondere, direi che non si aspettava la mia
barba incolta.
«Hai deciso di tornare?». Ho provato questa scena almeno cinque volte negli
ultimi due giorni, e ora scopro che non riesco nemmeno a distogliere lo sguardo
dallo zerbino.
«No».
Vorrei sbatterle la porta in faccia, invece faccio un passo indietro per farla
entrare. Noto che sussulta varcando la soglia; immagino sia per il tanfo, visto
che a memoria non ho aperto finestre da quando se n’è andata. Per una che le
chiudeva giusto quando nevicava, perché tanto era abituata al freddo olandese,
dev’essere un bel colpo.
«Resto poco, tranquillo».
Chiudo la porta, ma non faccio scivolare il chiavistello nella gola. «La casa è
anche tua» dico alzando le spalle. Non è granché, ma voglio almeno provare a
fingere che la sua decisione sulla permanenza mi lasci indifferente. «Perché sei
venuta? Hai lasciato qui qualcosa?».
«Ho parlato con Valcasali delle pompe funebri». Nicolet si ferma solo a qualche
passo dall’ingresso, come se avesse paura di inoltrarsi troppo
nell’appartamento. Si volta, e lei sì che riesce a guardarmi negli occhi.
«Avremmo concordato il funerale per dopodomani. Sarebbe alle cinque, ma nel caso
faresti meglio a venire un po’ prima per…».
«Potevi telefonarmi».
«Volevo anche vedere come te la passavi».
Allargo le braccia. Non so se l’ha capito, ma doveva essere un: e allora? Sto
abbastanza di merda per i tuoi gusti?
«Giovedì va bene, quindi?» incalza lei.
«Come vuoi». Di nuovo, ho come l’impressione che il tono menefreghista non basti
a bilanciare la macchia di caffellatte sulla camicia.
Nicolet riapre la porta senza neppure aspettare che sia io a farlo. «Cerca di
rimetterti, per piacere. Non vorrei vederti così in chiesa».
«Non sarei così se non mi avessi lasciato».
«Smettila, non ti ho lasciato. Ho solo bisogno di capire se posso andare avanti
dopo quello che è successo».
«Ah». Spero che il mio sorriso appaia sarcastico come dovrebbe. «Giusto,
dimenticavo».
«Come mai oggi
parli poco?».
Trovai
alquanto carino che il Lampione si preoccupasse per me. Quella sera lo avevo
trovato meno luminoso del solito e avevamo intrattenuto una conversazione
leggera che neppure rammento, nondimeno si era reso conto che qualcosa non
andava. È sorprendente quanto di ciò che riteniamo umano non sia per nulla una
nostra esclusiva. «Mi hanno licenziato».
«Cosa
significa?».
«Alla banca
non piaceva il mio lavoro di consulente finanziario, quindi mi lasceranno a casa
e prenderanno qualcun altro». Annebbiato dal risentimento non lo ammisi di
fronte al Lampione, ma la banca aveva ragione. Erano almeno due settimane che
arrivavo alle undici in ufficio, ignoravo la maggior parte delle telefonate e
parlavo con i clienti come si fa con i cugini di terzo grado vagamente razzisti
che attaccano bottone a Natale.
«Cos’è un
consulente finanziario?» domandò il Lampione.
«Uno che aiuta
altre persone a usare bene i loro soldi».
«È molto
gentile da parte tua».
Ridacchiai.
Effettivamente a semplificarlo in quel modo sembrava quasi un atto di carità;
l’imbroglio era nelle sfumature. «In realtà quello è ciò che diciamo di fare.
Nei fatti vogliamo solo che le persone investano il più possibile in modo da
guadagnare sulle commissioni. Che siano felici non importa a nessuno».
«Oh. Questo
non è molto gentile».
«È uno
schifo».
«E perché lo
fai se non ti piace?».
Mi appoggiai
al muro dietro al Lampione. Tutt’ora non ho idea se fosse in grado di vedermi,
e se sì da quali angolazioni, ma quello fu indubbiamente un goffo tentativo di
nascondermi a lui. «Perché ho sempre avuto paura del futuro, immagino. Sono
sempre stato troppo attaccato alle certezze».
«Non capisco».
«Quando sono
uscito dal liceo credevo che tutto ciò che volevo fossero soldi, una vita
stabile, tempo libero per fare quello che mi pare e così via. Credevo che mi
sarebbe bastato essere un gregario a cui è richiesto il minimo sforzo possibile
e che sarei stato felice, perché a differenza degli altri mi atteggiavo da
pragmatico anziché da sognatore. Invece sono risultato molto meno pragmatico di
quanto mi aspettassi, nonché un altezzoso idiota. Cosa me ne faccio di tutto il
tempo libero se non ho una vita al di fuori del lavoro?».
«Continuo a
non capire il tuo problema» disse il Lampione con una certa inflessione di
dabbenaggine. «Va bene, hai sbagliato. Capita a tutti. Non puoi rimediare?
Andare a fare quello che ti piace?».
«Non lo so».
Fu la risposta più onesta che riuscii a dare. Le sue erano valide obiezioni, e
io non avevo di che controbatterle. «È che… Quando sei piccolo hai una certa
idea di come dovrebbe andare la tua vita. È una specie di binario: studi, ti
innamori, trovi un lavoro, ti sposi, vai in pensione. Puoi muoverti su questo
binario, rimodellare un poco le rotaie e fare qualche scambio lungo il tragitto,
ma quello è il modello secondo cui vivere. Non ti dicono mai cosa fare se
sbagli. Cosa succede se ti rendi conto troppo tardi che i soldi non sono la
motivazione di roccia che credevi? Cosa fai se a quarant’anni capisci che vuoi
lasciare un segno, fare qualcosa che ti piaccia davvero, e non puoi perché da
giovane sei stato stupido? Cosa fai quando sei solo e non sai da dove
ripartire?». Sospirai, scivolai lungo la parete e mi accovacciai al suolo,
troppo stanco per stare in piedi. «Ho paura di essere fuori tempo massimo. Ho
paura di aver sbagliato e di non avere più scambi per rientrare nel binario. Mi
rimane ancora almeno qualche decennio da vivere e non so cosa farmene».
Mi attesi una
replica, ma il mio amico non parlò. Spesso leggo che uno dei tratti del buon
ascoltatore è non ribattere a uno sfogo, ed è una posizione che non ho mai
capito. Avrei avuto bisogno che qualcuno mi prendesse a schiaffi, che mi facesse
rinsavire, non di tacita correità. Lasciare da solo un uomo depresso è l’idea
più idiota che riesca a concepire.
La luce del
Lampione si rarefece, lasciandomi quasi al buio. «Sei proprio come il Lampione
Aristodemo».
Mi sentii in
un certo senso tradito, e quella notte non parlammo più. Nella mia ingenuità mi
sarei atteso parole di conforto, un consiglio, perfino un punto di vista nuovo,
ma al mio amico quei dilemmi apparivano superficiali e sterili. Con il senno di
poi, forse non mi sarei dovuto aspettare granché su argomenti a lui così lontani
come il timore di una vita sprecata. Cosa poteva saperne un Lampione?
Mi servì del
tempo per scegliere le parole giuste. Anche quando finalmente fui convinto di
ciò che dovevo dire, trascorsero due sere prima che trovassi il coraggio. Alla
terza, sotto un cielo terso, un asprigno odore dicembrino nell’aria e un
cappotto mimetico indosso per combattere il canto del cigno dell’inverno, mi
costrinsi a vuotare il sacco.
«Va tutto bene
con la luce?».
«Che vuoi
dire?» domandò il Lampione.
Speravo non
l’avrebbe fatto. Speravo che avrebbe avuto la dignità di affrontare il problema,
perché non poteva non essersene accorto. Invece doveva rendermi le cose
ancora più difficili. «La tua luce. È più debole rispetto a quando ti ho
incontrato, e a volte va e viene».
«Non è vero».
«Certo che lo
è. Nel caso tu non l’abbia notato sei l’unica luce qui. È molto facile
accorgersene».
«Penso di
conoscermi meglio di quanto tu p––».
Si interruppe,
e la sua lampada si spense. Il buio non durò più delle altre volte, un secondo o
anche meno, ma quando si riaccese il Lampione era ammutolito, e tale restò per
parecchio. Di primo acchito pensai che l’essere smascherato davanti a me
l’avesse fatto sprofondare nell’imbarazzo, ma mi accorsi presto che la questione
era diversa.
Era la prima
volta che gli succedeva nel mezzo di una frase. Credo si fosse reso conto solo
in quel momento che il problema evadeva il suo controllo, e credo che la cosa lo
terrorizzasse.
Non dissi
nulla. Attesi che il mio amico scendesse a patti con la sua epifania.
Finalmente, dopo diversi minuti di riserbo, parlò. «Mi sto spegnendo».
Non posso
fingere che non lo stessi quantomeno sospettando, ma sentirlo da lui fu un’altra
cosa. Fu quando mi resi conto che era reale, che stava accadendo.
«È quello che
è successo a tutti gli altri Lampioni» proseguì. «Prima si trattava di tremolii
che quasi non si notavano, poi sono peggiorati fino a spegnersi. Sta per
succedere anche a me».
«Com’è
possibile?».
«È così che
va».
Il tono
lapidario, del tutto antitetico al suo consueto candore, mi colse impreparato.
Di solito dovevo abbassare il mio livello per adattarmi al suo vocabolario
ristretto, ma questa volta era lui a guidare me. «Dimmi come aiutarti».
«Non puoi».
Mi venne
voglia di tirare un cazzotto a quel palo di metallo.
Posso essere
sincero? Non ne vado fiero, ma comprendo le mie ragioni di allora. Dopo la sua
totale incompetenza nell’aiutarmi durante notte più buia della mia vita, chi era
per decidere cosa io potessi o non potessi fare? Per quanto fosse in grado di
parlare e offrisse un punto di vista talvolta affascinante sul mondo, un
lampione era e un lampione restava. Non avrei dovuto aspettarmi nulla di più:
questo significava perdonarlo per come mi aveva trattato, ma anche smetterla di
dargli corda nemmeno fosse un luminare. «Certo che posso. Se mi brucia lo
stomaco la Roncaioli mi può prescrivere il suo schifo di Anacidol. Se sto male
per il licenziamento vado da lei e sento se prendere antidepressivi. È così che
funziona».
«Noi non
abbiamo quelle cose».
«Siete
macchine!» sbraitai, con un timbro più acuto di quanto avrei
preferito. Non poteva essere serio. Stava morendo, ecco cosa. Stava morendo e
non sapeva cosa diceva. Ognuno del resto reagisce a modo suo. «Noi vi abbiamo
inventati. Chiamo un tecnico e ti ripara! Cosa c’è di così difficile?».
«Io non sono
una macchina».
«Certo che lo
sei, cazzo!».
Non sono mai
stato avvezzo al turpiloquio, l’ho sempre ritenuto la risorsa di chi ha esaurito
le argomentazioni. Mi sorpresi quindi che proprio il serenissimo Lampione mi
avesse spinto così lontano dal mio temperamento abituale. Inspirai per ritrovare
la calma. «Lo siamo tutti. Lo era anche il tuo amico, per questo passava il
tempo a farsi quelle domande che credi tanto stupide. Nessuno di noi riesce a
capire perché se siamo macchine non ci comportiamo come tali».
«Io non sono
una macchina».
«E invece sì.
Solo che pensi che se non ti fai domande, se accetti ciò che ti arriva per come
è senza chiedertene le ragioni, allora non dovrai fare i conti con quello che
sei. Così inizi a pensare che forse sei invulnerabile, che sei più al sicuro
degli altri perché non puoi concepire la tua inesistenza. Che non parli perché
le corde vocali vibrano, parli perché Dio o il destino ti hanno fatto così». Il
vento proveniente da nord sferzò il mio volto in un guizzo di intensità. Mi
strinsi nel cappotto. «Lo so benissimo perché anche io ero come te. Ma non
funziona così. Se anche vuoi far finta di essere speciale, resti sempre un
groviglio di cavi come io resto un groviglio di vene e arterie».
«Ascolta…».
«E sai cosa?
Non ti permetterò di fare così, perché a te potrà andare benissimo di morire, ma
a me no. Non voglio che tu muoia. Ti aggiusterò, che ti piaccia o meno».
Su quella
conclusione che non sapevo io stesso se fosse una promessa o una minaccia, mi
incamminai per risalire la via e tornare a casa.
«Aspetta. Per
favore, aspetta!» mi gridò dietro il Lampione. La sua voce aveva perso ogni
concisione e ora tradiva solamente paura, ma io non mi voltai.
E non mi resi
conto che la luce del mio amico ormai era poco più di un lumicino.
La mia mano destra è occupata dal portafogli. Premo con il palmo sinistro il
taccuino contro lo scaffale delle gomme da masticare per tenerlo fermo, mentre
con la penna stretta alla bell’e meglio tra pollice e indice scarabocchio un
appunto. È illeggibile, spero che l’idea non mi sfugga di mente durante il
tragitto dal supermercato a casa.
Questi momenti sono i soli in cui la pressione al torace mi dà tregua.
«Scrivi?».
Sussulto. Ero rimasto alla signora Giuliana che non trovava la carta di fedeltà,
e ora di lei non c’è neppure traccia. Martino, da dietro la cassa, sta già
battendo gli ultimi wafer.
«Sì, ma nulla di che. Mi fai anche un sacchetto?».
«Subito».
Inizio a sfogliare le banconote all’interno del portafogli, ma un cenno della
mano di Martino mi interrompe.
«Ehi, Lisca, lascia stare. A posto così».
«Perché?» chiedo, anche se lo so benissimo il perché. Anzi, a essere onesti non
capisco fino in fondo come mai gliel’abbia chiesto comunque. Forse sono solo un
quarantenne astioso che vuole vedere gli altri in difficoltà quanto lui.
Martino finisce di imbustarmi la spesa e fa scivolare il sacchetto rigonfio sul
fondo della cassa. «Non ho parole per quello che è successo. Le volevamo tutti
molto bene».
Solo ora mi rendo conto che tutti mi stanno osservando. Le due vecchie in fila
dietro di me, il commesso sulla soglia del retrobottega, perfino il buttafuori
all’ingresso, tutti mi fissano come aringhe crude schierate nel ghiaccio del
banco frigo. Se resto un istante di più le bottiglie di cassis dietro alla cassa
non faranno una bella fine. Infilo portafogli e taccuino nelle tasche
posteriori, afferro il sacchetto per il manico ed esco dalla superette evitando
gli occhi di tutti. Per fortuna nessuno commenta ad alta voce.
È una giornata senza nuvole, e questo mi innervosisce ancora di più, perché a
Milano piove spesso ma oggi ovviamente c’è il sole. C’è sempre il sole quando
vorresti morire.
Arresto il passo dopo una decina di metri e tiro un pugno contro il muro irto di
granuli del palazzo più vicino.
Ne tiro un altro. I dorsi delle dita cominciano a pulsare, ma non mi fermo.
Continuo a tirare pugni ancora e ancora, finché le nocche spellate non sporcano
di sangue l’intonaco. E per buona misura vado comunque avanti.
Come se servisse a qualcosa.
Mi vergognai
molto di me stesso quando, un giorno dopo la mia sfuriata, mi ripresentai
davanti al Lampione.
«Sono felice
che tu sia tornato» mi disse. Anche il suo tono esprimeva contentezza.
Ciò mi fece
sentire ancora di più uno schifo. Non è per nulla facile odiare qualcuno quando
quel qualcuno sembra del tutto incapace di risponderti per le rime. Finisci per
ridirigere quell’odio su te stesso, perché sei quello che non riesce a mantenere
il controllo. Sei l’immaturo. La cosa, almeno personalmente, mi è sempre stata
fonte di frustrazione. «Mi dispiace. Io, ieri ho… Non volevo».
«È tutto a
posto. Hai cambiato idea?».
Presi un
respiro profondo. «No».
«Oh».
«No, però
ascoltami, ci ho riflettuto con calma. Si può risolvere. Chiamerò il comune, gli
dirò di ripararti. Anzi, vi farò riparare tutti».
«Perché devi
andare contro lo svolgimento naturale delle cose?». Da come parlò, il Lampione
non mi parve seccato o deluso: mi parve solo stanco. Ai tempi non ci pensai, ma
sospetto che volesse trascorrere gli ultimi giorni che gli rimanevano in ben
altro modo.
Invece, idiota
com’ero, persistetti nel rubargli quel poco tempo residuo in una crociata
egocentrica persa in partenza. «Perché me lo merito. Dopo tutto lo schifo che ho
passato penso di avere diritto a un minimo di risarcimento dall’universo. Non è
possibile che tutto quello che sa fare sia procurarmi un cappio. Non lo accetto.
Se non mi fa aggiustare la mia vita può almeno lasciarmi aggiustare te».
«L’universo ha
già dettato le sue regole. Non possiamo cambiarle in corsa. Dobbiamo conviverci
e fare del nostro meglio finché ne abbiamo le possibilità».
«È esattamente
quello che sto cercando di fare» risposi. «Finché l’universo non deciderà di
farmi investire da un’auto, io sono libero di fare ciò che voglio. E poi se
questo è il tuo punto di vista non capisco perché ti opponi. Più tempo ti faccio
guadagnare meglio potrai fare, no?».
«Però sappiamo
entrambi che non è sempre vero, giusto?».
Un nodo alla
gola delle dimensioni di un nocciolo di pesca mi annunciò che avevo
ufficialmente perso.
Fino a quel
momento mi ero aggrappato alla convinzione di essere quello che ne capiva di
più. Per conciliare quella certezza con l’ovvietà che il Lampione stava vivendo
quei problemi e non io, pensavo forse ingenuamente che qualsiasi malattia lo
affliggesse lo stesse invalidando anche nella mente, o qualsiasi equivalente
fosse a lui in dote. Fu un rozzo tentativo di giustificare la mia supponenza.
Tuttavia il
Lampione ricordava la mia confessione, quella della mia notte più buia che
credevo nemmeno avesse ascoltato fino in fondo. Se ciò mi scaldava il cuore,
d’altronde fu la prova che non avevo davanti un povero pazzo incapace di
intendere e volere: avevo davanti una creatura lucida a cui io importavo. E io
non avevo il diritto di insistere per cercare di rovesciare una decisione che
quella creatura lucida doveva aver sofferto.
Quella fu la
mia resa. Mi appoggiai al suo palo con la spalla destra e smisi di combattere.
«Perché non
vuoi che ti aiuti?».
«Perché so che
non puoi. Dentro di me non sento cavi che sfrigolano. Non sento interruttori
inceppati o filamenti spezzati». Il mio amico si fermò, credo proprio per
riuscire a trovare le parole giuste. «Sento la mia luce che se ne va. Non è la
macchina che si sta rompendo, sono io. Non so come spiegartelo, ma lo sento. Non
è qualcosa che voi umani sappiate aggiustare».
Un clacson
strombettò due volte in lontananza. Di solito in quella strada i rumori non
arrivavano mai. «Come puoi saperlo?».
«Perché ho
visto te».
Ebbi la vivida
impressione che il Lampione, attraverso la sua maschera di vetro e fusibili, mi
stesse rivolgendo un sorriso compassionevole.
La parte peggiore del funerale è la bara. A parte le due figlie di Ambra,
praticamente tutti i presenti hanno già assistito alle onoranze funebri di
qualcuno. Adesso che è stata trasportata al centro del transetto, anche chi come
me non ne è pratico se ne rende conto.
È troppo piccola. Un cadavere adulto non potrebbe mai entrarci. Ogni volta che i
miei occhi vi si posano sopra, una stretta al torace mi ricorda perché siamo
qui.
Sono certo che anche Nicolet la avverta mentre sale sul pulpito per l’elogio
funebre. I fasci di luce entranti dalla coppia di finestre ai lati dell’abside
la fanno sembrare protagonista di un quadro biblico, perché naturalmente anche
oggi c’è il sole.
«Vi ringrazio per essere venuti».
Non ha nessun foglio, deve essersi imparata il discorso a memoria. Nonostante
voglia spezzarle le gambe per come mi ha trattato, non posso non ammirarla.
Salire all’altare e affrontare da sola quell’inferno senza nessuno accanto… Mi
brucia accettarlo, ma io non ce l’avrei fatta.
«Ho pensato molto a cosa dire. Alla fine ho concluso che con voialtri potrò
parlare ancora a lungo. Perciò in questa occasione vorrei rivolgermi a te,
Chiara».
Reprimo a fatica un conato di vomito. Non ho più sentito quel nome pronunciato
ad alta voce da quando sono uscito dall’ospedale. Per sette anni ho dato per
scontato il suo suono, urlandolo quando i wafer sparivano misteriosamente dalla
credenza e sussurrandolo quando era ora di svegliarsi per scuola.
Sono bastati cinque giorni per scordarmi quanto mi piaceva il modo in cui
schiocca sulle guance. Pensare che Chiara diceva che da grande l’avrebbe
cambiato in Selena.
«Sei stata la parte migliore della mia vita. Ricordo quanto eri piccola nella
culla dopo il parto, e ricordo quanto in fretta hai smesso di esserlo. Ricordo
come il tuo corpicino è diventato quello di una splendida bambina. Ricordo la
tua prima parola a un anno e mezzo. Pigra com’eri, ti prendesti il tuo tempo».
Alzo lo sguardo al crocifisso. Nonna Camilla diceva sempre che nei momenti
veramente difficili avrei capito l’importanza della fede, ma io non vedo nulla.
Il Cristo è sempre la stessa sagoma di legno, sempre troppo distaccato e sereno
per uno a cui hanno inchiodato mani e piedi. Uno così dovrebbe capire ciò che
provo?
«Quando ti ho accompagnata al tuo primo giorno di asilo non te ne sei accorta,
ma avevo gli occhi umidi. Era la prima volta che ti lasciavo a qualcun altro
dopo che per tutto quel tempo eri stata solo mia e di Luca».
E allora, nonna? Dov’è il tuo Bambin Gesù? Dov’era il Bambin Gesù quando io e
Nicolet facevamo i turni in ospedale? Dov’era il Bambin Gesù quando Chiara mi
chiedeva se i capelli le sarebbero ricresciuti? Dov’era il Bambin Gesù in quella
notte di neve di febbraio in cui ha provato a stringermi la mano e ho sentito la
debolezza della sua presa, così leggera che una folata di vento me l’avrebbe
portata via e ho capito, anche se i dottori dicevano di non aver ancora provato
tutto ho capito che quell’estate non sarei andato con mia figlia al mare a
costruire castelli di sabbia, a metterle i braccioli, a spalmarle la crema sulla
schiena? Dov’era il Bambin Gesù mentre mi sforzavo di non piangere per non farla
preoccupare? Dov’era, nonna? Dov’erano tutti?
«Avrei voluto accompagnarti a tanti altri primi giorni. Avrei voluto essere con
te al tuo primo ragazzo o alla tua prima ragazza, alla notte prima del tuo esame
di maturità, alla tua laurea, al tuo matrimonio. Se quel brutto male non ci
fosse mai stato, avrei––».
Mi alzo in piedi. Nicolet si interrompe. Ci guardiamo. Sembra implorarmi
silenziosamente di non guastare quel momento, ma non me ne frega nulla.
«Brutto male? Fai sul serio? Ti fa paura dire cancro? Pensi che nessuno qui lo
sappia? Pensi che la riporterà indietro? Chiara non si merita nulla di meglio di
quella frasetta del cazzo?».
Gli occhi di mia moglie sono così misericordiosi. Sono sicuro che anche quelli
seduti dietro hanno quello sguardo. Compatiamo il povero Luca, non ha retto il
colpo. Ah, signora mia, sono cose che non si sanno finché non le si vive.
«Kutwijf». È l’unico insulto in olandese che conosco, Nicolet lo usava sempre
per la direttrice del suo reparto. Ovviamente riesco a darle della troia solo se
gli altri non possono capirlo.
Per poco non inciampo nell’inginocchiatoio mentre mi alzo dalla panca. Quando
inizio a vergognarmi del mio comportamento sono già a metà strada verso l’uscita
della chiesa.
Un po’ troppo tardi per tornare indietro e far finta di nulla, eh?
Mi guardano tutti, come ieri al supermercato. Ma stavolta li affronto, li scruto
negli occhi uno a uno mentre scendo lungo la navata centrale. E uno a uno
abbassano lo sguardo sulle panche di legno, da codardi quali sono.
Esco. Nel giardino antistante la basilica spira una frescura che porta con sé
quel profumo nostalgico tipico dei primi giorni di primavera. Fa più caldo che
all’interno, quindi staziono all’ombra del nartece e slaccio i bottoni della
giacca.
Il portone cigola di nuovo come quando l’ho aperto io. Mi volto giusto in tempo
per vedere mio padre che mi ha raggiunto qui fuori.
L’ultima volta che l’ho visto in abito nero è stato dieci anni fa per il mio
matrimonio. Rispetto ad allora le rughe sul suo viso sono più scavate e la barba
si è imbianchita. Prima della diagnosi di Chiara il mio incubo più frequente era
vederlo collassare con la mano premuta sul petto.
Vorrei che mi sgridasse, che mi urlasse in faccia di chiedere scusa. Invece
rimaniamo in silenzio a guardarci.
Poi papà apre le braccia e io sprofondo nella sua spalla, impregnando di lacrime
il bavero ormai sfilacciato. Piango nella sua stretta come quella volta che
Mirko e Renzo mi rubarono gli Stabilo alle elementari, come quella volta che
Marina mi lasciò il giorno prima dell’interrogazione su Montale, come quella
volta che la banca mi licenziò tre mesi dopo la nascita di Chiara.
Questa sono certo sia la peggiore di tutte, ma forse lo pensavo anche delle
altre.
La notte in
cui vidi per l’ultima volta il Lampione pioveva. Quando è inopportuno a Milano
piove sempre.
Non fu
necessario che il mio amico mi informasse che la fine era vicina. Il cono di
luce da lui proiettato era ormai a malapena grande abbastanza da contenermi, e
la sua tinta giallo vivo aveva lasciato il posto a un pallore malaticcio simile
a quello di una lampada al neon. Mi ero accucciato sotto di lui, anche questa
volta senza ombrello, e goccia dopo goccia vedevo il suo chiarore affievolirsi
gradualmente. Si sarebbe detto che volesse spegnersi con grazia.
Per molto
tempo nessuno dei due parlò. Non so perché il Lampione tacque, ma io non trovavo
nulla da dire. Dopo le ultime burrascose notti, quello sembrava solo un buon
momento per trascorrere senza parole i nostri ultimi momenti insieme in
compagnia dei tuoni, due sagome nella tempesta.
«Secondo te
cosa succede dopo?» domandò finalmente il Lampione dopo quelle che mi parvero
ore. Gli fui grato per essersi caricato sulle spalle il fardello di rompere il
silenzio.
«Secondo te?».
Alzai il capo verso la sua lampada. Non era neppure più in grado di abbagliarmi.
«Non lo so.
Non me lo sono mai chiesto».
Reclinai la
testa sul suo palo metallico. Credo che anche parlare fosse ormai uno sforzo non
indifferente per il Lampione, perché la sua luce tremolava a ogni parola. «E
secondo Aristodemo? Lui cosa ne pensava?».
«Lui diceva
che dopo esserci spenti saremmo stati liberi di muoverci. Non saremmo più stati
vincolati alla strada e avremmo potuto esplorare la città e forse anche oltre».
Sorrisi. «È
una bella prospettiva».
«Però è
stupida, vero? Non è possibile che succeda».
«Perché no?»
ribattei abbassando lo sguardo. «Non ho la minima idea di come tu possa
esistere. O come possa io esistere,
per la verità. Come possiamo escludere ipotesi su ciò che non comprendiamo?».
Credo che il
Lampione fosse stato rinfrancato da questa risposta. Io di sicuro lo fui, perché
consolò prima di tutto me. A chi non farebbe piacere credere che ci sia
qualcos’altro oltre a questo mondo, quando in questo mondo le cose vanno così
male?
Fu qui che
avvertii i miei occhi farsi umidi. A fregarmi non fu l’idea che il Lampione non
ci sarebbe stato più; fu la consapevolezza che, con ogni probabilità, nulla di
tutto quello che mi aveva raccontato si sarebbe avverato. Non ci sarebbe stato
alcun viaggio dopo lo spegnimento. Non ci sarebbe stata neppure un’interminabile
tenebra senza uscita. Non ci sarebbe stato nulla. Io sarei andato avanti e lui
no, e nient’altro.
«Sono felice
di averti incontrato» disse il Lampione.
Le lacrime
pesavano sulle palpebre come macigni, ma mi rifiutai di lasciarne scivolare
anche solo una giù per il volto. Non davanti a lui. «Anche io».
«Posso
chiederti un favore?».
Annuii.
«Quello che vuoi».
«Potresti
chiudere gli occhi?». La sua voce, ora un fischio appena udibile, aveva una
dolcezza che prima era assente, o che forse non avevo notato. «Non voglio che tu
mi veda mentre succede».
Accettai la
richiesta. Lo feci per fargli un favore, anche se ora mi rendo conto che era lui
a voler fare un favore a me, risparmiandomi il dolore di guardare. Le mie ciglia
calarono come un pettine sulle lacrime raccolte lungo l’orlo degli occhi, e
qualcuna di queste ultime ne approfittò per sottrarsi alla presa e colare lungo
le guance. Tutto ciò che ero in grado di vedere a palpebre serrate era un fondo
buio tinteggiato da sfumature arancioni.
All’inizio
altro non vi scorsi che una poltiglia informe. Poi iniziarono a emergere
contorni, sagome, e infine forme vere e proprie in cui riconobbi quei
caratteristici palazzi color biscotto di cui Milano è piena. Li vidi abbassarsi
sotto l’orizzonte e mi resi conto che non erano loro a farlo, ero io che mi
alzavo e volavo, contemplando la macchia di edifici estesa fino alle periferie,
e le Alpi sul fondo così distanti da sembrare un cartonato. Tutto monocolore,
sfumato e sporco come un acquerello, eppure così vivo…
E sperai che
il Lampione Aristodemo avesse ragione, che davvero il mio amico avrebbe potuto
vedere quello spettacolo, che avrebbe potuto librarsi e magari volare via, via
verso altre città che neppure io avevo ancora visto, e che sarebbe potuto
tornare da me quando fosse stato il momento e raccontarmi, e portarmi con lui, e
mostrarmi il mondo che lui aveva avuto il privilegio di ammirare per primo e
poi…
E poi…
Poi
l’arancione si spense e rimase solo il nero.
Fu allora che
mi venne in mente, in un crudele scherzo delle mie sinapsi, la cosa più
importante che avrei voluto dire al Lampione. Sperai che non fosse ancora giunto
il momento, che fosse un’interruzione temporanea come le altre volte. Sperai che
l’universo mi accordasse almeno un’ultima occasione di parlargli.
Ma il Lampione
non si riaccese.
Solo a quel
punto, al buio e con il volto imbevuto di pioggia, mi concessi di piangere.
Penso che sia passata una settimana dal funerale, ma non potrei giurarci. In
questa casa il tempo non passa mai. Nicolet non è tornata, né mi aspetto che lo
faccia dopo il modo in cui l’ho trattata.
Quando gli porto il caffè, papà sta leggendo i fogli che ho lasciato sparsi sul
tavolino in salotto. «Non sapevo scrivessi» mi dice.
Appoggio la tazzina davanti a lui e mi siedo dal lato opposto del divano. «Ho
iniziato da poco» mi schermisco. E lo so, sto facendo la stessa cosa di cui ho
accusato Nicolet, perché sia io che papà sappiamo cosa significa “da poco”, e
chi è il Lampione, e tutto il resto, e non ho comunque la forza di dirlo. Ho una
scusante legittima: sono un idiota.
«Come inizio non c’è male. C’è anche più umorismo di quanto mi sarei aspettato».
«Mi ha aiutato». Noto che la finestra è aperta. Probabilmente nemmeno mio padre
è in grado di reggere il tanfo in cui vivo immerso. «Però non ho un finale».
«No?».
«Sono arrivato al punto in cui il Lampione si spegne, ma non so come
proseguire».
«Grazie mille, ero ancora alla seconda notte». Papà ridacchia appena. Poi
ingurgita il caffè in un sol sorso, incurante della temperatura. «Non hai
idee?».
«Ne ho due in mente. Nella prima il cittadino ritorna nella via molto tempo dopo
e la trova disseminata di lampioni accesi. Tutti riparati, schierati uno dietro
l’altro e intenti a conversare nel deserto della notte. Si zittiscono alla vista
del cittadino e il suo Lampione gli dà il bentornato».
Papà posa la tazzina e annuisce. «L’altra?».
«È quasi uguale. L’uomo torna e tutti i lampioni sono accesi. La sola differenza
è che sono tutti muti». Aspetto che ribatta, ma non sembra intenzionato. Lo
incalzo «Quale preferisci?».
«Vuoi che sia completamente onesto?».
«Sì».
«Non mi piace nessuna delle due».
Mi sfugge il mio primo accenno di sorriso da chissà quando. Lo nascondo subito,
nemmeno fosse una colpa. «Questa non me l’aspettavo».
«In entrambe le versioni il cittadino non ha spirito d’iniziativa. È rimasto in
balia degli eventi e ogni premio o castigo è immeritato. La sua presenza non
cambia nulla».
«È quello che è successo. È quello che succede nella vita». Non era mia
intenzione, ma il tono della mia voce suona alquanto polemico.
Papà appoggia il mento sul dorso della mano. «Ma non è una buona storia».
«Beh, non posso cambiarla, giusto?».
«Luca, che cazzo stai dicendo?».
Scrollo appena il capo. Mio padre non è quasi mai volgare, d’altronde ho preso
da lui, quindi le volte in cui fa eccezione sono un antidoto alle mie
distrazioni. Devo dire che ne avevo bisogno.
Ora che ho ripreso a concentrarmi, però, non sembra arrabbiato come credevo. In
effetti giurerei che mi stia sobriamente prendendo in giro. «Sei lo scrittore.
Chi altri dovrebbe cambiarla?».
Non so per quanto stiamo in silenzio dopo quella frase.
Credo molto.
Credo anche di avere un’espressione davvero stupida stampata in faccia per tutto
quel tempo.
«Devo andare. Ambra mi ha chiesto di badare alle due creature». Papà si alza, e
io faccio lo stesso. Insieme camminiamo lungo il corridoio all’ingresso. «Ci
sentiamo un giorno di questi? Magari vieni a mangiare fuori una domenica».
«Come alle medie. Sarebbe bello».
Ci stringiamo in un abbraccio, completo di quella stravaganza delle manate sulla
schiena che gli uomini fanno per preservare la propria illusione di virilità.
Aspetto sulla soglia mentre mio padre esce. Lo guardo montare sull’ascensore e
scendere giù, giù, lontano da me. Eppure, e la cosa mi sorprende, mi sento meno
solo del solito.
Sto per chiudere la porta quando avverto uno spiffero che spira dall’interno
della casa. La finestra che papà ha aperto in soggiorno sta creando corrente con
il pianerottolo, spazzando via un poco dell’aria stantia che permea
l’appartamento. Oggi non c’è il sole, ma l’aroma diffuso è comunque piacevole.
Chiudo e blocco il chiavistello, ma vado subito a spalancare la finestra in
cucina per ripristinare la brezza.
Inspiro.
È davvero profumata.
Credo che questo pomeriggio scenderò in lavanderia e vedrò di sciacquar via
questa benedetta macchia di caffellatte dalla camicia.
Sono trascorsi
tre mesi da quando il Lampione si è spento. Ho visitato la via alcune volte da
allora, ma né lui né i suoi compagni si sono riaccesi. I palazzi che
fiancheggiano il marciapiede sono quasi tutti depositi o fabbriche, quindi
dubito che qualcuno farà reclamo per l’assenza di illuminazione pubblica, almeno
per un po’.
Non è stato
facile. Essendo ormai senza lavoro, la prima settimana senza il Lampione l’ho
trascorsa sul divano, uscendo di casa giusto per andare al supermercato
all’angolo e non morire di fame. È servito del tempo perché riuscissi a uscire
da quella parentesi onirica e riavvicinarmi alla realtà, rendendomi conto che
essa non si era fermata con me. Per distrarmi ho svolto qualche ricerca su
Internet, ma gli unici risultati alla voce “lampione parlante” sono stati
avanzamenti tecnologici nel campo dell’illuminazione stradale e metafore
azzardate in racconti dal dubbio valore letterario. Agli occhi della fetta di
umanità che si intrattiene nella rete, il mio Lampione non esiste.
Tuttavia non
ho intenzione di arrendermi. Se anche solo un Lampione mi ha parlato significa
che altri devono esserne in grado. Potrebbero non trovarsi in Italia, o in
Europa, ma non è concepibile che tutti gli esemplari al mondo fossero
fortuitamente riuniti in una stradicciola disabitata di Milano. Dovunque siano,
ho intenzione di partire e trovarli.
La ragione per
cui ho trascorso così tanto tempo con il mio Lampione era, almeno in principio,
che volevo capire come potesse essere senziente. Credo di poter affermare con
discreta fiducia che la cosa non mi interessa più. Come accettiamo più o meno
consciamente che gli esseri umani esistono senza sapere come, o perché proprio
noi, o se abbiamo un ruolo o siamo frutto di coincidenze, altrettanto intendo
fare con qualunque Lampione incontrerò. Al mio Lampione questa decisione sarebbe
piaciuta. Lui quella cascata di quesiti esistenziali l’avrebbe definita con
pochi arzigogoli “domande stupide”.
Sarebbe banale
dire che ironicamente, o
per uno scherzo del destino, nonostante io fossi più esperto del
Lampione alla fine lui abbia insegnato qualcosa a me. Non credo sia andata così.
Non credo vada mai così. Solo ai saggi è elargito il dono di insegnare. Ciò che
io e il Lampione imparammo l’uno dall’altro non fu insegnato, fu conquistato
congiuntamente a partire da esperienze condivise. Così è come la vedo,
perlomeno.
Quando troverò
un altro Lampione gli spiegherò la situazione, gli racconterò questa storia e
spererò che cedendo alle mie irritanti suppliche accetterà di aiutarmi. Insieme
cercheremo di capire cosa ci sia all’origine dello spegnimento e se sia
possibile invertirlo. E se così fosse tornerò in quella dannata via dalle
pozzanghere scivolose e non ne uscirò finché non sarò riuscito a riportare qui
il mio amico. Chissà, forse lui mi avrà seguito per tutto quel tempo a mia
insaputa, libero di muoversi nel mondo come il Lampione Aristodemo fantasticava.
A quel punto
potrò finalmente dirgli la cosa importante che mi è venuta in mente pochi
secondi dopo il suo spegnimento. Mi si perdonerà se non ho intenzione di
rivelarla, ma è una questione privata tra me e il Lampione. Comunque, in tutta
onestà, non credo sia troppo difficile da indovinare.
Potrei fallire. Potrei non imbattermi in
nessun Lampione senziente, o potrebbe non essere in grado di aiutarmi, o
potrebbe essere impossibile farlo come è impossibile revocare la morte. In tal
caso, spero solo che nel mio viaggio avrò trovato qualcosa che mi faccia dire
che ne sarà tutto sommato valsa la pena. Se la fortuna gira, potrei perfino
imbattermi in un ultimo scambio e infilarmi a tradimento in un nuovo binario.
Forse il
Lampione aveva ragione, forse ci sono cose che non possono essere aggiustate. Ma
forse aveva torto.
Del resto, che
cosa può saperne un Lampione?