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Autore: BabaYagaIsBack    02/09/2017    1 recensioni
Re Salomone: colto, magnanimo, bello, curioso, umano.
Alchimista.
In una fredda notte, in quella che ora chiameremmo Gerusalemme, stringe tra le braccia il corpo di Levi, come se fosse il tesoro più grande che potesse mai avere. Lo stringe e giura che non lascerà alla morte, il privilegio di portarsi via l'unico e vero amico che ha. Chiama a raccolta il coraggio e tutto ciò che ha imparato sulle leggi che governano quel mondo sporcato dal sangue ed una sorta di magia e, per la prima volta, riporta in vita un uomo. Il primo di sette. Il primo tra le chimere.
Muovendosi lungo la linea del tempo, Salomone diventa padrone di quell'arte, abbandona un corpo per infilarsi in un altro e restare vivo, in eterno. E continuare a proteggere le sue fedeli creature; finchè un giorno, una delle sue morti, sembra essere l'ultima. Le chimere restano sole in un mondo di ombre che dà loro la caccia e tutto quello che possono fare, è fingersi umani, ancora. Ma se Salomone non fosse realmente morto?
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Capitolo Undicesimo
Chi Non Muore Si Rivede

 

"Open your eyes   
Cause you're never gonna know if your next move might be your last
Living a lie"

Losing my mind (Falling in reverse)


 

Levi si strinse una mano sul petto, quasi potesse già avvertire la bruciante sensazione che lo aveva sopraffatto a Praga mesi prima. Sentiva il proprio torace vibrare all'agitarsi compulsivo del cuore; percepiva la carne scaldarsi dolcemente sotto ai vestiti - peccato che a essere onesti non avesse idea di come rintracciare Salomone nella miriade di corridoi e stanze dell'edificio di fronte a loro. Sperava di cogliere ancora la sua presenza, ma non aveva la certezza che sarebbe accaduto - dopotutto non si erano mai allontanati per così tanto tempo l'uno dall'altro, non sapeva come il suo corpo mutato avrebbe reagito. Forse il legame che li univa avrebbe ancora una volta fatto scaturire in lui qualcosa, oppure se ne sarebbe rimasto sopito, facendolo passare per fesso davanti agli occhi dei fratelli.

Chissà se lui, il suo Re, lo avrebbe scorto tra la folla. Chissà se avrebbe riconosciuto il suo volto, il suo portamento, il sangue che gli scorreva nelle vene e la vita che gli aveva donato. Chissà se l'Ars avrebbe fatto tremare entrambi o solo lui. 
Nakhaš se lo domandò stringendo maggiormente la presa sulla t-shirt, cercando in qualche modo di sfogare la tensione che si era fatta pian piano più opprimente. La sua era eccitazione mista a paura, era il febbricitante desiderio di portare a compimento qualcosa di estremamente importante, la bramosia di rivedere suo fratello, l'unico e vero, nonché l'uomo per cui era ritornato dall'Inferno e aveva rinunciato a... 

Salomone doveva essere lì.

D'un tratto, silenziosa come un'ombra, Alexandria gli si affiancò. Con la coda dell'occhio Levi la vide osservare con espressione tesa la facciata dell'edificio e, per un attimo, desiderò sentirle dire qualcosa, qualsiasi; voleva solo essere certo che fosse ancora intenzionata a seguirlo.
Da quando si erano svegliati infatti, né lui né Zenas l'avevano sentita pronunciare mezza parola. La Contessa Varàdi si era chiusa in se stessa cercando di nascondersi dietro a una maschera di nervosa indifferenza, eppure era certo che anche lei avesse la testa piena di pensieri e il petto colmo di emozioni contrastanti come lui - lo capiva dai gesti, dagli sguardi e, purtroppo, anche da quel silenzio.

«Se entrassimo tutti e tre dubito che potremmo passare inosservati» brontolò Akràv facendo un passo in avanti. Tra le mani teneva il terzo cornetto della mattinata e, a differenza loro, sembrava davvero essere quello meno emozionato per l'imminente incontro. «Tre strambi insieme generano troppo scalpore» aggiunse dopo l'ennesimo morso.
«Quindi vuoi negare a due di noi la possibilità di vederlo?» La voce di Z'év uscì roca, seppur bassa come un sussurro. Non si scompose, men che meno distolse lo sguardo dall'edificio. Sembrava di pietra, eppure lui riuscì a scorgervi le prime crepe.
«No, assolutamente. E' qualcosa di importante per tutti noi, però al contempo mi rendo conto che insieme potremmo generare interesse e al momento non possiamo permettercelo. Inoltre serve qualcuno che faccia la guardia.»
«Ed è ovvio che Levi sia il solo ad avere il reale diritto di entrare lì dentro» mutamente tutti lo avevano dato per scontato, ma sentirlo dire, con quel tono, lo fece tentennare. Avrebbe voluto essere così magnanimo da cedere il proprio onore a uno di loro, ma purtroppo le labbra non si schiusero - era lui a dover incontrarlo.

Zenas piegò la testa da un lato, poi dall'altro. Con lo sguardo perso altrove e il mezzo cornetto alla marmellata davanti al viso parve soppesare quelle parole - finché Nakhaš mosse un passo: «At gá̇mar im ly, Z'èvZe at miyn ot yakhól ʼipĕşé̌r şǐṁẇşǐy
«Al mah dérekh
«Horeykha 'eynay, hem roim yoter tov.»
Alexandria a quel commento gli si parò davanti, confusa: «Ma non sappiamo quale sia il suo aspetto, akh.»
E lui le sorrise a labbra strette, tirando un angolo della bocca. 

Aveva ragione, ma per la prima volta nella sua lunghissima vita sentiva di non poter affrontare quel momento da solo - temeva ciò che lo attendeva, così come temeva la propria reazione di fronte al Re - per questo gli serviva una scusa per portarla con sé.
Allungando una mano le scostò una ciocca di capelli dal viso: «Ma io so che tu lo vedrai, Rozenett» e, non seppe dirsi se per via delle parole o di quel contatto, la vide sussultare e ritrarsi appena. Tra quei due, ne era certo, molti anni prima qualcosa era rimasto in sospeso; e vederla reagire così gli strinse il cuore - per questo era altrettanto sicuro di non poterla abbandonare lì fuori.

In parte deluso, Levi ritrasse la mano, volgendosi in fretta verso l'uomo alle sue spalle: «Per te può andare bene?»
Akràv, con le guance gonfie dell'ultimo boccone e gli occhi spalancati in sorpresa, stupito di essere stato colto in flagrante, si limitò ad annuire prima di ingollare i resti della sua prolungata colazione: «Il fratello maggiore sei tu, e se l'ẖéẕiy del Re vuole la Contessa Varàdi al proprio fianco, chi sono io per oppormi?»

Héziy... Levi si passò quella parola sulla lingua, l'assaporò con estremo piacere provando a ricordarsene il gusto. Da quanto tempo non si sentiva definire in quel modo? Troppo per i suoi gusti, e per questo non riuscì a impedirsi di chiedersi se tra di loro qualcosa, dopo tutti quei giorni, mesi e anni, non si fosse inesorabilmente rotto; se lo amasse ancora come un vero fratello, come la propria metà, oppure avesse veramente deciso di distruggere la loro storia - dal primo vagito all'ultimo respiro.

Per un lunghissimo attimo rimase quindi a fissare il viso sorridente di Zenas. Come riusciva a nascondere così bene i suoi timori? Come riusciva a usare quella parola senza dubitare del suo significato? Gli sarebbe piaciuto domandarglielo, ma invece si volse verso l'università e, poggiando le dita alla base della schiena di Alexandria, la sospinse davanti a sé: «Che la caccia abbia inizio, allora.»

Orientarsi, in un edificio del genere, parve una vera e propria sfida per Alexandria. Infatti, oltre all'ansia di potersi perdere, si sentiva addosso il peso della fiducia di Levi e la tensione nel sapersi a un passo da Salomone e, più si faceva largo tra le aule e i corridoi di quel posto, più la nausea sembrava volerla bloccare - peccato che non potesse farlo, anche se lo avrebbe voluto.
Appena aveva varcato l'ingresso dell'ateneo la consapevolezza di essere sul punto di rincontrare l'uomo che non era riuscita a salvare le aveva afferrato lo stomaco, strizzandolo tanto da far tornare in gola il tè bevuto qualche ora prima. Ad ogni nuova svolta si sarebbe quindi voluta concedere il lusso di vomitare, ma tutte le volte si tratteneva, conscia che non si trattava né del luogo né del momento adatto per cedere a simili atteggiamenti.

Levi, dal canto suo, le camminava accanto senza accorgersi di nulla. Il suo sguardo balzava di viso in viso senza mai concedersi tregue perché, per quanto ne sapevano, ogni ragazzo poteva essere il loro Sovrano.  E lei cercava di fare altrettanto, anche se le veniva difficile.

Con le mani nel cappotto si mise a passare le dita tra le ɛvɛn, sfiorandone la superficie liscia nella speranza che potessero in qualche modo chetare quelle fastidiose sensazioni - avrebbe preferito ingerirne un paio, ma da quando erano fuggiti da Venezia ancora non si era azzardata a mangiarne una. Si era costretta a patire le ansie, le paure e i tremori, ma in quel momento desiderò davvero potersi fermare e...

Z'év d'improvviso si bloccò.

A qualche passo dall'ennesima rampa di scale le sue gambe si pietrificarono, il sangue le defluì dal viso e il cuore, come spaventato, le schizzò in gola. Il suo corpo reagì prima che la mente potesse comprendere con lucidità la situazione, eppure, ciò che le fu chiaro sin dal principio, fu che c'era qualcosa di strano nell'aria, qualcosa che la stava supplicando di fermarsi.
Non si trattava di un profumo, men che meno di una presenza. Vi era altro, come una sorta di vibrazione - e, senza rendersene conto, nel sentirsi venir meno afferrò le dita di Levi per sorreggersi.
«Che hai?» Nakhaš le fu subito accanto, con il petto la schermò da sguardi indiscreti e, senza liberarsi dalla sua presa, si chinò su di lei quasi sfiorandole la fronte con la propria.
Erano talmente vicini che Alexandria si sentì vacillare. D'improvviso non fu più certa che ciò che stava sentendo oltre al proprio battito fosse reale - così si umettò le labbra e in un sussurro chiese: «La senti?» 

Il ragazzo corrugò le sopracciglia. Le sue labbra violacee si schiusero appena e, osservando quel lieve movimento, Alexandria scongiurò di udire un "sì"; se lui le avesse dato quella conferma nulla l'avrebbe fermata dal correre lungo i corridoi come una forsennata.

«Mah?» 

Z'év esitò.
Davvero non riusciva a sentirla? Era davvero un'allucinazione o...
«şǐyr ʻereş̂» disse infine col fiato mozzato, quasi quella confessione le stesse costando uno sforzo incredibile - e lui sussultò. Oltre le lenti scure le pupille del Generale si dilatarono, divennero enormi e, con la mano libera, le afferrò una spalla schiacciandola al muro.
«Ripetilo» anche la sua voce uscì sotto forma di sussurro, una carezza lieve e minacciosa che la fece tremare.
La şǐyr ʻereş̂ era l'unica cosa che Salomone avesse creato senza utilizzare l'alchimia, eppure immortale esattamente come le Chimere. Si trattava di una melodia cristallina, gentile come la brezza serale in primavera e pura, generata dalla meraviglia di un'anima eterna che aveva conosciuto la più grande bellezza del mondo, ma anche la più atroce tra le sofferenze.

Z'év si morse la lingua. Temeva di pronunciare nuovamente quella parola, intimorita dal fatto che potesse sbagliarsi, eppure, guardando il fratello, si convinse che doveva essere quello, non poteva sbagliarsi - così sgusciò via dalla presa di Levi.
Svelta si riportò nel corridoio da cui erano arrivati e, passo dopo passo, ignorando l'agitazione crescente, avanzò come un segugio tra i pochi studenti presenti in quella zona dell'ateneo. Più procedeva, più le note diventavano intense, chiare alle sue orecchie attente - e ne fu certa, non stava sognando, c'era davvero una sinfonia che stava facendo vibrare l'aria intorno a lei, che la stava chiamando a sé con timida violenza; e lei voleva ubbidirle. Desiderava raggiungerla con ogni fibra del proprio corpo, succube di emozioni che in quel momento non volle approfondire.
Un piede davanti all'altro quindi, si sospinse fino alle aree più desolate dell'edificio e, tra il fumo delle sigarette e il flebile chiacchiericcio di qualche ragazzo, scorse una targhetta che la fece improvvisamente rallentare, ma mai fermare. 

Auditorium.

Era da lì che proveniva la melodia.
Era in quell'aula che il suo destino sarebbe stato deciso.
Era oltre le enormi ante che aveva di fronte che doveva trovarsi lui, il perdono a cui lei anelavao la condanna che l'attendeva - così le gambe le si fecero molli e per un attimo temette di crollare a terra.

Lui era a qualche metro da lei e forse non avrebbe mai voluto rivederla. In fin dei conti in sospeso c'erano tante cose, tra cui una quasi morte. Però continuò comunque ad avanzare, finché le mani non toccarono il legno e lo sguardo cadde sulla misera platea presente - ma da quel punto non riusciva a scorgere né il pianoforte né chi lo stava suonando.

Le dita scivolarono lente lungo la porta, si aggrapparono alla maniglia mentre i passi di Nakhaš si facevano vicini, scandendo il battito del suo cuore.

Doveva solo entrare, si disse. Bastava oltrepassare quella soglia e ogni cosa si sarebbe nuovamente messa al proprio posto, eppure non ci riuscì. Rimase paralizzata a spiare i presenti, invidiandoli per la loro tranquillità, per l'ignoranza con cui ascoltavano quel brano e, poi, senza alcun preavviso, poggiandole una mano alla base della schiena, Levi abbassò la maniglia in vece sua, facendole così compiere un ingresso trionfale. Spinse entrambi dentro all'auditorium catturando l'attenzione generale e, per un istante, Alex si sentì venir meno. Tutti gli occhi erano ora rivolti a loro, ai maleducati che avevano dovuto disturbare quella performance, e il silenzio che ne seguì la colpì al pari di uno schiaffo. 
Osservò uno ad uno gli studenti seduti percorrendo una fila alla volta e, infine, in quel susseguirsi di facce sconosciute, con il cuore bloccato in gola, raggiunse il palco che tanto aveva temuto. Lì, la sagoma scura del pianoforte a coda l'ammaliò come una sirena. Ogni curva, linea o decoro le impediva di distogliere lo sguardo, eppure, più si avvicinava allo sgabello sui cui doveva essere seduta la persona che aveva suonato fino a qualche secondo prima, più un bruciore inspiegabile prese a infastidirla.
Dalle labbra le sfuggì un mugolio e, inconsciamente, si sfiorò la bocca dello stomaco. Sotto alla stoffa del maglioncino, il marchio del Re sembrava gridare a gran voce il nome di Salomone - e a quanto parve, non fu l'unica a sentirlo.
Le dita di Levi le strinsero i vestiti e la carne, si aggrapparono a lei quasi volendola sorreggere in previsione di una possibile caduta, ma Z'év non se ne curò, non ci riuscì in alcun modo. Avrebbe dovuto avvertire quella  sensazione, provare qualcosa, sentire quelle mani su di sé, ma tutto ciò che in quel momento riuscì a realizzare fu la presenza di due enormi occhi grigi fissi nei suoi. Era uno sguardo in grado afferrarla con una brutalità tale da annullare tutto il resto, di schiacciarla sotto un peso che la nauseò. Erano le iridi di una persona che aveva creduto non rivedere mai più e che, invece, adesso era lì.

Avvertì il battito del proprio cuore aumentare, le lacrime formarle un nodo in gola, ma prima che potesse lasciarsi andare a una sola di quelle emozioni la voce di Nakhaš spezzò il silenzio: «Noah...»

No, Salomone.

 

At gá̇mar im ly, Z'èv: tu vieni con me, Z'èv
Ze at miyn ot yakhól ʼipĕşé̌r şǐṁẇşǐy: la tua natura mi può essere utile
Al mah dérekh?: in che modo?
Horeykha 'eynay, hem roim yoter tov: i tuoi occhi, vedono meglio.
ẖéẕiy : metà
Mah: cosa
şǐyr ʻereş̂: NinnaNanna

   
 
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