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Autore: edoardo811    05/09/2017    1 recensioni
Quello che sembrava un tranquillo viaggio di ritorno alla propria terra natale si trasformerà in un autentico inferno per i Titans e i loro nuovi acquisti.
Dopo la distruzione del Parco Marktar scopriranno ben presto che non a tutti le loro scorribande nello spazio sono andate giù.
Tra sorprese belle e brutte, litigi, soggiorni poco gradevoli su pianeti per loro inospitali e l’entrata in scena di un nuovo terribile nemico e la sua armata di sgherri, scopriranno presto che tutti i problemi incontrati precedentemente non sono altro che la punta dell’iceberg in un oceano di criminalità e violenza.
Caldamente consigliata la lettura di Hearts of Stars prima di questa.
[RobStar/RedFire/RaeTerra] YURI
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The Good Left Undone

XIII

NOTTE

 

 

Red X riaprì lentamente gli occhi. Non ricordava nemmeno di essersi addormentato, ma quando realizzò di trovarsi sdraiato su una superficie dura e fredda e di avere perfino un rivolo di bava che scendeva lungo il mento, intuì che doveva essere accaduto. Con un sonoro sbadiglio si mise a sedere, strofinandosi gli occhi con i palmi delle mani. Un mal di testa lancinante lo stava attanagliando, sentiva ancora le palpebre pesanti e le gambe intorpidite. Era distrutto, nonostante avesse appena dormito. Quando allontanò le mani dal volto e aguzzò la vista ancora offuscata dalla stanchezza, realizzò di non trovarsi nemmeno nella sua camera al palazzo reale. Era in strada, in pieno villaggio. Questo spiegava il suo giaciglio così scomodo e i dolori alla schiena, aveva appena dormito su una panchina di pietra.

La sera era calata da molto tempo ormai, era praticamente notte. Il cielo azzurro era svanito, lasciando spazio ad un manto blu scuro e illuminato dalle stelle e dalla luna. Ben tre lune, a dire la verità. Le strade erano deserte, i fongoid erano rientrati nelle loro abitazioni per il pernottamento, in giro non c’era praticamente nessuno. Lui era l’unico e solo in mezzo a quella strada inanimata. Cercò di mettere in ordine i pensieri e di capire perché diavolo si trovasse lì, ma nel tentativo di farlo un'altra fitta di dolore alla testa lo colpì, spingendolo a fare una vistosa smorfia di dolore. Si massaggiò la tempia, con un’espressione sofferente. «Merda... che diavolo ci faccio qui?»

Si alzò a stento in piedi e cominciò a guardarsi intorno, perplesso. Notte, da solo in paese senza sapere come ci fosse arrivato, nessun ricordo delle precedenti ore, mal di testa, dolori dalla dubbia provenienza lungo tutto il corpo... sì, era decisamente in un post-sbronza. Uno di quelli potenti.

Mentre tentava ancora inutilmente di capirci qualcosa in quella situazione, con la mano che usava per massaggiarsi la testa sfiorò una lieve protuberanza. Sorpreso, la toccò meglio ed intuì ben presto, dal fastidio che gli arrecò tastandola, che si trattava di un livido. Uno scorcio di memoria improvviso arrivò in quello stesso istante. La locanda, lui che beveva come al solito, Cyborg e per finire Galvor. Il ragazzo strinse i pugni. Quello stronzo di Galvor. Si erano picchiati alla locanda dopo un breve litigio, entrambi aiutati non di poco dall’alcol che aveva cancellato ogni lume della ragione dei due. La rissa aveva poi proseguito, fino a quando Bardock non li aveva fatti separare. E poi... era arrivata Amalia. Sgranò gli occhi di colpo quando si ricordò dell’arrivo della tamaraniana. «Cazzo...» rantolò, guardando di scatto la collina con in cima il palazzo. Non passò molto prima che ricordasse cos’era accaduto dopo l’arrivo di lei e il loro ritorno ai loro alloggi. Il loro litigio, lo schiaffo che aveva ricevuto e lui che usciva dalla stanza. Ognuno di questi pensieri fu un pugno allo stomaco. Sentì la guancia bruciare per il ceffone ricevuto, nonostante dovessero essere passate diverse ore da quel momento.

Si sbatté la mano sulla fronte. «Cazzo, cazzo, cazzo... CAZZO!» gridò di colpo, girandosi e dando un calcio per la frustrazione alla panchina, per poi pentirsene amaramente subito dopo. Mugugnò di rabbia e dolore e si sedette di nuovo, massaggiandosi il collo del piede. Si abbandonò sul poggia schiena, sospirando esausto. «Che cazzo ho combinato...?»

Aveva litigato bruscamente con Amalia. La sua Amalia. La futura madre di suo figlio. L’aveva abbandonata nella sua stanza, dopo averle rinfacciato gli errori del suo passato. Era ubriaco, non era in sé, ma ormai era tardi. Ormai l’aveva fatto. Rimangiarsi quelle parole non sarebbe mai servito a niente. Era finita tra loro. Dopo due mesi scarsi in cui insieme erano letteralmente rimasti poco niente, giusto un paio di giorni all’inizio e il viaggio nella nave, avevano chiuso.

Si prese il volto tra le mani e gettò la testa all’indietro, soffocando all’ultimo un urlo frustrato che avrebbe sicuramente finito con lo svegliare tutto il villaggio. Si limitò a tormentarsi il volto e i capelli, grugnendo di rabbia. Rabbia rivolta tutta rigorosamente sé stesso e al suo stupidissimo comportamento. Uno stupido. Un colossale idiota, ecco cos’era. Era rimasto così concentrato sul lamentarsi del fatto che non voleva stare in quel villaggio e a bere che si era dimenticato che la cosa più importante che aveva era sempre stata davanti ai suoi occhi e che in qualunque posto fosse mai potuto essere, lei c’era. Non aveva niente sulla Terra per cui tornare, era Amalia l’unica cosa che contava per lui. Perché era stato così cieco? Solo in quel momento se ne rese effettivamente conto. Sebbene di litigi ne avessero avuti molti sulle spalle, quello fu il primo che gli fece aprire davvero gli occhi.

Tuttavia, forse Amalia aveva perfino esagerato. Lui stava cercando di scusarsi con lei, ma non ci riusciva per via della sbronza. Forse lei avrebbe dovuto aspettare che lui si riprendesse, prima di discuterne, ma non era quello il problema più grande. Aveva cominciato a deriderlo e lui, non in sé, l’aveva presa molto sul personale, finendo con il dire la cosa sbagliata senza nemmeno capire che forse avrebbe dovuto scusarsi anziché uscire dalla stanza.

La colpa era di entrambi. Sua, per averla delusa l’ennesima volta ubriacandosi e combinando perfino di peggio, di lei perché aveva esagerato. Aveva perfino detto che lui l’avrebbe tradita, se ne avesse avuto l’occasione. Red X poteva bere, poteva ubriacarsi e non capire assolutamente più niente, ma mai e poi mai l’avrebbe tradita, neanche con i fumi dell’alcol in circolo. Aveva davvero così poca fiducia in lui?

Improvvisamente, ebbe un dubbio. Doveva essere il classico stereotipo di ragazzo che dopo un litigio con la fidanzata tornava da lei strisciando e implorando perdono, oppure era lei a doversi scusare con lui?

Certo, si era ubriacato, certo, l’aveva fatta sentire male, ma mai aveva fatto quelle cose con cattiveria. Da come lei diceva, invece, sembrava che lui fosse un mostro che godeva nel ferirla. Per non parlare poi di come l’aveva deriso dopo che lui aveva detto di aver colpito Galvor solo per lei. Forse era stata una cosa stupida, assolutamente, ma era comunque la verità. A lui non era andato per niente giù il fatto che dalla bocca di quel porco di Galvor fossero usciti insulti a lei rivolti, nonché quello schifoso riferimento alla sua gravidanza. In quel momento Red X aveva perso la testa, molto più di quanto già non aveva fatto per via dell’alcol. Non era in sé, non si sarebbe mai stancato di dirlo. Se fosse stato lucido non avrebbe mai fatto tutto quello. E sì, forse lui non avrebbe mai dovuto bere, ma lei non avrebbe dovuto deriderlo in quel modo per un qualcosa che aveva fatto solo per difenderla. Se lasciava Galvor impunito, cosa avrebbe impedito a tutti gli altri fongoid contrari alla loro presenza di insultare Amalia e il bambino? O di farle anche di peggio?

Red X ringhiò e strinse i pugni. Dio, quanto avrebbe voluto dirle tutte quelle cose in faccia e non pensarle a discussione chiusa. Le avrebbe fatto capire che lui non era per niente un idiota e che teneva a lei molto più di quanto in quel mese non avesse dato a vedere.

Grugnì e si rimise di nuovo in piedi, per poi fissare la collina. Doveva tornare al palazzo. Nemmeno lui sapeva cosa fare con esattezza una volta arrivato la, ma di certo restarsene in quel villaggio come un vagabondo non era la soluzione migliore.

Annuì con convinzione e fece per incamminarsi, quando un parlottare lontano lo costrinse ad interrompersi di colpo. Quelle voci distanti non avevano molte spiegazioni, qualcun altro oltre a lui era in giro di notte, dopo il coprifuoco. Scrollò le spalle. Chiunque fosse, qualunque cosa stesse facendo, non lo riguardava. Lui odiava la gente che ficcava il naso nei suoi affari e di conseguenza non ficcava il naso negli affari degli altri. Tirò dritto, cominciando a camminare sul ciottolato con le mani in tasca, rimuginando sul suo passo successivo, quando vide un paio di ombre spuntare nella strada principale, proiettate dalla luce della luna che si infrangeva su delle figure in movimento in una via secondaria. Arrestò una seconda volta la sua marcia, questa volta irrigidendosi come un chiodo quando riconobbe, in mezzo a quel brusio, la voce di Galvor. Imprecò sotto voce. L’ultima cosa che voleva era incontrarlo di nuovo, di notte poi. Non perché avesse paura di lui, ci mancava solo quello, ma perché temeva che la situazione potesse sfuggire di nuovo di mano. E siccome lui non si sarebbe mai tirato indietro di fronte alla prospettiva di un combattimento, intuì che era meglio sparire da lì prima che lo notassero. L’ultima cosa che voleva era partecipare ad un altro rissone nel cuore della notte, sia per la situazione già precaria con Amalia per quel motivo, sia perché partecipare a due combattimenti nell’arco di una giornata avrebbe fatto incazzare non poco i poveri cittadini. Perciò, non appena vide una delle bancarelle di legno piazzate sul bordo della strada, rigorosamente svuotate dei loro prodotti per la notte, vi si diresse come un razzo e vi si nascose dietro, cosicché Galvor e i suoi passassero senza notarlo.

Probabilmente facevano la ronda notturna, essendo guardie. Il ragazzo si acquattò contro la superficie liscia della bancarella quando sentì le voci farsi molto più vicine ed udì perfino lo scalpiccio dei loro passi sul ciottolato. Rimase immobile, facendo sua la penombra e nascondendosi dentro di essa come in un rifugio sicuro, aiutato anche dai suoi abiti neri che lo aiutarono molto a confondersi dentro di essa. In quella condizione, i fongoid non lo avrebbero notato nemmeno se la bancarella non vi fosse stata. Era invisibile.

L’intenzione di Red X era quella di lasciare che il gruppo di alieni continuasse per la loro strada e, una volta abbastanza lontani e con la situazione sotto controllo, uscire dal nascondiglio e procedere verso il palazzo. Tuttavia, udendo accidentalmente i loro discorsi, sentì parole che lo sorpresero non poco. La loro non era un’allegra discussione tra colleghi di lavoro. Galvor in particolare, il suo tono era incavolato nero, spiccava nettamente nel gruppo in quanto indignazione nella voce.

«... pestato i piedi per l’ultima volta!» stava dicendo, sbattendo a terra il suo scettro, indignato. «Un richiamo da parte di Alpheus! Per colpa loro io, il capo delle guardie reali, ho ottenuto un richiamo da parte del re in persona! Questo è troppo! Me la pagheranno cara! Se quell’ingrato e quella gandz della sua ragazza non vogliono stare qui, bene, so esattamente come farli andare via!»

Il ragazzo nell’ombra serrò la mascella, ma si costrinse a restare immobile. Avrebbe dovuto scoprire cosa "gandz" significasse, prima o poi.

«Ma... non sarà pericoloso?» domandò qualcun altro in mezzo al gruppo, Red X non lo riconobbe. Questo sembrava molto più titubante e quasi spaventato.

«Forse. Ma se ognuno di voi recita bene la sua parte, i danni saranno ridotti al minimo e ci disferemo di quei rozzi terrestri che hanno osato mettere piede nella nostra terra!» replicò Galvor, sempre con rabbia e convinzione. «E comunque, chiunque di voi è liberissimo di andarsene ora, ma gli converrà non fare parola con nessuno di questo piano, o lo scaraventerò tra le fauci del Pozzo!»

Diversi mormorii si sollevarono tra gli altri fongoid. X quasi sperò che quelli lo mandassero al diavolo. Non aveva la più pallida idea di cosa stesse tramando, ma se gli altri apparivano così insicuri, nonostante il loro odio per il ragazzo in nero e i suoi amici, non doveva essere nulla di buono.

«Io sto con Galvor» decise infine uno di loro, muovendosi nella penombra. «Sono stanco di vedere quei tizi che si aggirano per il nostro villaggio fissandoci dall’alto! La vita per loro è facile, ci pensa re Alpheus a sfamarli, quando fino a qualche mese fa’ la gente moriva di fame!»

Red X inarcò un sopracciglio. Noi li fissiamo dall’alto? Ma quando mai?

«Ottimo Kyron!» esclamò Galvor. «E voi altri? Preferite scacciarli in nome della vostra razza, per la vostra gente, oppure unirvi a tutti quei fessi che gradiscono davvero la loro presenza?»

Altri mormorii, altre persone che riflettevano. E poi, uno dopo l’altro, i fongoid si schierarono con Galvor. Man mano che Red X sentiva i loro consensi, una vistosa smorfia si stampava sul suo volto. Razza di imbecilli che si facevano manipolare in quel modo da un essere senza cervello come quello. Li sentì poco dopo allontanarsi, riprendendo la marcia e continuando a parlottare tra loro, confabulando su chissà quale piano diabolico atto a scacciare i ragazzi dal villaggio. Per un attimo l’ex criminale pensò di uscire allo scoperto e mandare in fumo tutto il loro piano, ma poi si bloccò. Se fosse uscito in quel momento li avrebbe scoperti mentre confabulavano, vero, ma non c’era nulla di concreto a riguardo. Essendo reduce da una sbronza, poi, era difficile che qualcuno lo prendesse sul serio, considerando anche l’ottima reputazione che si era fatto dopo la rissa alla locanda. Vedendoli allontanarsi sempre di più e svanire nella penombra, tuttavia, capì che il tempo stringeva. Doveva sbrigarsi a fare qualcosa e in fretta.

Dopo un lungo momento, sospirò e si alzò in piedi. «Al diavolo.»

Amalia poteva attendere. Qualunque cosa quei bastardi stessero tramando era molto più grossa. Riguardava lui, la tamaraniana, Stella, Robin e tutti gli altri. Da come ne avevano parlato, sembrava esserci l’intera popolazione del villaggio in ballo. X realizzò ben presto che lui e i Titans avevano molti più nemici di quanto potessero immaginare. Non c’era solo Slag in giro per la galassia, c’erano pure le stesse persone che li stavano ospitando. Doveva fare qualcosa e alla svelta. Si allontanò dalla bancarella con passo felpato e con il favore del buio e delle tenebre cominciò a pedinarli, attendendo il momento in cui li avrebbe beccati con le mani nel sacco.

 

***

 

«Qualcosa non va, Stella?»

La ragazza trasalì ed alzò la testa, voltandosi verso di Robin. Il leader la osservava perplesso da diverso tempo ormai. Si era seduta sul bordo del letto non appena erano rientrati nella loro camera e li era rimasta, a fissare il nulla davanti a sé con un’aria decisamente turbata. Non aveva praticamente parlato per tutta la cena, né in quel momento, nemmeno con Robin, perciò lui aveva cominciato ad impensierirsi.

«Mh? No, no, sto bene...» mugugnò la tamaraniana in risposta, per poi sospirare in un modo che tradì completamente le sue emozioni.

Robin inarcò un sopracciglio, poi le si avvicinò e si sedette accanto a lei. «Puoi dirmelo se c’è qualcosa che non va, lo sai.»

Stella sollevò gli occhi ed incrociò quelli del ragazzo, il quale si smarrì in quelle enormi e brillanti pozze color smeraldo. Si pizzicò il labbro inferiore con i denti, poi sospirò una seconda volta. «Sono... preoccupata per mia sorella. Non l’ho più vista da questa mattina e a cena non è venuta... ho paura che... le sia successo qualcosa.»

Il ragazzo storse la bocca e annuì. Dunque era ad Amalia che pensava. Ancora.

«Sono certo che sta bene» disse, cercando di farla smettere di preoccuparsi.                      

«E se invece non fosse così?» domandò Stella, insistendo, rendendo vano lo sforzo di Robin. «Se invece fosse...»

«Stella.» Il leader la interruppe, prendendo le mani della fidanzata fra le sue, per poi sorriderle accomodante. «Tua sorella sa cavarsela da sola, devi stare tranquilla.»

«Ma...»

Il ragazzo la zittì, posandole un indice sulla bocca. «Non ci pensare. Ormai è tardi, sicuramente starà dormendo, oppure se è ancora con Red X puoi benissimo immaginare cosa stia facendo...»

Le guancie di Stella assunsero una vivace tonalità di colore rosso, come i suoi capelli, e la ragazza distolse lo sguardo da lui. «Ehm... beh...»

Robin le prese il mento e la costrinse delicatamente a rialzare la testa. Addolcì il sorriso quando notò il rossore sulle guancie di Stella. «Sei davvero gentile a preoccuparti così per lei, ma non è necessario. Lei sta bene e avrai senz’altro modo di vederla domani. Adesso invece...» Non terminò la frase, mentre le sue braccia si spostavano quasi automaticamente e cominciavano ad avvolgersi attorno al corpo morbido e vellutato di Stella. Strofinarono i fianchi della ragazza e le circondarono lentamente la vita. I palmi percepirono tutto il calore emanato dalla soffice pelle di lei e perfino diversi brividi d’eccitazione. La spinse delicatamente in avanti, avvicinandola a lui. I loro occhi non si separarono nemmeno per un istante, poté benissimo vedere la preoccupazione di Stella tramutarsi dapprima in sorpresa poi in riluttanza.

Il leader appoggiò la fronte contro quella della ragazza e cominciò ad imprimere una lieve pressione, costringendola ad indietreggiare lentamente, fino a quando non si ritrovarono l’uno sdraiato sopra l’altra sul materasso. A quel punto, le loro labbra parvero come calamitate tra loro e si catturarono a vicenda, cominciando la loro classica danza lussuriosa che mai e poi mai li avrebbe stufati.

I mugugni soffocati di Stella fu l’unico dolce e melodioso suono che andò a riempire la stanza. Robin invece rimase in silenzio. Il cuore accelerò i propri battiti, mentre quel dolce momento proseguiva e il fiato umido del naso di Stella soffiava contro il suo volto.

Le sue mani cominciarono ad indugiare verso il basso, senza l’esitazione che le aveva caratterizzate giorni e giorni prima, raggiunsero i glutei e vi affondarono dentro fameliche.

Robin e Stella stavano insieme da praticamente un mese e da un mese dormivano nella stessa stanza. Un rapporto meraviglioso quale era il loro, poco per volta aveva cominciato a diventare monotono per Robin. Monotono e, a conti fatti, sempre meno soddisfacente. I baci che un tempo riuscivano a colmare la sua brama di carne, ora non facevano altro che stuzzicarlo e invogliarlo a proseguire. Voleva andare oltre, era da tanti giorni ormai che lo desiderava. Era un essere umano, dopotutto. Non era colpa sua, erano gli stimoli. Una relazione come quella, con una ragazza stupenda come Stella, non poteva andare avanti a carezze. Di giorno potevano essere due ragazzi come tanti, potevano chiacchierare, tenersi per mano, scambiarsi dolci baci, ma di notte non poteva essere altrettanto.

Non aveva mai fatto pressione a Stella, per questo. Sapeva che era una ragazza pura e innocente, ma sperava che prima o poi potesse capire da sola che lui non voleva amarla solo con la mente, ma anche con il corpo. Ma dopo tanti giorni, passati condividendo lo stesso letto, ciò non era accaduto. E vedere come Stella sembrava avere più a cuore Amalia di lui, non lo aveva aiutato di certo. Era consapevole che ciò era una peculiarità di Stella, lei aveva a cuore praticamente tutto e tutti, figurarsi il sangue del suo sangue – a discapito di tutto ciò che era successo anni prima – però Robin si sentiva comunque leggermente infastidito. Ma quella notte le cose sarebbero cambiate. Si sarebbe fatto coraggio e avrebbe detto alla sua dolce metà che voleva far l’amore con lei. Prima a gesti, poi, se sarebbe servito, anche a parole. Era Stella, era la sua fidanzata, lei lo amava e lui amava lei, non doveva sentirsi a disagio nel fare ciò, era naturale, era ciò che due persone che davvero si amano fanno, proprio come Red X e Amalia. 

Le mani del ragazzo afferrarono un lembo della biancheria della ragazza e cominciarono a cercare di sfilargliela, ma Stella se ne rese conto e lo fermò posando i palmi sulle sue braccia. «Robin...» mormorò flebilmente, separandosi da lui e guardandolo con timidezza. «N-Non so se...»

«Stella.» Robin allontanò le mani e le carezzò dolcemente una guancia. «Ascoltami. Noi... stiamo insieme da un mese e dormiamo nello stesso letto da altrettanto tempo. Io... io ti amo, ti amo davvero, però non possiamo...»

«Robin, no...» Stella sembrò capire cosa lui stesse per dire, anche perché lei sue azioni erano state piuttosto eloquenti. Scivolò lentamente via da sotto di lui e si risedette sul bordo del materasso. «Non... non voglio...»

Il ragazzo la guardò scappare letteralmente da lui e si sentì quasi offeso. «Ma... perché?»

La tamaraniana si strinse nelle spalle e distolse lo sguardo. Scosse la testa, strizzando quasi con forza le palpebre. «Non me la sento... per favore, capiscimi...»

Sembrava quasi come se stesse scacciando via il pensiero dalla propria testa, così facendo. Robin sentì lo stomaco in subbuglio, guardandola. Provò vergogna e sensi di colpa. Ma allo stesso tempo, volle continuare. Ormai che aveva cominciato, tanto valeva che finisse. «Stella... guarda che non c’è niente di male. Noi ci amiamo, e tutte le persone che si amano fanno...»

«No, Robin» asserì Stella con fermezza, riaprendo gli occhi e fissando il pavimento. Si massaggiò le braccia con delicatezza, come se stesse cercando di scaldarsi dopo una folata d’aria fredda, poi scosse ancora la testa a sé stessa. «Non... non sono pronta per questo. È troppo presto, io... devo ancora abituarmi al fatto di non essere più su Tamaran. Se davvero mi ami, dammi un po’ di tempo. Solo un po’...» Spostò di nuovo lo sguardo verso di lui. «Ti prego...»

Quando incrociò di nuovo i suoi occhi, Robin si sentì uno straccio. Non riuscì a reggere lo sguardo e abbassò la testa. Tutti i pensieri di poco prima valsero meno di zero all’improvviso. La sua determinazione sfumò e si sentì un vero verme ad avere insistito in quel modo con lei. Doveva mettersi in testa che Stella non era una ragazza come le altre, lei era particolare, aveva un modo di fare tutto suo, vedeva la vita da una prospettiva totalmente differente rispetto a quella degli altri. Ed era per quello che era speciale, per quello lui la amava. E proprio per quello, decise di lasciar perdere con un sospiro. Tempo. Ciò di cui Stella aveva bisogno. Ciò che lui, molto a malincuore, le avrebbe dato. «Scusa... non volevo... metterti fretta.»

La ragazza si sdraiò sul materasso, appoggiò la testa sul cuscino ed inspirò. «Non importa. Buonanotte, Robin.»

Non sembrava molto convinta e quel saluto aveva tutta l’aria di essere un modo per chiudere la faccenda seduta stante. Robin si mordicchiò l’interno della guancia, rimanendo fermo immobile a guardarla. Trascorsero diversi minuti, prima che lui le si avvicinasse e le accarezzasse un fianco. Sospirò di nuovo, poi si chinò e le baciò una guancia, sperando che così facendo potesse farsi perdonare almeno in parte. «Buonanotte, Stella.»

Dalla tamaraniana non giunse alcuna risposta. Il ragazzo inarcò un sopracciglio, poi si accorse del fiato già pesante di Stella e abbozzò un sorriso. Si era già addormentata. E meno male che voleva andare da Amalia, poco prima. Abbassò le coperte e le rimboccò su di lei. Si passò una mano fra i capelli, con fare esausto, poi fece il giro del letto e si sedette sull’altro lato del materasso. Dopo diversi attimi di incertezza, si sdraiò a sua volta e sperò che il sonno cancellasse dalla sua mente gli avvenimenti dell’ultimo quarto d’ora.

 

***

 

Corvina era esausta, si vedeva a chilometri di distanza. Gli ultimi avvenimenti erano stati come una calamita che aveva attirato tutte le sue energie fuori dal corpo. Si sentiva letteralmente prosciugata. Dopo l’allegra cenetta in compagnia di poco prima e che le aveva permesso di staccare il cervello per un attimo, il peso della realtà le era crollato addosso come un macigno e si era sentita soffocare da esso. Voleva fare solo una cosa: dormire e sperare di dimenticarsi tutto.

Era talmente stremata che nemmeno pensò a Terra e a come doveva sentirsi. Avrebbe voluto passare un po’ di tempo con lei, le sarebbe piaciuto davvero molto, ma sapeva che se volevano andarsene alla svelta da Quantus doveva impiegare ogni momento buono del suo tempo per frugare tra gli antichi reperti dei fongoid insieme a Canoo. Jump City attendeva il ritorno dei propri eroi da tanto tempo ormai. Chissà cosa stavano facendo tutti i criminali mentre avevano la pista libera. Non voleva pensarci. Sperò che fossero i Teen Titans dell’East ad aver avuto la decenza di farlo.

Raggiunse finalmente camera sua e si chiuse la porta alle spalle, sospirando esausta. Cominciò a svestirsi e rimase praticamente in intimo mentre si sdraiava. Spense la candela sul comodino e la stanza piombò nel buio. Si acquattò sotto le coperte e rimase a fissare il soffitto pensierosa. Temeva che con tutti quei pensieri per la mente non si sarebbe mai addormentata. Red X che combinava guai, Terra con cui non riusciva più a passare il tempo, Robin che le stava con il fiato sul collo e le ricerche insieme a Canoo. Troppe cose, troppi problemi, continuando di quel passo avrebbe senz’altro finito con il passare la notte in bianco. E invece, non appena chiuse gli occhi, il suo respiro si fece pesante. E tutti i suoi problemi svanirono come neve al sole.

 

***

 

Stava volando. Volando alta nel cielo, un cielo completamente azzurro e privo di nuvole, alla cui periferia un enorme sole splendeva radioso. Teneva le braccia larghe, come se fossero ali. Si sentiva leggiadra, spensierata. Non percepiva nulla attorno a lei. Non sentiva l’aria che sferzava, non sentiva il rumore della forte corrente che sicuramente ululava attorno a lei, a stento percepiva perfino il suo stesso corpo.

Volava, semplicemente, ignara di tutto, incurante di tutto, senza preoccupazioni, senza pensieri, leggera come l’aria.

Una creatura le apparve accanto. Sbucò dal nulla, un attimo prima non c’era, l’attimo dopo c’era. La osservò. Era piccola, minuta, sembrava gracile ed indifesa ed era quasi buffa da guardare. Sembrava un minuscolo robot. Il corpo era nero, aveva uno strano anello azzurro attaccato al busto, un collare attorno al corto collo e le braccia grigie, con sole tre dita. La testa era enorme. Era rosa, molto larga e aveva due giganteschi occhi completamente azzurri brillanti, privi di pupille o iridi. Non aveva bocca, né naso, solo due bizzarre antenne sopra la testa.

Sorrise guardandola. Volava accanto a lei, anch’essa leggiadra. I loro sguardi si incrociarono. La creatura la salutò con un cenno della mano. Lei distese il sorriso e ricambiò il saluto, poi, lo stesso esserino le fece un altro cenno e la invitò a seguirlo.

Fece per acconsentire a fare ciò, ma con sua enorme sorpresa il suo corpo si mosse autonomamente. La creatura schizzò via nel cielo, a velocità incredibile. Lei non fu da meno. Volarono una accanto all’altra, come proiettili.

Cercò di parlare, di chiederle come si chiamava, o se sapeva la sua lingua, ma le mancava la voce. Cominciò a preoccuparsi.

Finalmente sembrarono arrivare a destinazione. Sgranò gli occhi quando vide apparire davanti a loro un enorme vascello scuro, sgradevolmente familiare.

«Qui si adempierà il tuo destino, Salvatrice.»

Quella voce rimbombò nella sua testa all’improvviso, facendola trasalire. Era quasi un sussurro, neanche, sembrava quasi il sibilare di un serpente. Le parole che aveva detto, poi, la lasciarono atterrita.

Si rese conto solo dopo diverso tempo che la creatura la stava guardando. A quel punto, sgranò gli occhi. Cercò di comunicare con lei, proprio come aveva fatto poco prima. Si concentrò e disse mentalmente. «Sei... sei tu che hai parlato?»

La creatura non rispose. Si voltò invece verso il veliero. «Vieni.»

Entrambe schizzarono in avanti di colpo. Tutto si oscurò all’improvviso. Si ritrovarono poi all’improvviso in un’enorme sala, immersa nella penombra. L’unica fonte di luce presente era quella azzurra fluorescente proveniente da un oggetto piramidale, disposto su un piedistallo. «L’energia vitale scorre qui dentro» disse ancora la creatura nella sua testa, avvicinandosi all’oggetto e cominciando a volteggiarci intorno. «Questa è la soluzione.»

«C-Cosa? Ma che stai dicendo?» domandò ancora, capendoci sempre di meno.

Di nuovo, non ottenne alcuna risposta. L’oggetto svanì, tutto tornò buio, l’unica fonte di luce erano gli occhi luminosi della creatura, che in quell’ambiente ombroso erano più inquietati che rassicuranti. «Non sarà facile» disse ancora. «Lui proverà a fermarti.»

«L-Lui? Lui chi?»

La creatura indicò un punto davanti a lei. Si voltò e vide un’altra figura comparire dal nulla all’improvviso. A causa del buio non riuscì a vederla bene, ma in ogni caso percepì di nuovo un’enorme ondata di energia, questa volta però era energia oscura, buia, nera come la stanza in cui si trovava. Energia malvagia.

I tratti della figura si fecero più nitidi. Vide un corpo da umanoide, slanciato, alto almeno un metro e novanta, con il collo lungo e non molto grosso fisicamente. Degli strani mugugni provenivano da lei, sembrava quasi che stesse sbadigliando, o grugnendo. Nonostante il timore che stava suscitandole, cercò di mettere a fuoco la vista per poterla vedere meglio, ma quella scomparve immediatamente, un attimo prima che la voce della creatura rimbombasse di nuovo nella sua mente. «Per avere successo avrai bisogno dell’aiuto di qualcuno a te caro.»

Non riuscì più a trattenersi. Si voltò verso la creatura, furibonda. «Ma si può sapere che diamine stai dicendo?! Chi è lui, cos’è la soluzione, dove diavolo ci troviamo?! Chi sei tu?!»

La creatura la soppesò ancora per un momento con lo sguardo. «Il momento è sempre più vicino. Dovrai essere pronta.»

«Il momento? Quale momento?!»

«Hai un grosso fardello sulle tue spalle, Salvatrice. Non deluderci.» Con quest’ultima frase, la creatura si ritirò nelle tenebre.

«Ehi! EHI! Dove vai?! Rispondimi! EHI!» gridò lei, questa volta per davvero e non solo con il pensiero, prima che l’oscurità si infittisse ulteriormente e la inghiottisse.

 

***

 

Corvina si svegliò di soprassalto.

 






Creatura nel sogno:

   
 
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