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Autore: Avareil    06/09/2017    4 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ospiti


Sentiva in lontananza l’eco delle risate delle giovani ninfe mentre un fresco odore d’erbetta le riempiva la mente. Riusciva a scorgere distintamente la sua casa nei pressi dell’altare materno, un bel sole alto nel cielo segnava lo scorrere lento di una calda giornata estiva da passare tra giochi e riti celebrativi. Era tutto lì, chiaro, nitido e vivido dietro le sue palpebre.
Ora sua madre l’avrebbe svegliata con un dolce bacio sulla fronte e, se come suo solito non si fosse alzata nel giro di pochi minuti, si sarebbe ritrovata scoperta e esposta alla brezza frizzantina.

Ma sapeva bene che niente di tutto quello era reale; la verità, prima dietro una coltre onirica e poi, pian piano, sempre più esposta alla sua coscienza, l’aveva colpita come una sferzata d’aria gelida in pieno volto. Memore dell’angoscia, della paura e del dolore provato da sveglia nelle ore precedenti aveva spalancato gli occhi; un gemito strozzato le era rimasto incastrato in gola.
Sdraiata su un letto enorme che poco aveva a che vedere col suo profumato giaciglio, si sorprese nel trovarsi avvolta in un lino pregiato e dalle tonalità scure; i sensi, così attivi nella realtà del sogno, adesso le sembravano quasi offuscati da una patina. Udiva suoni indistinti provenire dal di fuori della sontuosa camera in cui alloggiava, gli arti le dolevano per lo sforzo fisico di quegli ultimi tempi mentre gli occhi, solitamente vispi, adesso sembravano lesi: vedeva poco, pochissimo, ancora impastata di sonno e angoscia.  
Stropicciato il volto con il dorso delle mani la giovane dea aveva iniziato a nutrire un intimo e prepotente bisogno di luce: come un girasole che, sottratto ai raggi solari, inizia sentirsi morire.  
Alzatasi dal letto con passo incerto aveva raggiunto le pesanti tende della camera e, sollevato un braccio, aveva tentato di scostarle ma una dolorosa fitta all’altezza della spalla destra le aveva impedito quel semplice movimento; troppo aveva scalciato tra le braccia del suo rapitore, troppo si era ribellata portando il suo aguzzino a stringere la presa sulla sua tenera carne che ora, risentita, iniziava a mostrare segni della violenza.
Un singhiozzo, due…
Un pianto silenzioso le aveva pervaso il cuore mentre la bocca, serrata, si rifiutava di lasciar trapelare il minimo suono; una smorfia amara le si era dipinta sul volto.

Che stupida era stata ad arrendersi, che stupida a lasciarsi abbindolare dalle parole del dio...

 “È un bene che non siate riuscita ad aprire le tende, ci sono molte cose che vorrei spiegarvi prima che la vostra vista riprenda a funzionare come si deve…”. Al solo udire quella voce Persefone era rimasta pietrificata.
Lui, Ade, il sovrano dell’Averno, colui che l’aveva reclamata e presa con la forza – e protetta nella caduta libera verso il fondo dell’abisso-, stava comodamente seduto sul bordo del letto alle sue spalle. La fissava con sguardo serio sebbene la bocca disegnasse una linea all’insù, quasi incapace di mascherare una certa soddisfazione.

“Voi”. Persefone si era voltata lentamente verso il suo rapitore e con sguardo di sfida aveva continuato
“Fareste meglio a togliervi quel ghigno dalla faccia. Mi madre non vi permetterà mai di trattenermi qui contro la mia volontà”.

“Non è la vostra di volontà a dover essere “preservata”. Siete qui per una ragione che oltrepassa di gran lunga voi e qualsiasi altra divinità tanto sciocca da tentare di varcare le mura del mio regno con la vaga pretesa di rimanere impunita”.
Il dio aveva parlato con tono grave e anche il sorriso era come evaporato per lasciare spazio a un volto ora corrucciato.

“Allora io non conto nulla? La mia volontà, che si oppone alla vostra, non va dunque difesa?”. Lo guardava sgomenta mentre la voce ci faceva più fievole.  

“Voi, sciocca dea, siete la cosa che più conta in questo lugubre regno!”. Ade si era alzato di scatto e con un passo le si era fatto dinnanzi; la sovrastava di molti centimetri e, per tale motivo, guardarla in volto gli era quasi impossibile dal momento che lei si ostinava a tenere il capo chino. L’aveva vista quasi sobbalzare e credeva che avrebbe mosso dei passi indietro per mettere nuova distanza tra loro ma, invece, era rimasta lì, al suo posto, dritta come un soldato.
La giovane dea aveva quasi perso un battito a quella dichiarazione così forte e allo stesso tempo fuori luogo.

Come poteva un dio ammettere di tenere a lei e, allo stesso tempo, ferirla nella maniera più atroce solo per puro egoismo?

“Se conto così tanto come dite, perché mi costringete a una sorte che non voglio in alcun modo accettare?”.
Quelle parole avevano colpito il cuore del sovrano che, ferito e nuovamente messo davanti alla più crudele delle verità, si sentiva per l’ennesima volta rifiutato e giudicato; un dolore quasi lancinante aveva iniziato ad avvelenarlo da dentro tanto da rendergli impossibile mantenere un tono calmo.

 “Lo Stige mi vincola a voi in un modo che nemmeno le sacre signore riescono a capire, Persefone. Non vi ho scelta, non vi ho cercata, non vi ho invocata-”, quelle frasi costavano tutta la pacatezza del dio, costretto a tenere a bada lo spirito sanguinante che gli mangiava il cuore.
“Il mio voto ha richiesto una vita, la mia, che ora è promessa all’invisibile, ma voi, mia signora-”, e in quel momento una mano di Ade si era sollevata con lentezza, il tono di voce quasi amaro
“Voi siete la cosa più simile al sole che io abbia mai potuto sfiorare, una luce in un caos oscuro”. Delicatamente aveva poggiato il palmo della mano sul viso fresco della dea ancora intenta strenuamente a fissare dinnanzi a lei, giusto all’altezza del petto del dio.
Ma questo poco importava al dio che, finalmente la sentiva; era passato molto tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto la possibilità di sfiorarla.
Sentiva il sangue ribollire nelle vene della dea mentre il suo piccolo cuore galoppava come una biga senza auriga.
Persefone a stento respirava.
A quel contatto aveva come smesso di pensare mentre una piccola vocina nella sua testa le suggeriva di alzare gli occhi verso quel dio imponente e…Così familiare.
Allora si era mossa. Con estrema eleganza aveva alzato il volto, permettendo agli occhi bramosi di sfamarsi di quella vista.
Erano entrambi silenziosi, si studiavano come due animali selvatici che si contendono una qualche preda.

“Ditemi la verità, dio”. Aveva parlato con tono deciso non venendo meno al contatto delicato che le faceva fremere la pelle della guancia.

“Perché mi bramate?”.

“Perché siete già mia, lo Stige che ci unisce ha designato voi come mia compagna regale e io sono qui a reclamarvi”. Il tono carezzevole e suadente del dio mal si accordava però con le parole appena proferite. Era stata proprio questa dissonanza a far allontanare Persefone che, in cuor suo delusa e amareggiata, si era illusa di udire una risposta differente.

Amore? Avresti voluto sentir parlare d’amore da un dio che ti ha manipolata nel sogno e ti ha perseguitato nella vita reale?

I pensieri avvelenati della dea l’avevano fatta indietreggiare, costringendola a rinunciare a quel tepore che dal viso si stava irradiando lentamente in tutto il corpo.

“Credevo… Anzi, mi sono illusa di trovare in voi qualcosa che fosse ben più profondo di un legame imposto dall’alto. Tutto in voi è perverso: io non sono vostra e voi non siete mio".
La dea ora gli dava le spalle mentre con le mani si carezzava la pelle delle spalle infreddolite.

“Non mi sottometterò mai a un volere che non capisco e che non accetto”.
A quel punto Ade aveva stretto i pugni lungo i fianchi e, digrignando impercettibilmente i denti, aveva risposto

“Il destino vi ha condotta a me e, che lo vogliate o meno, siete legata a questo terribile regno che bistrattate senza conoscere. Voi non conoscere eppure giudicate.
 L’angoscia che provate, il dolore che logora il vostro stomaco, il freddo che vi punge la pelle, sono tutti malesseri che vivo io nella solitudine del mio tempio da secoli. Allontanatevi da me e i vostri dolori aumenteranno come i miei, saremo la causa delle nostre reciproche sofferenze.
…Io ho già sofferto abbastanza, Persefone.”
 
“Io non vi conosco, non posso fidarmi né tanto meno può mia madre. Ella non accetterà mai una situazione del genere”. Persefone si era stretta nelle spalle mentre la voce risuonava quasi stanca e afflitta.

“Sono il dio dell’oltretomba!”. L’aveva afferrata per una spalla e, imprimendo una certa forza, l’aveva fatta voltare; desiderava specchiarsi in quelle due folgori che campeggiavano sul volto ovale e delicato della dea.

“Sono Ade, una divinità ben più anziana e potente di vostra madre, una divinità ben più saggia e giusta”.

“Allora perché vi comportate ingiustamente con me? Non è per affetto che mi reclamate ma per vendetta!”. Aveva alzato la voce, voleva capire cosa celasse il dio dietro quella maschera fatta di serietà e arroganza.

“Io-”. Interdetto, Ade, non sapeva come rispondere a quell’accusa, mentre Persefone, oramai agitata, continuava

“Come potete dire di non essere un violento o un rapitore quando avete preso me incurante della mia volontà? Voi, che credete di essere un dio giusto, siete forse stato corretto con me? Vi ho forse recato offesa in qualche modo tanto da non meritare la possibilità di scegliere o quanto meno di ricevere delle giuste spiegazioni?”. 

Lei aveva ragione.

A quell’accorata arringa il dio aveva abbassato lo sguardo.
Come poteva guardarla negli occhi?
Da quando si era sentito richiamato in superficie da quella creatura, ne era stato quasi ossessionato. Ogni notte, a partire da quella notte, la vegliava durante il sonno, con gli occhi dello Stige la seguiva nei suoi giochi; l’aveva vista crescere e ora che si vedeva rifiutata l’unica speranza di serenità avendola al suo fianco, per colpa del fratello minore e della sorella, non aveva esitato a farsi giustizia da solo.

Ma se la vendetta va riservata solo a coloro che ti feriscono…Lei che colpe poteva mai avere nei suoi riguardi?
Veramente si stava comportando nel modo migliore? Veramente eseguire il volere di un destino beffardo equivaleva a fare giustizia?
Era solo vendetta quella che il suo cuore lesinava?

Ma ora era lei a vederlo.

Così vicina a lui, ancora ben saldamente tenuta per le spalle, riusciva a vederlo per quello che veramente era: un dio che, nella sua grandezza, era spaesato come il più piccolo degli esseri. Ora riconosceva in quello sguardo vacuo e in quelle parole venute meno un uomo completamente diverso dal protagonista dei più spregiudicati e terribili racconti che aveva udito dalla bocca delle compagne di giochi.

“Eppure io vedo del dolore in voi, un dolore inespresso che va ben oltre un voto suggellato con lo Stige”. Persefone, stranamente pervasa da un nuovo coraggio, ora alzava lei la mano in direzione del volto di Ade, ancora pietrificato in riflessioni turbolente.
Entrambi gli dei erano come catturati in un silenzio carico di significati incapaci di trovare sfogo in parole di senso compiuto. Persefone finalmente lo sfiorava, e non sulle vesti, non sulle braccia, gli carezzava il volto con la delicatezza di una madre nei riguardi della più piccola delle creature.
Era freddo, gelido e un filo di barba gli rendeva il volto leggermente ispido. Non aveva mai sfiorato un uomo così intimamente ed ora invece eccola lì, a cercare una verità nascosta dietro le fattezze di quel dio sofferente.
Lui, quasi sconvolto, l’aveva fissata con occhi nebulosi e, dopo aver silenziosamente gustato quel contatto, aveva nuovamente parlato.
 
“Meritate sul serio il nome donatovi da vostro padre-” il dio, alludeva chiaramente alla capacità della dea di cogliere il diverso e… di accettarlo. 
Aveva allora mosso un ulteriore passo verso di lei, oramai si trovavano a pochissimi centimetri l’uno dall’altra; lui ancora la teneva per le spalle con assoluta delicatezza e lei, quasi completamente travolta da quello sguardo di nebbia, si era come dimenticata di tutto, di ogni dolore, di ogni angoscia, di ogni paura.
“Allora siate mia ospite un giorno, un mese o un anno. Non sarete trattenuta qui contro il vostro volere ma almeno… date la possibilità a questo regno lugubre di farsi apprezzare nella sua natura celata a occhio superficiale”.

Date a me questa possibilità, avrebbe voluto dirle.

La vide annuire impercettibilmente, un movimento che solo da lui, così tremendamente vicino, poteva essere colto.
Con estrema lentezza Ade aveva allora chinato il viso sul suo, pochi millimetri e le loro bocche si sarebbero unite in un bacio dal gusto completamente diverso da quello precedente ma, il destino, sempre contrario, li aveva nuovamente interrotti.

“Mio signore!”. Una voce roca richiamava il dio dal corridoio antistante la porta della camera.
“Mio signore! Notizie urgenti!”. Radamanto lo invocava, il suo tono di voce concitato; un segno terribile dal momento che il suo giudice era sempre molto pacato e serio.

Per quell’interruzione Ade maledisse Zeus.
---


 
Hermes lo attendeva nella cella del suo tempio nero ora rischiarato dalla calda luce del fuoco.
Il ragazzino dai calzari alati batteva con un piede sul pavimento con fare impaziente mentre gli occhi vagavano da una colonna all’altra ancora troppo sconvolti dall’aver trovato quella luce luminosa nel più fitto dell’Orco.
Quando aveva udito il maestoso portone della cella schiudersi si era voltato con le mani sui fianchi.
Che aspettasse da molto glielo si leggeva in viso.
 
“Hermes, nuovamente al mio cospetto, devo forse supporre un vago senso di nostalgia nei riguardi del mio regno?”. Ade aveva parlato col suo solito tono serio e impeccabile; egli, sebbene non vi fosse più avvezzo, era sempre legato ai principi dell’ospitalità.

Anzi, per il solo fatto che il suo dominio, prima o poi, avrebbe accolto tutti, lo rendeva il sovrano più ospitale.  
Lui non faceva esclusioni. Tutti erano ben accetti nell’Averno.

Un sorriso furbo faceva capolino sul volto di Hermes: se il suo ospite poteva essere tanto scaltro da sottolineare la sua posizione di superiorità allora lui, di sicuro, non sarebbe stato da meno; la missione affidatagli era troppo importante perché battutine sibilline potessero mettergli paura.

“Sommo signore dell’Averno voi sapete cosa mi porta al vostro cospetto, non fate gemere di dolore il cuore di una madre in pena, vi supplico”. Hermes, con tono cauto, aveva formulato quella preghiera nel modo più pietoso possibile; sapeva infatti che il dio dell’Averno, sebbene temuto per la propria severità, allo stesso tempo veniva rispettato per la propria saggezza.

“Quello che mi chiedi, nipote, non dipende dal mio personale volere. Anche io, infatti, sono pedina di un fato più grande di me che mi spinge a esigere una consorte”. Ade aveva camminato con passo lento e, raggiunto lo scranno, vi si era accomodato con grazia. Ecco il sovrano dell’Averno, eccolo nuovamente indossare la maschera del fato per celare i suoi più oscuri desideri.

“Zio, se permettete, l’Olimpo vi offre ogni altra dea o ninfa che possa essere di vostro gradimento ma vi scongiuro, restituite Persefone alla madre. Vostra sorella Demetra non fa che cercarla in ogni angolo del globo. La sua ricerca è inarrestabile e quando-”, le parole concitate di Hermes erano state bloccate da un gesto della mano di Ade.

“Quando Demetra, mia sorella, saprà che Persefone è al mio fianco non oserà obiettare”. Questa volta poteva percepirsi nell’aria una lieve tensione scatenata nel dio dal ricordo del comportamento della sorella al suo cospetto.

“Demetra è fin troppo sciocca per vedere ciò che vi è oltre, abituata com’è a solo ciò che gli occhi possono mostrarle. Ma lei-”, a quel punto una mano del dio si era spostata verso il suo viso, sopra le tempie a massaggiarle lentamente.

“Persefone è l’unica compagna che questo trono possa reclamare. A differenza vostra, bei dei della superficie, lei sa vedere anche ciò che si nasconde”.
Hermes aveva deglutito in difficoltà. Come avrebbe mai potuto convincere lo zio ad evitare la tragedia che si sarebbe scatenata se solo Demetra avesse sospettato che la sua Kore era prigioniera dei freddi meandri avernali?

“Lasciate che la veda, che almeno mi assicuri coi miei stessi occhi che sta bene e che accetta quanto voi dite e credete”. Hermes, osservando lo zio improvvisamente irrigidirsi, aveva capito immediatamente di aver fatto centro.

“E sia”. Ade, fulminato con uno sguardo di brace il nipote, aveva richiamato al suo cospetto il suo giudice, Radamanto, rimasto fuori dalla cella del tempio perché i due dei potessero fronteggiarsi viso a viso senza altri di mezzo.

“Mio signore, che comandate?”. Il volto di Radamanto, sempre serio e composto, ora recava un’impercettibile nota di preoccupazione; non era abituato a tutto quel movimento divino in casa propria, men che meno era avvezzo a vedere il proprio signore, sempre pacato e calmo, mascherare invece un’ira e un’angoscia senza pari.

“Conducete Persefone al mio cospetto, ditele che suo fratello Hermes vuole assicurarsi della sua salute".

“Come ordinate”. Fatto un piccolo cenno col capo Radamanto aveva lasciato la stanza non prima di aver scoccato un’occhiata sospettosa all’ospite dai piedi alati.


“E’ sempre così cupo il vostro secondo?”. Hermes aveva rivolto quella domanda allo zio non appena Radamanto aveva varcato la soglia; il tono gioviale di chi vuole alleggerire la situazione ma Ade, tormentato, non l’aveva degnato di una risposta.

---

 
 
 Radamanto la precedeva nel lungo corridoio che di lì a poco l’avrebbe condotta al cospetto del dio che, fino a pochi istanti, prima l’aveva tenuta tra le braccia come fosse stata il gioiello più prezioso sulla faccia della terra.
Infreddolita e ora anche turbata da quella strana convocazione, non faceva che arrovellarsi il cervello su ciò che avrebbe mai potuto dire al fratello.

Avrebbe forse dovuto pregarlo di condurla via prima che qualcosa di terribile avesse luogo?

Quella riflessione angosciante aveva trovato la propria fine non appena la dea aveva posto il piede nella cella avernale del dio.
Ade, dall’alto del suo trono nero sembrava ancora più impenetrabile - forse perché non l’aveva degnata di uno sguardo al suo ingresso- mentre il fratello, piccolo e rivestito di bianco, la guardava con ansia, anzi, più precisamente la scrutava alla ricerca di un qualche segno di violenza.

“Fratello”, Persefone, infastidita da quello sguardo, l’aveva richiamato prontamente.

“Sono stata reclamata in moglie, non abusata contro il mio volere solo per soddisfare una voglia carnale”.

Quella frase, pronunciata con tono grave, aveva come lasciato di stucco Hermes che, mortificato adesso guardava il pavimento.

“Mia signora… Non siate dura con vostro fratello Hermes. È giunto qui al mio cospetto armato dei migliori propositi: voleva sapere quali fossero le vostre condizioni di salute”. Ade, un po' lusingato da quella frase pronunciata con solennità dalla giovane dea che subito aveva come difeso non il gesto subito – un rapimento è sempre un rapimento- ma almeno le intenzioni dietro quello, aveva sorriso impercettibilmente alla dea che, dopo averlo ascoltato, aveva rivolto il proprio capo al fratello; questa volta il tono era più dolce.

“Fratello, come avete potuto vedere da voi, io sto bene. Ade non ha osato torcermi un capello né usarmi violenza di alcun tipo. È vero, le sue mani anno compiuto un gesto orribile ma ha rispettato ogni vincolo imposto dall’ospitalità”, un lieve rossore ora le imporporava le guance; meglio tacere sulla loro intima vicinanza di qualche minuto prima.

“Sorella, le vostre parole mi danno un gran sollievo. Venite con me, da vostra madre che vi cerca strenuamente da giorni, portate voi stessa la notizia della vostra riguadagnata sicurezza”. Hermes con fare implorante le rivolgeva quella preghiera affinché ammettesse che quello non era il luogo in cui voleva rimanere.

“Mi spiace fratello”.

Ade e Hermes si erano come pietrificati all’udire quella semplice frase.

“Mi spiace fratello”, aveva continuato la dea

“Il mio ospite mi offre la possibilità di conoscere questo regno che terrorizza i più e io, Persefone, non posso venir meno a questo invito. Dite alla cara madre che sto bene e che molto presto la raggiungerò tra le profumate spighe del campo davanti casa”. Persefone aveva parlato con saggezza, sapeva che nessuno avrebbe potuto obiettare quella scelta così logicamente motivata.

“Ma sorella…”. Hermes, ora palesemente sconvolto, non poteva più dire alcun che.

“Nipote, avete udito le parole della mia ospite. Nessun obbligo è stato infranto quindi andate e riferite a Demetra quanto detto dalla sua Kore. Ella rimarrà qui fin quando questo le aggraderà. Il mio regno l’accoglie”. Ade si era alzato con eleganza dal suo trono e, mosso un passo verso il suo interlocutore aveva continuato

“Faresti meglio a rassicurare mia sorella prima che si preoccupi ancor di più. Fai in modo che sappia dove si trova sua figlia”. Quelle ultime frasi celavano un’infinita soddisfazione del dio, finalmente forte dell’assenso di Persefone a rimanere al suo fianco.

“Farò come desiderate, zio”.

Un cenno del capo alla sorella e, con un battito d’ali, Hermes era sparito dal loro cospetto.
Un silenzio quasi surreale aveva riempito la stanza dell’altare infernale.

Ade, in piedi e ancora fermo dinnanzi al suo scranno, si era limitato a fissarla, era impossibile per lui celare quel che il suo animo stava sperimentando perché lo stesso agitava quello della dea.
“Quindi avete accettato il mio invito”. Aveva parlato mentre con passo cadenzato aveva sceso i gradini per raggiungere il suo altare profumato di spezie e miele.

“Siete stato molto educato nel formularlo, evidentemente”, Persefone l’aveva guardato di sottecchi, troppo imbarazzata per incatenare i suoi occhi con quelli ardenti del dio.

“Allora sarò il miglior ospite che una dea come voi possa mai desiderare”. Adesso il dio le si faceva vicino, il frusciare del chitone e del mantello erano gli unici rumori oltre al battito del cuore di Persefone; ella era rimasta immobile mentre la voce, quasi frizzante, mal celava una parziale ma ritrovata serenità.

“Lo spero perché mi avete promesso di illustrarmi ogni angolo del vostro regno”.

Un sorriso le aveva impercettibilmente illuminato il volto mentre un piccolo brivido le percorreva la sua spina dorsale.

Il dio oscuro le si era fatto nuovamente davanti, come aveva fatto quella mattina nella sua camera da letto, come era avvenuto nella sala magna dell’olimpo dove per la prima volta i loro occhi si erano incatenati ma, questa volta tra loro era come se vi fosse stata una nuova intimità, un nuovo patto suggellato da un’offerta di pace inaspettata.
 
Ade, sfilatosi il mantello, glielo aveva posto sulle spalle nude e, nel farlo, l’aveva stretta più vicina a sé.

“Grazie”, aveva bisbigliato e, chinatosi su di lei, le aveva baciato la fronte con estrema dolcezza.
Persefone aveva chiuso gli occhi imbarazzata.

Avrebbe potuto abituarsi a quel dio. 


Il fuoco ardeva nella sala un tempo oscura.
 
---

 
Quando il sovrano dell’Averno e la sua gentile ospite avevano lasciato la sala del trono questa era rimasta silenziosa per molto tempo. Nessun gemito di dolore, nessun abbaio forsennato era giunto alle orecchie di Radamanto, lasciato a sorvegliare l’altare divino.
Il giudice aveva camminato intorno allo scranno con passo marziale, i suoi occhi non facevano che vagare sovrappensiero: i pensieri erano fin troppo grigi perché potesse rilassare le membra.
Il giudice in seconda, questo il soprannome affibbiatogli dagli olimpici, era sempre stato così anche prima di venir scelto per svolgere quel ruolo; Ade in persona l’aveva designarlo e lui, che un tempo era solo un misero mortale, da quel momento non aveva trovato altro obiettivo che dedicare interamente la sua esistenza a quel dio e a quel regno.
Un regno oscuro, sì, ma giusto rispetto al mondo umano fin troppo tormentato da ingiustizie di cui molto spesso la causa erano proprio gli dei che gli uomini sceglievano di celebrare.

La sua vita prima di morire non poteva considerarsi vera vita come quella che aveva iniziato a vivere dopo la morte.

Un paradosso forse, ma un paradosso veritiero.
Trovava molto più soddisfacente vivere un’eternità al fianco di Ade piuttosto che una tra gli quegli esseri umani che tanto aveva scrutato in vita e da cui tanto aveva imparato in morte.
Il mondo cambiava per non cambiare mai.
I vizi cambiavano per non cambiare mai.
E forse solo lui, che mai era cambiato, adesso invece si trovava mutato.
Se ne era accorto quel giorno, nel silenzio della cella del sovrano.
Solo, perso nei suoi pensieri, aveva urtato un piccolo vaso ricolmo di offerte votive ai piedi di una colonna. Tiratosi su agilmente, con ancora il vaso tra le mani, i suoi occhi avevano incrociato le fiamme ardenti della torcia.

Aveva notato effettivamente un qualcosa di diverso nell’immensa sala ma solo ora, faccia a faccia col mutamento, metteva a “fuoco” di cosa si trattasse.

Erano passati secoli, forse millenni di servizio fedele ma mai e poi mai il suo corpo aveva potuto nuovamente sperimentare il calore del fuoco, il suo tepore o anche semplicemente godere di quella luce chiara che solo delle fiammelle vispe riuscivano a emanare.

Allungato un dito verso la fiamma aveva sorriso sentendo il vero calore bruciargli impercettibilmente la mano.

Quello non era un fuoco umano, o almeno, non era dono di uomini, così come non era fuoco avernale, assolutamente verdognolo e gelido.

 Sentiva come una forza primordiale bruciare dentro quei bracieri.

Alla ricerca di quella entità bruciante aveva tenuto gli occhi fissi sulla fiammella danzate e lì, nascosta tra le lingue incandescenti, l’aveva vista per la prima volta.


Vestiva un abito smeraldino.

 








L'Angolo di Avareil
Scusate veramente per il ritardo, mi ero ripromessa di essere veloce ma la colpa non è stata mia. Il capitolo era pronto da giorni ma per colpa di un trasloco non ho avuto rete internet e ora la sto palesemente scrocando eheheh.
Ringrazio sempre chi mi parla e mi dice quel che pensa e prova leggendo questa storia, è di grande conforto e stimolo.
Ringrazio anche chi, silenziosamente legge o silenziosamente mi fa il regalo di mettermi tra seguiti/ preferiti o ricordati anche se poco m'importa essere lì, preferisco di gran lunga parlare con voi lettori, capire che pensate o anche cosa vi aspettereste da una storia del genere. 
Con la speranza che siate coraggiosi e che possiate avanzare in futuro sia critiche positive o anche negative vi rinnovo i miei saluti e il mio grazie.
Siete preziosi. Tutti.
A prestissimo
Avareil

 
  
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