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Autore: Avareil    11/09/2017    5 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciò che si scorge oltre

Avevano camminato lentamente scambiandosi di tanto in tanto degli sguardi di sottecchi.

Un’occhio poco attento avrebbe giudicato il sovrano dell’Averno assolutamente distaccato dall’ambiente circostante ma, in realtà, complici le numerose torce poste a rischiarare il corridoio, Persefone era riuscita a scorgere una ruga d’eccitazione intorno agli occhi del dio così solitamente serio e dai tratti induriti.
Egli teneva ancora le spalle rigide come quelle di un soldato, il passo era marziale e risuonava secco contro il pavimento nero e lucido.
La dea, curiosa, lo aveva fissato con insistenza e malcelato interesse alla ricerca di un qualche piccolo segno che smascherasse i veri sentimenti del dio e il fiero Ade, forse sentendosi bruciare il volto per colpa dell’insistenza dello sguardo della dea, all’improvviso aveva rivolto impercettibilmente il capo verso di lei incatenando i loro sguardi.
Un angolo delle sue labbra sottili si era tirato su in un sorriso accennato, il viso assumeva un colorito vivo.
“Mia signora?”, una domanda sospesa a metà.

 Le aveva rivolto la parola e l’aveva fatto con l’eleganza di un re abituato a servire piuttosto che ad essere servito.

Subito Persefone, strettasi sulle spalle il mantello pesante e troppo lungo per la sua piccola figura, aveva distolto lo sguardo arrossendo impercettibilmente.

Lei, che aveva sempre dovuto combattere con sua madre per aver riconosciuto un briciolo di libertà e autonomia, adesso veniva trattata come una regina.

Il cuore le palpitava veloce nel petto sebbene il cervello, fin troppo sveglio e fin troppo distante da quella spontaneità tipica del carattere della Kore di un tempo, la spronava a rimanere vigile, a non lasciarsi travolgere dalle emozioni contrastanti che le abitavano l’animo.

“Credo… Si, credo che sarebbe un buon punto di partenza, per poter poi comprendere meglio il vostro regno, capire quale sia il vostro ruolo in tutto questo”. Aveva parlato con voce chiara e cristallina mentre le mani, veritiere testimoni del turbamento del cuore, stropicciavano il tessuto del mantello con fare impacciato.

Udite quelle parole Ade aveva sorriso tra sé e sé, intimamente felice di non percepire alcuna nota di paura in quell’essere delicato.
“Se pensate che il mio compito sia d’ampio spettro come quello di Zeus vi devo correggere fin da principio Persefone: l’Averno non ammette gozzovigli o distrazioni da parte dei suoi sovrani, men che meno dai suoi sudditi”.
Riuscito a intercettare nuovamente i suoi occhi sfuggenti e imbarazzati, le aveva rivolto un sorriso corrucciato e -quasi- speranzoso.
“Seguitemi”, aveva poi risposto e, fattole cenno di aumentare il passo, l’aveva condotta fuori, “all’aria aperta”.
“Vedete, l’Averno non è solo un regno come tutti credono, l’Averno è un essere vivente, una creatura che respira come me e voi… Ascoltate”.
Ade, preso dalla sua spiegazione, aveva sollevato una mano verso la dea facendole segno di fare silenzio per poter meglio concentrarsi.

E lei l’aveva udito.

Un suono distinto e netto come un battito di creatura viva: un cuore, ora lo distingueva perfettamente e, per questo motivo, aveva sgranato gli occhi sorpresa.
“Il vostro regno vibra, possiede un cuore che batte”, aveva mormorato impressionata da quella scoperta così fuori dalle regole del cosmo. Suggestionata, quasi inconsapevolmente, aveva posto una mano sopra il proprio petto, all’altezza del suo organo vitale.
Ma quelli erano due battiti completamente diversi: il suo, vivo e forte, denunciava quello debole e stanco dell'Averno.
“Io sono il mio regno, io vivo perché lui vive, lui vive perché io vivo”. Ade, dopo aver osservato ogni suo gesto, le aveva nuovamente sorriso; questa volta un velo di tristezza gli oscurava  lo sguardo.
“Dunque quello che sento è il vostro cuore?”, aveva chiesto quasi con preoccupazione la dea, impensierita dalla debolezza di quel battito.

Silenzio.

Ade non le rispondeva, anzi, quasi vergognoso, aveva distolto lo sguardo da lei e da quegli occhi caldi come il miele ma ora profondamente avviliti.
Sapeva bene che, a dispetto delle sue sembianze così fiere e imponenti, il suo cuore e tutto il suo essere erano da secoli marchiati da una maledizione che non lasciava scampo a nessun organo e a nessun sentimento.

“Ade…il vostro cuore?”, Persefone non aveva alcuna intenzione di cedere su quel punto, voleva sapere, voleva capire.
Nuovamente il dio non aveva risposo al suo quesito ma, questa volta, pur non guardandola in viso, l’aveva presa per un polso e, con un gesto quasi intimo, aveva posto la sua mano sul suo petto, proprio all’altezza di quel battito malandato che svelava la veridicità dell’intuizione della dea.
“Ade…ma cosa vi hanno fatto?” La voce di Persefone era quasi un sussurro addolorato mentre distintamente ora riusciva a percepire quel malessere che, dal sovrano, riverberava in tutto il suo dominio per infine trovare eco nel suo petto, ora allineato con quel ritmo lento.
 “Sarà meglio sbrigarci. Prima che gli obblighi del trono si facciano impellenti gradirei presentarvi qualcuno”.
Ade adesso la guardava nuovamente negli occhi, aveva interrotto il contatto tra il suo petto e la mano della giovane e questa, piccola e affusolata, era finita stretta tra le sue.
“Vi seguo, come sempre…”, Persefone aveva tentato di parlare con voce serena ma ancora mostrava i segni di una sofferenza nutrita nei riguardi di quel dio che tanto ancora le teneva nascosto.
“Spero vi piacciano i cani”, Ade, questa volta sorridendo, aveva ripreso a camminare a passo spedito; teneva per mano la dea che, piccolina e impacciata dal mantello, faticava a star dietro a quel dio così imprevedibile.
 
Il sovrano dell’Averno sarebbe stato un disonesto se avesse detto di non aver provato una scossa d’ adrenalina nell’udire quel “come sempre” pronunciato dalla sua ospite come se si fosse trattato di una consuetudine familiare.

Lei, invece, sarebbe stata una bugiarda qualora avesse affermato con forza che quel profumo così intenso, a metà strada tra cuoio e anice, sprigionato dal mantello sulle sue spalle non le piaceva affatto, soprattutto addosso.
---



“Come hai detto?”. La voce di Demetra risuonava spaventosa tra le mura del suo tempio sacro.
Il volto, solitamente di un caldo colorito ambrato, adesso invece risultava chiazzato di rosso e leggermente accaldato. Più precisamente tutta la dea, nella sua interezza celestiale, era percorsa da scariche elettriche simili alle folgori del fratello olimpico.

Una rabbia criminale le abitava il cuore.

Hermes, dal canto suo, se in un primo momento aveva cercato di tranquillizzare la dea con i suoi soliti modi goliardici e scherzosi, adesso invece, nuovamente e letteralmente coi piedi per terra, mostrava un volto pallido e preoccupato.
Fare il messaggero non era mai stato un compito facile e chi, stupidamente, affermava al suo cospetto che “ambasciatore non porta pena” era, per l’appunto, solo un povero idiota e l’avrebbe volentieri sfidato a prendere il suo posto in situazioni come quella:  al cospetto di una dea madre che veniva defraudata del suo bene più prezioso, sua figlia, e da colui che più poteva avere in odio il suo cuore, il fratello traditore; il tutto condito da maledizioni rivolte al  padre degli dei che mal aveva saputo prendere le difese di quella creatura così indifesa ora in balia dell’Erebo.

“Si, mia somma dea, Persefone è nell’Averno, ospite di vostro fratello Ade”. Hermes l’aveva guardata con paura, una paura confermata dal colorito ancora più acceso delle gote di Demetra.

“Tu stai scherzando, la mia piccola Kore non può essere lì, è impossibile”.

“L’ho vista io con i miei occhi. Ella è stata convocata al mio cospetto presso la grande sala nera del sovrano dell’Ade”. Il messaggero sapeva che la poca calma della zia si sarebbe esaurita nel giro di poche battute e temeva maledettamente quel momento.

“Mia figlia Kore…”. Aveva iniziato la dea ma Hermes l’aveva subito corretta.

“Persefone vorrete dire…”

Appunti per sopravvivere agli sguardi omicidi: mai osare ricordare ad una madre che la figlia non è più una bambina.

Rimanendo illeso dallo sguardo di fuoco lanciatogli dalla zia, Hermes aveva tossito distogliendo il volto.

“La mia Kore…”, aveva poi continuato quella mai smettendo di osservarlo in cagnesco,

“non può essere giunta di sua sponte in un luogo così oscuro, nessuno del mio seguito ha mai osato fare parola di una realtà così meschina dinnanzi alla mia piccola quindi proprio non capisco come tu possa osare a definirla “ospite” di quel bastardo di mio fratello”.

Ecco. Appunto.

“Mia signora, vedete…”, il balbettio quasi indistinto di Hermes avevano insospettito la dea che, mossa dalla rabbia e dall’impazienza, si era fatta pericolosamente vicina al nipote, quasi faccia a faccia, mentre le mani forti si stringevano sui fianchi morbidi per il nervosismo.

“Persefone, vostra figlia, ha accettato l’invito di vostro fratello: ella rimarrà nell’Averno per poter soddisfare la sete di conoscenza per quei posti oscuri ai più”.

Aveva buttato fuori la verità tutta in un sol respiro.

“Come hai detto?”.
Demetra, adesso quasi spenta e bianca in volto, aveva guardato sconvolta il ragazzino.
“Kore ha accettato l’invito del signore dell’Averno?”, le parole erano quasi strozzate.
“Si”. Hermes, apodittico, sanciva con quel monosillabo il tormento della dea terrena.
“Quanto tempo ha detto che durerà la sua permanenza?”. Demetra, esitante, ora poneva una mano all’altezza del cuore; stava male, era come non aver più fiato in corpo.
“Mi ha detto di riferirvi che sarà di ritorno quando le spighe dorate abbracceranno l’altare natio”.

Aveva fatto silenzio la dea, aveva incassato quel colpo come il migliore dei soldati e ora, voltatasi, aveva camminato verso l’uscita della sua cella sacra a capo chino e con le mani strette sul ventre piatto.
La carne della sua carne, la sua bambina, sarebbe rimasta mesi e mesi confinata nel gelido Erebo: non avrebbe potuto vederla, non avrebbe potuto sentire il suo piccolo e tenero corpo stretto tra le sue braccia. Non avrebbe più potuto chiamarla “bambina” se solo quel mostro, sfruttando il suo buon cuore, le avesse messo le mani addosso costringendola a diventar donna in maniera traumatica e violenta.

Ade non è Zeus.

Una vocina interiore le bisbigliava quel mezzo conforto.

Ade non oserebbe mai.

Sempre quella vocina, forse la sua coscienza nascosta, cercava di tranquillizzarla ma, la dura realtà dei fatti le ricordava che proprio quel dio non si era fatto scrupoli a rapire la sua bambina; che ella avesse accettato un posteriore e fantomatico invito era assolutamente impossibile.

Non poteva essere vero.

La sua creatura non era una sciocca, non si sarebbe mai fatta abbindolare dalle promesse vane di un dio oscuro.

Si, ma ti ricordi come ballavano, avvinti in uno sguardo di fuoco? 

Un urlo le aveva riempito i polmoni al solo ricordo di quella notte, le mani, ora strette tra i capelli, li tiravano e li stringevano con rabbia.  
In cuor suo sapeva che vi era qualcosa di oltre, qualcosa che non voleva vedere ma che sapeva essere lì, in agguato, pronto a sottrarle la sua unica felicità, la sua unica luce.

Travolta da questi pensieri non aveva più badato al nipote ancora rigido al suo cospetto, non aveva cercato con lo sguardo le fedeli ancelle né aveva pregato il suo compagno, il suo Zeus. Nessuno avrebbe potuto recarle sollievo per quel dolore che le mangiava lo stomaco.
 Traballante e incerta aveva mosso dei passi verso la porta del tempio e lì, in un soffio di vento, si era persa anche lei nel mondo.
 Un sospiro, una brezza: Demetra era lì, alla disperata ricerca della sua bambina perduta.  
 
---

 
 
Le camere fumose del tempio akragantino l’avevano accolta in silenzio religioso.
Estia aveva varcato la soglia sacra con passo leggero mentre gli occhi vispi erano alla ricerca della padrona di quei luoghi.
Era, distratta e seminascosta dalle coltri purpuree che separavano la cella dalla sala del tempio, era circondata da fumi propiziatori e libagioni succulente: celebrava riti di fecondità per le giovani donne promesse in sposa, le mani erano rivolte al cielo.
Estia aveva sempre nutrito nei riguardi di quella sorella una profonda ammirazione; del resto non sapeva quale altro sentimento indirizzare nei riguardi di quella dea che, seppur dall’animo focoso, aveva sempre saputo mitigare le proprie ire.

Più o meno.

Allontanati dalla mente alcuni lugubri ricordi che vedevano Era quale protagonista sanguinaria di vendette atroci, Estia aveva continuato a guardare la sorella, una grande pena le chiudeva la bocca dello stomaco.
Quella dea maestosa, regina consorte di cieli olimpici, soffriva al pari di ogni altro essere vivente, ma lo faceva con una dignità senza pari tale che la stessa Estia non poteva fare a meno di provare stima: indipendentemente dal comportamento assolutamente balordo tenuto dal compagno divino, ella, Era la somma, non faceva che dedicarle ogni mese delle profumate offerte, segno di riconoscenza per quelle nozze benedette dal sacro fuoco domestico.
Come potesse continuare ad amare loro fratello per Estia era un mistero.
Come potesse continuare a sopportare i tradimenti e le bugie, un assoluto enigma.
Eppure Estia non aveva mai smesso di ammirarla.

Fino a quel momento.

Estia ben sapeva che la vita della regina era solcata da profonde ferite che nemmeno il tempo avrebbe mai potuto sanare; ma questo non la legittimava, ancora una volta, a cercare giustizia da sé.
La dea del focolare domestico aveva saputo del tradimento compiuto da Era, aveva visto coi suoi occhi, onnipresenti e celati dalle fiamme vive, con che ferocia e con che tracotanza la dea signora dei cieli e delle unioni, avesse tradito sé stessa, il proprio tempio e il proprio dono.
Persefone le aveva chiesto asilo e quella, nella sua “grandezza”, l’aveva umiliata come la peggiore delle creature per poi costringerla a una fuga logorante e avvilente.
Certo… Estia ben sapeva che Ade non era assolutamente lo spregevole dio che veniva raccontato nelle storie, ma Era questo lo ignorava e anzi quasi lo sperava; ella ricercava solamente vendetta e peggiore fosse stato l’aguzzino della giovane Persefone meglio sarebbe stato quel piatto freddo da offrire alla sorella Demetra.

No.

Lei, Estia, la più anziana, la più grande ed evidentemente anche la più saggia, non avrebbe lasciato impunito un atteggiamento del genere.

Si sentiva tradita.

“Dolce Estia, che bello vedervi”. Demetra, ancora con le mani ora giunte in preghiera, le aveva sorriso compostamente dandole ancora le spalle.
Il portamento, l’atteggiamento, il diadema che recava sulla fronte era tutti segni fin troppo tangibili della sua innata regalità.
 
“Sorella, vorrei poter esprimere lo stesso piacere nell’incontrarvi ma non posso unirmi a voi nel vostro giubilo. Il mio animo è ferito e siete voi la cagione di questo malessere”.
Estia era sempre stata una donna materna e benevola ma, come ogni maggiore che si rispetti, provava quasi l’impellente desiderio di raddrizzare i comportamenti devianti delle persone a lei più care.

Ovviamente per il loro bene.

Era, immobile, aveva leggermente sobbalzato nell’udire quelle parole scagliate con freddezza e precisione. Sua sorella sapeva. Non era buona cosa.

“Sarebbe inutile tentare di prendervi in giro mentendo su ciò che ho fatto alla giovane figlia di nostra sorella Demetra; ma sarei altrettanto sciocca nonché un’ipocrita se ora, ai vostri luminosi occhi, mi mostrassi pentita del mio gesto”. Aveva parlato con schiettezza, le mani sistemavano nervosamente lo scialle sulle spalle nude mentre gli occhi, marroni e profondi, evitavano il contatto visivo.

“Non mi pento di nulla, io sono Era, la compagna legittima di Zeus, mio e vostro sovrano dei cieli olimpici; evitate quindi un rimprovero, non avrebbe alcun effetto.”

Era aveva parlato col tono perentorio tipico dei sovrani.

“Se io parlassi a voi da dea a dea allora potrei pure accettare questa sorta di giustificazione che accampate per il vostro operato”.
“Io non giustifico…”. Era, prontamente, aveva interrotto la sorella ma questa, adesso visibilmente indispettita, le si era fatta d’innanzi e, volto a volto, aveva ripreso la parola con cipiglio guerresco.
“Non interrompetemi”. Folgoratala con occhi di brace, Estia aveva poi ripreso con tono più pacato.

Si era lisciata le vesti prima di riprendere fiato.

“Non mi rivolgo a voi come una semplice supplice farebbe con la propria regina; io sono vostra sorella, vostra sorella maggiore, esigo che mi ascoltiate col dovuto rispetto; poi, se avrete altro da aggiungere, sarò ben lieta di interloquire con voi civilmente”.

Era, fatto si col capo, aveva dunque guardato verso il corridoio che dalla cella conduceva ai suoi giardini.  Con una mano aveva indicato alla sorella quella strada.
“Scusate i modi sorella, seguitemi, avremo modo di discutere con calma presso i melograni odorosi”.
“Sta bene.” Aveva risposto la dea maggiore e, accompagnando le parole con un cenno del capo, l’aveva seguita.
Una volta giunte nei pressi del giardino si erano accomodate su due seggiolini, una di fronte all’altra. Era rimaneva rigida.
“Ebbene” Aveva iniziato Estia, un sorriso di cortesia mascherava l’astio.
“Ebbene, sorella, volevo farvi delle domande.” Estia, continuando, aveva letteralmente stupito Era che, adesso, la guardava in silenzio ma con gli occhi curiosi e incerti.
“Sono a vostra disposizione, chiedete pure, ma sappiate che non mi pento di quello che ho fatto, questo vi sia ben chiaro”, piccata Era aveva sistemato l’orlo del vestito, distoglieva ancora gli occhi.
“Voi siete la regina consorte di Zeus, mio e vostro fratello; da lui siete stata scelta e con lui avete suggellato l’unione presso i miei fuochi?”. Estia continuava a sorridere mentre il viso dell’interlocutrice si faceva ancora più contrito.
“Si certo, sono la regina, legittima e unica consorte di nostro fratello”.
“E ditemi, dolce sorella, fin dove si estende il vostro dominio?”. La dea del fuoco aveva ora accavallato le gambe lasciando intravedere due pesanti cavigliere.
“Il mio dominio non ha confini: ogni essere umano che nasce e cresce necessita la mia benedizione; ogni unione, ogni parto, ogni legame di fedeltà esige il mio vincolo sacro.” La voce della dea si era fatta leggermente più sicura mentre le mani continuavano a giocare con l’orlo del peplo.
“Vantate inoltre una felice discendenza, molti figli hanno allietato il vostro vincolo col padre Zeus: Ares, Eris, Ebe…”.
“Si, i miei figli sono i miei gioielli, le mie uniche gioie”. A quel punto Era si era fatta più fiera: Zeus avrebbe potuto anche calpestarla e mancarle di rispetto con ogni bagordo e ogni tradimento ma quei figli erano la sua discendenza, il suo unico premio in un’eternità fatta di amarezze.

Quando una madre sente parlare dei propri figli non può fare a meno di sentirsi orgogliosa.

“Si mi rispondete… I figli sono un grande vanto per una madre; i figli sono preziosi come l’oro e inestimabili come l’ambrosia”. Estia aveva mostrato i denti bianchi e perfettamente dritti ma, quel sorriso, non aveva contagiato gli occhi stranamente foschi.
Troppo tardi Era aveva inteso il doppio senso di quella domanda e, troppo tardi, si era resa conto di aver parlato schiettamente mettendo a nudo il suo animo di madre.

Solo a quel punto Estia l’aveva folgorata con uno sguardo nero e feroce.

“Allora, sorella, mi appello a voi e al vostro animo di madre e di regina: il vostro potere è sconfinato e a questo è intrecciata in maniera indissolubile l’esistenza umana, ogni vostro volere è legge, ogni vostra vendetta un ordine. Siete madre di dei, protettrice di madri, consolatrice di madri, voi dunque che siete LA madre, come potete, come potete anche solo ordire una punizione che si scagli contro una vittima innocente e non verso colui o coloro che hanno veramente colpa?”. Estia ora era in piedi e fronteggiava la sorella che molto poco ora aveva in comune con la regina austera di prima.
“Siete la consorte del padre dei cieli e a voi lui ha promesso il potere e l’unione sacra e legittima. Voi sapevate a cosa andavate incontro, l’avete letto nei suoi occhi, nei suoi gesti, nella tracotanza bramosa che lo contraddistingueva in battaglia e nei concili; non eravate all’oscuro di niente, tutto in lui era manifesto e l’avete scelto, pregi e difetti, avete preso tutto e ancora vi ostinate a punire gli infelici invece che i carnefici. Piuttosto che punire una figlia dovevate punire la madre e il padre che a voi usarono tradimento. Voi…”, a quel punto il discorso concitato di Estia si era placato in una sentenza di poche parole.
“Voi siete venuta meno al vostro dono: una dea, non un’umana ma una dea, vi ha chiesto protezione, supporto, quantomeno un’unione serena sebbene imposta e voi le avete rifiutato tutto e, in quel rifiuto, avete negato voi stessa.
Quel diadema che portate sul capo non vale la donna, la sorella che non trovo più, Era”.

“Io bramavo giustizia. Quella dea aveva gli occhi di mio marito e il calore della madre, ho sofferto terribilmente Estia! Il frutto esplicito di un tradimento al mio cospetto”.

 Era, a capo chino, aveva proferito quelle parole in un sospiro colpevole; Era, la regina, la sovrana dei cieli, mostrava finalmente il suo cuore grondante di sangue per le numerose ferite subite a tradimento.

Estia le si era fatta vicina e, sollevata una mano, ora le carezzava con l’indice il volto delicato.

“Questa non è mai stata giustizia, sorella: questa è vendetta; una vendetta priva di senso che vi rende ben peggiore di Demetra o Zeus. Demetra soffre, soffre per questo torto recatovi e allo stesso tempo si maledice perché da questa ferita inferta a voi, sangue del suo sangue, è nata la sua più grande gioia: Persefone. Il Fato ha già provveduto a sottrargliela, non credete che questo basti?
Non avete bisogno di far versare lacrime e sangue, le Moire sono state chiare”.
“Nostra sorella soffre molto?”, Era non aveva chiesto col desiderio di saper la sorella sofferente, anzi, il suo tono, da madre a madre, da sorella a sorella, era addolorato.
“Si, ella soffre atrocemente e tanto più si strugge perché crede che quell’ unione sia in odio alla sua bambina; del resto voi stessa avete negato a Persefone finanche la serenità nelle nozze”.

Il tono grave di Estia aveva riempito l’aria profumata del giardino alberato.

Erano una di fronte all’altra, una seduta rigidamente, l’altra in piedi, troppo agitata per star comodamente poggiata su un seggiolino imbottito.
“Un figlio non dovrebbe subire le colpe dei genitori”. Era aveva finalmente aperto bocca, il tono fievole, quasi inesistente, era giunto alle orecchie di Estia in un sospiro.
“No, non dovrebbe”, aveva risposto quella, adesso il capo era rivolto alla sorella.

Lentamente la sovrana si era alzata dalla seduta comoda per muovere qualche passo verso un albero rigoglioso, unico testimone del loro discorso; un melograno forte e carico di frutti maturi.
Con mano sicura ne aveva preso uno e, con reverenza, l’aveva posto in grembo alla sorella.
“Un dono.” Aveva mormorato.
“Un dono?” aveva risposto Estia dubbiosa, anche se un tenero sorriso iniziava a illuminarle lo sguardo.
“Si, un dono per Persefone. Se potete, mia saggia sorella, recate questo presente all’ospite di nostro fratello; suggeritele di interrarlo nei pressi di una fonte d’acqua “pura” e di assaggiarne i chicchi una volta maturi. Un dono”. Aveva ripetuto quella parola con solennità.
“Un dono di augurio per un’unione benedetta”.

Estia ora le sorrideva apertamente e dopo aver messo al sicuro il prezioso frutto l’aveva abbracciata di slancio.
“Mi spiace sorella, come sempre mi sono lasciata travolgere dall’ira”.
“Siete una grande sovrana, saggia e buona. Non lasciate che la cattiveria altrui avveleni il vostro cuore”, le aveva mormorato Estia all’orecchio.
Sciolto l’abbraccio si erano guardate sorridendo. Gli occhi di Era ancora spenti.
“Secondo voi Demetra soffrirà pur sapendo la figlia felice?”.
“Quando si ha molto e si perde poco si soffre, cara sorella, ma quando si ha poco e si perde tutto si muore dentro.
Demetra soffrirà sempre”.
Con quelle parole Estia si era accomiatata dalla sorella.

In mano reggeva il prezioso frutto.
 
---


 
“I Cani?”, la risposta di Persefone mal celava preoccupazione e dubbio.
“Si, i cani, beh… Magari non proprio come li potreste immaginare”. Ade, sempre tenendola per mano, l’aveva condotta a passo svelto lungo il grande viale; direzione mura di confine.
Aveva sentito dentro di sé il bruciante desiderio di mettere a parte Persefone di un aspetto di lui che non molti conoscevano.
Era come desiderare di venire apprezzati per quello che si è veramente, a prescindere dalle fattezze o dai cuori malandati.
 Lui non era quella maledizione, non sopportava l’idea che anche in questo le sue scelte potessero essere vincolate da potenze oscure. Era stanco di essere il sovrano oscuro e triste.

Oddio, triste lo era eccome, ma forse, forse quella giovane dea avrebbe potuto vedere oltre la scorza emaciata e contaminata dal vincolo allo Stige.

Magari avrebbe potuto sul serio affezionarsi a lui e a quel regno per quello che erano, creature vive la cui esistenza seguiva regole proprie ma non per questo atroci o terribili.

“Onestamente ne ho un po' paura. I cani sono animali da fiducia, se non conoscono chi hanno davanti ne scrutano l’anima prima di affezionarsi”, Persefone quasi inciampava nei propri piedi ma non poteva negare di essere stata travolta da una sferzata d’aria fresca anche lì nel più cieco Orco.  

Era come correre per i campi erbosi della piana materna.
Era come ridere con le ninfe.
Ma lì non vi era né la madre né il suo fidato corteo, erano solo loro due, un dio scuro e emblematico e lei, una quasi donna, una poco più che ragazza.
Eppure le piaceva stare lì, in quel regno totalmente nero rischiarato solo da fiamme rosso vivo.
“Cerbero non oserà toccarvi, siete mia ospite, la mia più cara ospite. Non farebbe nulla di sconsiderato”. Ade aveva parlato con serietà, quasi dimentico del sorriso spontaneo di prima; desiderava rassicurarla.
“Speriamo”. Persefone l’aveva guardato di sbieco mal celando un sorriso furbo e giocoso.
Lo prendeva in giro come fossero stati amici da tempo, come se i loro cammini si fossero incontrati secoli addietro in circostanze felici; la dea aveva scorto la risposta alla sua provocazione proprio sul viso del dio ora corrucciato in un cipiglio scherzosamente offeso.
“Cerbero, mio fedele…”. Ade aveva lasciato la giovane alle sue spalle e, allungato un braccio per farle segno di mettersi dietro di lui, aveva invocato il maestoso guardiano del varco avernale.
Un cane enorme e dagli occhi iniettati di sangue aveva fatto capolino da dietro una coltre nera e fitta poco avanti rispetto all’ingresso; non una ma ben tre teste erano attaccate a quel busto possente e nero, ogni zampa veniva corredata da artigli acuminati.
Persefone quasi svenne.
I suoi occhi mai si erano poggiati su una simile bestia eppure il suo ospite, Ade, l’aveva invocato con reverenza e affetto; lei, che era rimasta dietro il dio, per lo spavento ne aveva afferrato la veste all’altezza delle spalle, lì il suo volto aveva trovato riparo.
“Mi spiace”, aveva mormorato quasi immediatamente,
“Mi spiace, non riesco, è così imponente e le teste, Ade, ha tre teste il vostro “cane”!”.
Sconvolta aveva balbettato quelle considerazioni impacciata e tremolante.
Un sussulto, Due…
La stoffa alla quale era aggrappata, e quindi anche il corpo che questa rivestiva, erano sconvolti da sussulti ripetuti che facevano vibrare il corpo del sovrano avernale. Una voce, una voce bassa e roca riempiva quell’aria solforosa e pesante di un riso spontaneo e profondo.
Ade, l’oscuro e impenetrabile, rideva; una risata cavernosa che gli saliva dallo stomaco e gli scuoteva le costole, i polmoni, il petto…il cuore. Tremava.
“Vi pare il modo, questo, di comportarsi? Ade!”, la dea aveva colpito con un pugno leggero la schiena del dio.
“Ho paura e voi ridete?”. Nel rivolgergli quell’accorato rimprovero Persefone aveva alzato il capo alla ricerca del viso colpevole del dio ma i suoi occhi di folgore avevano incontrato ben sei sfere insanguinate: il “feroce” mastino aveva calato i capi all’altezza della dea; goccioloni di bava fuoriusciti dalle labbra pensili avevano creato piccole pozzanghere vicino ai loro piedi.
“Ade, vi imploro!”. Nuovamente il volto nascosto tra quelle scapole sobbalzanti per il forte riso.
“Cerbero, date alla nostra ospite la possibilità di prendere fiato. Sedete e state fermo. Fatevi conoscere”. Nella sua grandezza sproporzionata il fido demone aveva preso posto di fianco a loro distogliendo l’attenzione da quella dea così poco avernale.
“Persefone, mia signora…”. Le aveva rivolto la parola con fare carezzevole, la voce ancora scossa da qualche risata.

Da quanto tempo il suo corpo malato non veniva travolto così dal riso?

Secoli. Nella migliore delle prospettive.

Mia signora un corno!”. Persefone, che molto più aveva della vecchia Kore che non della giovane e matura dea, aveva risposto con tono angosciato a quella provocazione.
“Come avete potuto tessermi un tranello del genere?! Quello non è un cane!”, un altro colpo tra le scapole del dio l’aveva fatto gemere per la sorpresa.

Quanta intimità, quanto…affetto(?) in quei gesti spontanei.

“Quello è un cane, magari non proprio piccolo e tenero come quelli di superficie ma se solo vi fidaste per un momento e sollevaste il vostro bel capo, potreste osservarlo e scorgere in lui la stessa indole. È il mio più fidato guardiano”. Sempre rimanendo di spalle davanti a lei, Ade aveva allungato una mano dietro di sé, cercava Persefone, ne cercava il fianco per poterla sfiorare e farle forza.
“Vi credo, nessuno oserebbe varcare quell’ingresso sapendo chi vi avete messo a guardia”. Rassicurata da quel nuovo contatto la dea aveva nuovamente sollevato il viso badando bene a non incrociare gli occhi del “cane”, e trovando invece quelli del dio che la guardava col capo leggermente voltato verso dietro.
“Persefone”.

Perché quel nome pronunziato dal dio aveva sul suo corpo un effetto formicolante e caldo?

“Uhm”. Un mugolio contrariato in risposta.

“Persefone…”, il tono del dio ora era chiaramente deciso e quasi minaccioso, come quando ci si rivolge ad una bambina capricciosa.

“Si, va bene, devo guardare oltre, lo so, ci provo, altrimenti non sarei qui”.

Vinta dalle stesse motivazioni che l’avevano portata a vagare per quei luoghi, aveva lasciato la salda presa sulla veste del dio e, lentamente, si era rivolta verso il demone avernale.

Su, forza, mangiami. Dai campi erbosi alle fauci di un mastino infernale.

Ade, percependo la ritrosia nel movimento lento della dea - ma notando anche la fiducia riposta nel suo consiglio- l’aveva affiancata, e ora, chino su di lei, le aveva mormorato all’orecchio
“Stendete un braccio mia signora”.

Addio arto destro. 

E invece no, con un lungo brivido che le percorreva la schiena per andare a prendere posto nel suo basso ventre – colpa del fiato caldo del dio che le aveva solleticato il collo-  si accorgeva di avere ancora il braccio; certo, umido di bava.


Ma l’aveva ancora. 






L'Angolo di Avareil
Eccoci qui, un nuovo capitolo in poco tempo per farmi perdonare la lunga attesa dei giorni passati!
Un bacio va a Sissi la cui presenza è sempre di grande conforto e stimolo. 
Un abbraccio a Damned e  Armidia che, sfondando il muro del silenzio, hanno scritto bellissime recensioni.
I vostri consigli e i vostri suggerimenti sono sempre ben accetti.

Grazie sempre
Avareil.

 
  
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