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Autore: Luana89    06/09/2017    0 recensioni
«Perché?». Mi guardò dubbiosa.
«Perché cosa?»
«Perché rimani se odi l’idea di mostrarmi il tuo corpo?». Ero sinceramente curioso.
«Perché .. – una pausa, le sue dita sul gancio del reggiseno. Lo tolse – preferisco questo piuttosto che..»
«Piuttosto che?»
«Tornare in quella casa». Le dita sottili e dalle unghie corte e colorate sfilarono via le mutandine. Nuda e imperfetta.
«Lo preferisco anch’io». Continuò a fissarmi dubbiosa, non capiva se parlassi di lei o di me stesso. Non avrei comunque esaudito la sua curiosità. Per il momento. Le indicai il divano, la prima cosa che fece fu coprirsi con il lenzuolo.
«Come devo mettermi? Insomma c’è qualche posa precisa..?» quando era nervosa parlava velocemente, memorizzai anche quel dettaglio.
«In effetti si». Mi avvicinai a lei, la costrinsi a sedersi e piegare le ginocchia al petto, il lenzuolo cadde appena scoprendole un seno. Le braccia abbandonate mollemente, le dita che accarezzavano i piedi candidi, le spalle ricurve come se portasse addosso il peso del mondo e il viso chino e appena rivolto alla finestra.
«Questa non è una posa..»
«Lo è. E’ la tua». Mi guardò e stavolta ero sicuro avesse capito. Era così che la vedevo, un’anima stanca e ferita. Come me?
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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IX


Il ciuffo ricadde sulla mia fronte sudata, lo sentivo ansimare dietro di me sorrisi stringendo i denti e velocizzando il passo. La sua risata mi seguì lungo la via, mi voltai iniziando a correre all’indietro.
«Correre all’alba è da coglioni, ma sai cosa lo è di più?». Mi fissò con i suoi occhi penetranti, quel giorno erano cangianti.
«Cosa, sentiamo.»
«Acconsentire e correre insieme a te». Scoppiai a ridere e lui ne approfittò per superarmi, tornai a voltarmi per riuscire a colmare le distanze tra noi. Correre mi aiutava a pensare, a rimettere insieme i pezzi della mia vita che aveva subito troppi cambiamenti. Il rumore della palla da basket sbattuta ripetutamente sul terreno sembrava quasi lo scandire del tempo, fissai le sue dita affusolate prenderla e lanciarla ancora e ancora, e mi persi un po’..
Novembre era scivolato via tra feste, pianti soffocati nel cuore della notte, dichiarazioni d’amore e risse tra i vari quartieri. Il perno costante era AJ, lui era sempre accanto a me, ormai avevamo scoperto l’uno le abitudini dell’altro e vivere insieme non sembrava poi così male. No, mi correggo, vivere insieme era l’unica cosa che mi teneva ancorata a quel mondo. Avevamo dato il benvenuto a Dicembre, l’aria si era riempita di atmosfera natalizia e freddo pungente, i nostri cuori non erano mai stati così caldi però.
«Prendila al volo». La sua voce mi riscosse dal mio torpore, vidi la palla arrivarmi dritta in faccia e per poco non ci lasciò lì la forma, l’afferrai balzando indietro per lo spavento.
«Sei deficiente?». Lo rimbrottai più acida del dovuto e l’unica cosa che ne ricavai fu un’altra risata di scherno, per quanto riguardava il mio assolutamente misterioso fidanzato nulla sembrava cambiato. Lo vedevo la notte sudare e parlare nel sonno, continuava a combattere i suoi demoni e amarmi contemporaneamente, ma io restavo perennemente ai margini. Iniziammo a palleggiare fissandoci maliziosamente, andare al parco per fare sport era divenuta una piacevole routine. Sentii degli occhi fissarmi, mi voltai e vidi una bambina dai capelli rossicci seduta su una panca, aveva gli occhi più azzurri che avessi mai visto e la madre accarezzava le sue trecce intenta a passarle un gelato. Le sorrisi ma non ricambiò, mi fissava quasi con invidia e questo mi divertì. Era prerogativa dei bambini anelare l’adolescenza, l’età adulta, e io avrei tanto voluto raggiungerla e dirle che no si stava sbagliando. La mia età non era solo feste e fidanzati, l’età più bella era proprio quella che stava attraversando lei, con le cure di una madre amorevole e tanti rapporti senza pretesa. Il viso di mia madre mi balzò alla mente, dov’era? Con chi? Ma soprattutto perché era andata via. Alla fine si era resa conto di quanto marcio fosse Carlos, o almeno speravo, e probabilmente io ero rientrata nel mucchio a forza. Una pallonata mi colpì in testa facendomi barcollare, mi afferrò il polso velocemente strattonandomi verso di lui, ricaddi contro il suo petto e lo fissai indispettita.
«Odio quando ti perdi». La sua voce come zucchero.
«Se io perdessi te passerei la mia vita a cercarti». Non mi rispose come sempre, limitandosi ad un sorriso ambiguo. Riprendemmo a palleggiare e quello fu un altro giorno felice insieme a lui.
 
 
La scritta ‘’freedom’’ spiccava sul muro di cinta della scuola, posai la vernice allontanandomi di qualche metro per osservarla meglio, era venuta bene. Non avevo sicuramente il ‘’dono’’ come AJ ma supponevo la scuola ne sarebbe rimasta soddisfatta. Avevo pensato spesso a quel graffito e avevo deciso di riprodurlo per il lavoro che mi avevano affidato.
«E’ bellissimo». La voce di Nicole mi costrinse a sorridere, mi voltai giungendo le mani a mo di preghiera.
«Dici sul serio?». Annuì accarezzandomi i capelli, riusciva ad essere molto materna.
«Come stai Hope?»
«Benissimo». Non ci riflettei molto per rispondere, mi balzò semplicemente alla mente il suo viso e rispondere divenne quasi automatico. Mi scrutò con attenzione come se volesse cogliere tracce di bugie, e quando non le trovò sembrò rasserenarsi.
«Ho una notizia per te». La fissai fintamente scocciata.
«E io che pensavo fossi qui per vedere il mio capolavoro». Indicai il murales e scoppiammo entrambe a ridere. Estrasse dalla tasca un bigliettino spiegazzato.
«Ti ho trovato un lavoretto part-time, una caffetteria che frequento sempre. Andrew il proprietario è mio amico, ha detto che gli servirebbe una barista nel periodo natalizio». Afferrai il pezzo di carta mordendomi il labbro.
«Nicole, grazie davvero.. per tutto quello che fai, io..» non riuscii a finire, le sue braccia mi avvolsero strette e io ricacciai indietro le mie stupide lacrime.
«Hope, vivi ancora con quel ragazzo?». Mi riuscì difficile non notare il velo di preoccupazione insito nei suoi occhi e nella sua voce, mi scostai appena annuendo impercettibilmente.
«Nicole, AJ è un bravo ragazzo e so che può sembrare strano, o misterioso, ma lui ci tiene davvero a me». Deglutii nervosamente, non sapevo bene perché ma avere la sua approvazione per me era importante.
«Ci sono molte cose che non sai di lui..» lo conosceva? Perché parlava come se lo conoscesse? Era impossibile.
«Tu..lo conosci?». Mossi un passo verso di lei, ero incerta e traballante come se la terra si fosse appena mossa bruscamente.
«Ne parleremo, te lo prometto. Verrò a trovarti in caffetteria uno di questi giorni». Mi accarezzò ancora una volta ma a me non bastava più. Volevo dicesse cosa sapeva su AJ. Una voce ci interruppe, il preside la chiamò e lei sparì così com’era venuta. Fissai nuovamente il graffito, era la libertà quella che volevo ma puntualmente finivo per incatenarmi io stessa con dubbi paure e curiosità. Forse non era la libertà quella che cercavo?

 
 

AJ

 
«Un lavoro?». Masticai lentamente fissandola di fronte a me, la vidi annuire con un mezzo sorriso tornando a guardare gli spaghetti.
«Ricordi la dottoressa Freeman?». Scrollai le spalle.
«Vagamente». Ero bravo a mentire ma per qualche motivo lo scintillio nei suoi occhi mi fece pensare che forse non lo ero poi molto. Avevamo cucinato insieme come al solito, la routine non mi stava inesorabilmente uccidendo come avevo pensato, forse perché una reale routine non c’era davvero. Ogni cosa fatta con Hope era degna di lode, sempre nuova e mai noiosa, persino le sue stupide corsette all’alba, il suo modo scomposto di dormire e lamentarsi nel sonno, tutto mi entrava dentro impregnando la mia essenza e non ne usciva mai.
«Beh, è stata lei a trovarmelo. Verrai?». Mi sorrise speranzosa, masticai fingendo indifferenza.
«Per morire avvelenato dai tuoi caffè? No grazie». Un calcio mi colpì da sotto il tavolo, imprecai soffocando una risata fissandola divertito.
«Notizie dai Latin Kings?». L’atmosfera cambiò nuovamente, sospirai poggiando la forchetta sul piatto adesso vuoto.
«Si preparano tutti all’agguato. I Cruz sono pronti, e i Lating Kings sanno bene che verranno. Dovranno giocare sul poco effetto a sorpresa rimastogli». Il suo viso imbronciato e pensieroso mi spalancava una voragine di fuoco allo stomaco. Mi alzai facendo il giro, costringendola quasi ad alzarsi per poi attirarla contro di me.
«Non voglio che tu vada». Annuii dandole un bacio a fior di labbra.
«Se non vuoi non andrò». Sorrise e il suo volto tornò a rischiararsi come per magia, ero io il padrone dei suoi sentimenti, come se comandassi lo strano interruttore dentro di lei.
«
Promesso?»
«Promesso». La baciai con trasporto, le sue piccole mani sollevarono la mia maglia mentre la trascinavo verso la camera da letto in penombra. Ci spogliammo con urgenza, o forse ero solo io a sentirmi agonizzante. Il suo corpo nudo, i suoi capezzoli che sfregavano contro il mio petto, le cosce seriche avvinte ai miei fianchi era tutto assurdo, il mio mondo sembrava capovolgersi ad ogni spinta, ad ogni dito intrecciato, ogni goccia di sudore che scivolava sulla schiena, ogni ansimo, ogni scoppio di piacere che riversavo su di lei.
 
***
 
– Buon natale Aj.
– Kevin mancano ancora due giorni.
– Mi porto avanti, sia mai non rispondessi quel giorno.
– Come vanno le cose?
– Una merda, ma grazie per averlo chiesto Alex!
– Piantala.
– Devi tornare a casa, lo capisci? Qui è tutto a soqquadro, quel bastardo di tuo zio..
– Lo so, si crede il padrone.
– Lo crede perché tu non ci sei. Alexander, hai ventidue anni adesso non potrà più internarti né manipolarti.
–  So anche questo, perché pensi mi sia nascosto fino a oggi?
– Sai tutto tu che bello. E allora torna a casa, cazzo. TORNA.
 
Chiusi la chiamata con un sospiro, Hope mi guardò attraverso il bancone sorridendo felice di vedermi. Adesso era lei il motivo per la quale non potevo tornare. Avrebbe mai capito? Era il momento di raccontarle la verità? Di dirle perché sembrassi sempre un fuggiasco? Mi sedetti al tavolo e due minuti dopo una tazza di caffè si materializzò davanti ai miei occhi.
«Chi era al telefono?». Sollevai il capo sorridendo sghembo.
«Temi per caso mi senta con altre?». Sospirò mettendo le mani sui fianchi, era divertente esasperarla.
«Perché non dici semplicemente ‘’non voglio dirtelo’’?». Mi conosceva così bene da destabilizzarmi.
«Dobbiamo parlare – il suo viso si adombrò, e io risi a bassa voce – Non fare quella faccia.»
«Quando? Di cosa? E perché?». Sollevai le mani in segno di resa.
«Vacci piano tigre. Ne parleremo, ma non ora. Godiamoci i giorni di festa, e prima che l’anno nuovo arrivi giuro che parleremo.»
«Promesso?». Mi squadrò da capo a piedi.
«Promesso». Era l’unica a riuscire in quel folle proposito, io odiavo promettere e nel giro di pochi giorni mi ero ritrovato a farlo miliardi di volte e tutte con lei. Scossi il capo bevendo il caffè, continuando a fissarla lavorare e sorridere. Era la cosa più bella che avessi mai visto, non potevo voltarle le spalle e andarmene così. Dovevo restare, parlare, provare ad aggrapparmi a lei.
 

 

Hope

 
Sorseggiai il mio drink fissando B-bomb e il suo improbabile cappellino natalizio venirmi incontro a braccia spalancate.
«Buon natale bambolina». Mi abbracciò e io risi divertita spingendolo via, ci sedemmo fissando la stanza gremita di ragazzi. Era assurdo pensare che ognuno di loro tenesse con se un’arma, tutti i membri dei cruz riuniti lì per festeggiare il santo natale.
«Togli quel cappello, mi fai accapponare la pelle». Aj apparve in quel momento rubando il copricapo dell’amico che provò a protestare senza successo.
«Allora ti piace la festa? Sono o non sono un uomo dalle mille risorse». Ci fissammo scrollando appena il capo, l’egocentrismo di B-bomb era secondo solo alla sua rabbia.
«Dimmi che non intonerai ‘’Silent Night’’ ubriaco come tre anni fa». Mi feci improvvisamente attenta, quindi Aj tre anni prima era lì a Chicago? Eravamo così vicini eppure lontani, mi chiedevo il perché adesso le nostre strade si fossero incrociate.
«Ho saputo che la mia bambina speciale ha trovato un lavoro onorevole». B-bomb mi cinse le spalle con un braccio, ero sicuro lo facesse di proposito per infastidire AJ. Adoravo vederli insieme, nonostante le enormi differenze sociali era come se fossero affini in molte cose.
«Stranamente non ha avvelenato nessuno con i suoi caffè letali». Risero alle mie spalle beccandosi un’occhiata inceneritrice da parte mia.
«Siete fastidiosi». Mi alzai fingendomi offesa mollandoli lì, ad accompagnarmi le loro risate che si fusero al frastuono della sala.
Fu un bel Natale, così diverso da ciò che ero abituata a vivere. Cantammo, bevemmo, ci scambiammo regali e auguri. AJ mi regalò un anellino, il simbolo dell’infinito spiccava ora al mio dito. Dal canto mio ero riuscita a racimolare abbastanza mance da potermi permettere una sciarpa che adesso indossava spesso solo per me. Era tutto perfetto, forse troppo, non lo sapevo in fondo? La mia vita era troppo imprevedibile, abituarsi alla stabilità in un mondo simile era un grave errore. Un errore che commisi pentendomene amaramente.
 
Arrivò il 31 Dicembre, pulivo i tavoli ossessivamente fissando la finestra della caffetteria. Non era solo il compleanno di AJ oggi, ma anche il nostro ‘’momento’’. Sapevo di cosa volesse parlarmi, sapevo che finalmente avremmo chiarito ogni malinteso e mistero, così come sapevo che mentre io affrontavo il mio piccolo dramma dall’altro lato della città i Cruz tendevano l’agguato ai Latin Kings.
Senza me e senza AJ.
Mi sarei finalmente liberata di Juan?

 

AJ

 
Non dormivo decentemente da giorni, più si avvicinava il momento di dire tutto a Hope più la mia ansia cresceva. Sfregai le mani cercando di difendermi dal freddo di Dicembre, la neve iniziò a cadere senza che me ne rendessi conto, rendendo il mio cappotto umido. La caffetteria distava ormai pochi isolati, e la mia mente corse a B-bomb, che stava facendo in quel momento? Erano già a Back of the yard? Erano già con i Latin Kings? Sollevai gli occhi al cielo e quando li riabbassai una sagoma mi apparve davanti, distava qualche metro e nonostante il lampione tremolasse di luce scarsa io lo riconobbi: Juan Hernandez mi fissava venendomi incontro.
«Ma quale assurdo piacere». Sorrisi muovendo qualche passo, attento a ogni suo movimento.
«Volevo augurarti buon anno». Ne dubitavo fortemente, ma era divertente provare a prenderlo sul serio.
«Saggia scelta, se ora fossi con gli altri probabilmente saresti già carne da macello». Lo vidi bloccarsi confuso, era evidente fosse andato via prima. I suoi occhi presero lentamente consapevolezza, e con essa la rabbia.
«Il primo della lista sarai tu, poi penserò anche a quella feccia che ti porti sempre dietro». Adesso eravamo vicini, riuscivo a scorgere l’odio ribollire nei suoi occhi.
«Penso ti apriranno il culo.»  
«Dimmi solo una cosa: hai ucciso tu Carlos?». Sorrisi divertito, e il sorriso divenne risata. Una risata che salì in cielo perdendosi con la neve che cadeva sempre più abbondante.
«Ci sei arrivato solo ora? Mancavi tu all’appello, è un bene sia venuto di tua iniziativa». La mia espressione cambiò drasticamente mentre passavano nella mia mente tutte le immagini di quei mesi, Hope ferita, Hope a terra con Carlos addosso, Hope accucciata contro il mio portone con il sangue rappreso sul viso. Il primo pugno arrivò inaspettato o quasi, barcollai asciugandomi il sangue dalle labbra.
«Mi dispiace tanto, credo non potrò mantenere la mia prima promessa». Hope non poteva sentirmi, ma mi scusai ugualmente mentre mi avventavo contro di lui. Più i miei pugni lo colpivano più la mia rabbia cresceva, lo vidi a terra, tossiva e sputava sangue e le sue spalle ebbero un tremito. C’era una cosa che non avevo considerato, Juan non era un uomo d’onore e lo capii quando un intenso bruciore avviluppò la mia schiena, all’altezza del fianco. Mi voltai fissando il viso di Eric, stringeva un coltello sporco di sangue. Il mio.
«Figlio di puttana». Gettai fuori quelle parole con una risata strozzata, sentii una mano afferrarmi la spalla e girarmi con irruenza, mi ritrovai faccia a faccia col viso di Juan.
«Buon anno Aj, porta i miei saluti all’inferno». Un altro intenso bruciore, stavolta allo stomaco. Estrasse la lama e la rientrò con forza, e ancora una volta. Non riuscivo a respirare mentre il dolore mi sommergeva, mossi qualche passo traballante fissando le due sagome di fronte a me, stavano fuggendo. Non riuscii a corrergli dietro, mi guardavo intorno e tutto sembrava girare e girare, mi mancava l’aria. Le mie ginocchia cedettero, annaspai e la mia mano rovistò nelle tasche, la vista si offuscò mentre provavo a comporre un numero. Caddi a terra, la guancia contro l’asfalto, mentre fissavo la gente passare ignorando il  vicoletto buio nella quale giacevo riverso. Non sarei riuscito a mantenere neppure la mia seconda promessa, e questo fece più male delle ferite.
 

Hope

 
Dieci minuti di ritardo sono ammissibili, ma trenta no. Salutai il mio capo sollevando il bavero del mio cappotto, percorrendo a ritroso la strada verso casa. Sapevo solitamente il percorso che AJ prendeva, ero sicuro di ritrovarmelo davanti correndo trafelato, gli avrei dato una bella lezione quella volta. Osservai una folla di fronte a me, sembravano fissare qualcosa, alcuni urlavano in preda al panico, velocizzai il passo spintonando la gente che non voleva farmi passare, e alla fine lo vidi. Un uomo inginocchiato accanto a lui, e infine riconobbi la sciarpa. Sentii un fischio perforarmi le orecchie, e l’urlo che uscì dalla mia gola annichilì me stessa e tutto intorno a me.
Mi gettai ai suoi piedi scuotendolo con forza, non stava succedendo davvero, quello che avevo tra le mani non era sangue, e il corpo esanime non era AJ.
«CHIAMATE UN AMBULANZA». Qualcuno mi rispose ma io non riuscii a sentire, i miei singhiozzi squarciavano la barriera del suono mentre lo scrollavo con forza supplicandolo di aprire gli occhi. Lui non poteva lasciarmi, non adesso. Avevo solo lui, anzi no, io volevo solo lui.
Poggiai la fronte contro il suo petto, era come se mi aspettassi di sentire la sua mano calda posarsi sul mio capo e dirmi ‘’va tutto bene’’. Ma solo il gelo mi accolse, continuai a piangere e urlare chiedendo di Dio e stringendomi a lui. 


 
  
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