Teatro e Musical > Romeo e Giuletta - Ama e cambia il mondo
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Autore: Aryn2703    06/09/2017    0 recensioni
[Romeo e Giulietta]
[Romeo e Giulietta]Questa storia parla di una ragazza che amava così tanto l'opera "Romeo e Giulietta" da riuscire ad entrarvi.
Riuscirà ad evitare la morte dei protagonisti? Come si intreccerà la sua vita con quella dei personaggi?
Nota: A causa di alcune circostanze devo ri-pubblicare i primi capitoli che avevo precedentemente scritto, spero che leggerete la storia con entusiasmo e che, in qualche modo, questa riesca ad emozionarvi!
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Gemma incominciò ad avanzare nel viale alberato su cui dava casa sua. La pioggia le picchiettava lievemente sui capelli e sulle spalle, aveva infatti dimenticato l’ombrello a casa. Lentamente si avvicinò ad una piccola rosticceria dalla quale proveniva un leggero profumo di pizza.

Un tempo la proprietaria era una vecchia signora sugli ottanta, gentile e sorridente, che le regalava spesso delle caramelle ogni qualvolta andava a comprare qualcosa: probabilmente sapeva che mangiava spesso sola dunque le faceva pena. Era una donna gentile, dal collo e le gambe tozze. Aveva due braccia forti e possenti e delle mani maschili adatte a preparare e stirare la pasta per le sue pietanze; odorava di farina e il suo grembiule, un vecchio pezzo di stoffa sgualcito su cui un tempo vi era scritto “regina della cucina”, era costantemente chiazzato di salsa e olio.

Quest’inverno la vecchia della rosticceria era morta, lasciando in eredità ai figli l’antica rosticceria. Essi però non avevano nessuna intenzione di passare la loro vita con grembiuli sporchi e a fare nottate per preparare impasti: vendettero il locale a dei forestieri e si trasferirono in un’altra città, completamente indifferenti all’amore che la madre nutriva per esso.

Adesso la rosticceria era gestita da una magra signora dal viso tirato, la sua bocca sempre piegata in un gesto di disapprovazione, e da suo marito, un uomo dall’aria burbera e di poche parole.
Quando Gemma entrò nel caldo locale la donna la guardò con i suoi soliti occhi pieni di disprezzo e, con fare freddo e distaccato, disse: <>, con un lieve accento veneziano. “Non sono una ragazzina, ho sedici anni!” avrebbe voluto risponderle la ragazza, ma invece chinò il capo e pronunciò un’esile: <>.
Il signore e la signora Bertolini, questo era il nome dei proprietari del locale, avevano un figlio di sei anni: un bambino grasso e viziato, come mai Gemma ne aveva conosciuti, dagli ispidi capelli color paglia e avente due occhietti marroni tondi, porcini, dall’aria costantemente annoiata.
Questo bambino grassottello stava correndo freneticamente attorno al tavolo in cui era seduta Gemma, intenta a mangiare una focaccia al pomodoro. Il sapore non era buono come di quelle che faceva la vecchia fornaia, ma la fame era così forte che non vi prestò particolare attenzione. La ragazza dovette fare un grande sforzo per non imprecare contro quel bambino chiassoso: amava il silenzio, soprattutto mentre desinava.

Le rimanevano ormai solo pochi bocconi per finire la sua cena quando una voce, piccola e straordinariamente lontana, le sussurrò all’orecchio “torna a casa!”.
La giovane sussultò sulla sedia. Si guardò intorno ma l’unico suono che udiva era lo schiamazzare di quel moccioso irritante. Presa da un istintivo impulso di correre verso casa, Gemma pagò frettolosamente la focaccia e si incamminò per il viale.
“Torna a casa! Torna a casa!”
La voce non finiva più di parlarle all’orecchio, adesso più forte di prima. Il cuore le martellava in gola e, presa da improvviso panico, si mise quasi a correre, sotto la pioggia, verso la sua dimora.

“Torna a casa! Torna a casa! Torna a casa!”
“Sto tornando!” avrebbe voluto urlare Gemma, ma la voce non le usciva dalla bocca, troppo intenta a prendere fiato a causa della corsa. Il marciapiede era di marmo, liscio e levigato, terribilmente scivoloso a causa della pioggia. La giovane era quasi arrivata davanti il portone d’ingresso quando cadde a terra: il peso del suo corpo tutto sulle mani che, in gesto di difesa, si erano mosse meccanicamente. Le palme le dolevano terribilmente a causa dell’urto e il suo maglione era così fradicio che poté sentire l’acqua scivolare lungo la curva dei seni. Gemma rabbrividì, si rialzò e corse ad aprire la porta.
Una volta dentro la voce si era improvvisamente ammutolita, ma non poté dire altrettanto del suo stato d’animo: qualcosa le diceva che doveva recarsi nella sua stanza, immediatamente.

Si avvicinò all’uscio della camera da letto cautamente, con passo felpato. Stava per aprire la porta quando d’improvviso si bloccò: aveva finalmente notato il fascio di luce che usciva dalla fessura in basso. “Che ci siano i ladri?” La ragazza dovette fare un grande sforzo per respirare normalmente; prese nel salone uno degli attrezzi lunghi di ferro che servono per accendere il fuoco nel caminetto e si portò di nuovo davanti la sua stanza: appoggiò la mano destra sul pomello, lentamente lo girò e con un unico movimento scaraventò la porta verso l’interno della stanza, brandendo rumorosamente l’affare di ferro con la mano sinistra.
Luci, ombre, suoni, silenzio.                                                                                                                   
Un’onda di emozioni pervase totalmente la ragazza, che lasciò cadere l’inutile arma. Cosa stava accadendo? C’erano voci che le parlavano, versi di animali, il volto di suo padre, lettere che volavano.
Poi tutto buio.

 “Scusatemi… Signorina, vi sentite bene? Signorina…”; Gemma sentiva una voce dolce che le parlava. Piano piano si destò, la luce del sole le ferì i luminosi occhi verdi. La ragazza iniziò a distinguere le ombre attorno a sé: Un giovane più o meno della sua età la stava guardando preoccupato. “Chi è? Che ci fa qui nella mia stanza?” Man mano che si riprendeva i suoi sensi si risvegliavano, iniziò a sentire diversi timbri di voce, rumori di animali e di ruote che sfrigolavano con la terra battuta.

Non era nella sua stanza, non era nella sua città, non era nel suo tempo.

Spinta dall’istinto di conservazione Gemma si raggomitolò su sé stessa, impaurita dalla visione che le si presentava davanti. Stava forse sognando? Da dove venivano tutti quei cavalli e perché non c’erano automobili?
La prima cosa che, pateticamente, la ragazza pensò fu che si trovava su un set cinematografico ma respinse immediatamente quell’idea: non c’erano telecamere né cameramen né luci artificiali né microfoni.

Il ragazzo continuava a rivolgerle la parola farfugliando suoni che Gemma non riusciva né voleva sentire.

Tutto cambiò nel momento in cui il ragazzo appoggiò la mano destra sulla sua spalla per scuoterla: la ragazza sentì un calore improvviso pervaderle il petto; di colpo tutte le paure che provava si allontanarono: c’erano soltanto lei e quel tocco gentile.
Lentamente iniziò ad allungare le gambe e a girarsi, il giovane era ancora lì che la guardava; con voce fioca pronunciò in un soffio: “Chi sei?”

Il ragazzo gentilmente le sorrise: “Il mio nome è Romeo, Romeo Montecchi”.
   
 
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