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Autore: Longriffiths    16/09/2017    1 recensioni
Ed eccomi tornata in questo meraviglioso Fandom a riproporvi una storia ritirata tempo fa, che narra piccole pillole della vita del personaggio più affascinante e meglio caratterizzato nonché mio preferito in assoluto: Bellatrix Black.
Spero piaccia questa piccola raccolta, ringrazio anche solo tutti voi che darete uno sguardo.
Genere: Angst, Erotico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Voldemort
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Notti di Luna nuova. 
Notti in cui le bestie dei boschi strisciano fuori dalle loro tane muovendosi indisturbati dovunque vogliano, amanti dell'oscurità al sicuro da qualsiasi bagliore o fascio di luce.
Tic. Tic. Tic.
Le catene che aveva alle caviglie non facevano che ripetere lo stesso suono all'infinito, guidate dai piccoli movimenti a scatti della strega. Era diventata un'abitudine, contava i secondi in quel modo, e quando invece passava un minuto esatto batteva entrambi i piedi in terra in una volta sola, con le ore invece si aiutava anche con le catene ai polsi. Il tutto guardando fuori dalla finestra sbarrata in alto a destra della sua cella, appoggiata contro il muro. Era una specie di modo che aveva adottato per restare in vita, quello di contare il tempo che passava lontana dalla libertà. Notti in cui tutto è concesso, perfino a lei. Si era concessa di essere felice.
Lei che per quattordici anni aveva atteso pazientemente sopportando l'inferno terreno, quattro mura fin troppo strette per un'anima come la sua. Ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno aveva udito urla strazianti, suppliche di morte, rumore di corpi affranti contro le sbarre in cerca di libertà, di una via di fuga dalla punizione per aver peccato.. per aver servito ed amato. . Ecco, le tornò in mente un nuovo ricordo dell'uomo che dal primo momento in cui i suoi profondi occhi scuri avevano incontrato quelle perfette e magnifiche iridi color dei rubini, aveva rapito ogni parte di lei, e lei ancora lo a..dorava. Non urlava, lei. Lei attendeva rannicchiata in un angolo a guardare il vuoto, rammentando. Ah, com'erano lontani quei giorni in cui diventava una cosa sola con l'oscurità avvolgendosi di essa, lasciandosi cullare da tutto ciò che poteva offrirle, beandosi della sua protezione, bramando gloria e potere, e pulizia del mondo in cui viveva. Com'erano lontani i giorni in cui era viva e libera di spiccare, di sentirsi chiamare Pupilla. Un altro ricordo succhiato via da quegli spettri infernali che si nutrivano dell'unica cosa che le era rimasta del suo padrone, oltre a quella macchia sbiadita che frequentemente toccava con la lingua nella speranza che il serpente raffigurato danzasse per lei, ma era tutto inutile. Sfogava la sua rabbia e mai la sua rassegnazione su se stessa. Si graffiava, si strappava ciuffi di quelli che una volta erano meravigliosi boccoli corvini ora ridotti ad una massa informe, ad un groviglio di nodi. Doveva pur concedersi dei momenti di ripristinazione, doveva riposarsi da tutta la pesantezza che la progionia le aveva inflitto curvandole le spalle. Ma lei era tosta, e per dodici anni non aveva fatto altro che sfidare ogni cosa intorno e dentro di lei a tal punto di riuscire a collocare un ricordo per ogni parte del suo corpo, o della cella che la teneva rinchiusa. Una macchia scura sul muro dal colore omogeneo: sporcizia. Dunque feccia, come quella nel mondo dei maghi, le ricordava il motivo per il quale era in quello stato. Aveva iniziato ad escogitare metodi di sopravvivenza come quelli da quando aveva capito che non era in grado, purtroppo, di reagire. 
Il sottofondo poi che accompagnava le sue giornate era dei peggiori. Urla, corpi che sbattevano contro le pareti, suppliche di morte, unghie stridenti lungo le sbarre delle finestre. Alle volte, le pareva persino di sentire la voce di suo marito. Non lo amava, ma era legata a lui, dopo anni passati a vederlo ogni giorno aveva imparato a conoscerlo ed aveva scoperto tante cose di lui. E un pò si era fatta conoscere a sua volta. Sapevano tutti e due che non era e non sarebbe mai stata una persona dalle parole di conforto nemmeno nelle situazione più drastiche come quella, ma aveva imparato a riconoscere che lui stava sopportando tutto quello in parte a causa sua, per colpa della sua folle ossessione di fedeltà, così quando gli pareva di sentirlo strisciava sino alla finestra appendendovisi ai bordi, per poi strillare un semplice 'sta zitto', solo per fargli sapere che era lì, che ascoltava, e ricordargli che non sopportava i deboli. Si ritrovava la gola in fiamme per tutti i lunghi periodi di assenza forzata di voce, e restava muta ancora e ancora. Si sfogava strappandosi i capelli, conficcando le unghie nelle carni, sbattendo la testa alla parete.
Azkaban sembrava aver capito la sua determinazione nel restare sobria e non scivolare nel vortice del non ritorno, e iniziò a portarsi via qualunque cosa di lei. Il colore della pelle, i fianchi, la luminosità degli occhi. Molto spesso, la prigione vinceva. E lei sopportava, sopportava da morire e non intendeva smettere. Spesso guardava il suo avambraccio sinistro e sospirava, avvicinandosi quasi per fargli le fusa. Ci parlava come fosse una persona in grado di capirla, e ripeteva intere conversazioni anche rivolgendogli delle domande con la speranza che un giorno sarebbe tornato chiaro ed evidente sulla sua pelle ormai lattea con una sfumatura giallognola. Si era sbiadito con lei, che ancora sperava -sapeva- che di sicuro avrebbe bruciato ancora. Un giorno. Aspettava. Il fuoco dentro di lei non era stato spento nonostante tutto, ridotto ad una fiammella, ma ancora bruciava. E lei lo amava, trovava in lui l'energia e la forza di andare avanti. La sua mente non era più lucida come una volta, ma nonostante tutto lei era quella tra i più normali prigionieri, se così potevano definirsi.
Stava scivolando lentamente nel suo oblio, quando qualcosa accadde. Il suo Marchio era vivido, ustionava. Era tornato. Come se avesse aperto gli occhi da un coma durato anni, trovò la forza di piangere di gioia. I Dissennatori accostavano davanti alla sua cella cercando di nutrirsi delle sue speranze, ma Bellatrix non poteva permetterglielo, non adesso che poteva tornare a vivere.
Le gambe ormai troppo magre non potevano sorreggerla a lungo. Camminò verso la finestra, riusciva a sentire il rumore della pioggia. Il vento soffiava su di lei, i muscoli non più abituati al movimento bruciavano fastidiosamente, finché non la tradirono facendola cadere. Era debole, Azkaban si era preso tutto di lei, tutto ma non la passione, la devozione, la fedeltà, la forza interiore. 

《È tornato.. Lui è qui.. il mio padrone, il mio Signore..》

Sussurri, solo sussurri, corde vocali quasi inesistenti e diaframma sotto pressione consentivano alla sua voce di somigliare a un lamento acuto appena percettibile, ma a lei andava bene così. Lacrime calde e ristoratrici si mischiavano alle gocce di pioggia sul suo volto. In ginocchio, allungò le mani verso le sbarre della finestra e si aggrappò ad esse per sorreggersi, guardando fuori. 
Una risata, stridula e lamentosa trovò la forza di rimbombare all'interno di quelle sudice mura che l'avevano ospitata per troppo tempo. Riflessioni, speranze, convinzioni, non più pensieri sfumati e ricordi rubati ora erano parte della sua mente, ora una nuova luce si era fatta spazio in lei.
'Verrà a prendermi.. lo sapevo, il mio padrone è il migliore di tutti, lui verrà qui e potrò ancora servirlo e bearmi della sua visione.. sarò ancora la più brava Mangiamorte che abbia mai avuto e potrò essere presente quando Lui trionferà..'
Decise di non muoversi dalla finestra da quel momento, attendendo nubi di fumo nero nella sua visuale. Giorni, settimane, mesi, non importava più, adesso aveva un motivo valido e preciso per sopportare tutto. Presto si sarebbe ricongiunta a ciò che aveva di più caro al mondo, presto sarebbe tornata a fare quello per cui era nata. Presto, sarebbe tornata ad essere la splendida Fenice nera di sempre.
Tutto il resto, valeva la stessa pena di Azkaban.
 
   
 
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