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Autore: _Frame_    17/09/2017    5 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Ovviamente, su Atene non venne affissa la bandiera tedesca ma la bandiera nazista. Io mi sono mantenuta “politicamente neutrale” come sempre, escludendo quindi l’esistenza del nazismo e della sua simbologia, ma mi sembrava comunque corretto specificare questa differenza. Così è anche per le altre bandiere, ad esempio quella del Giappone Imperiale, che è sostituita da quella odierna, o anche la nostra. L’unica eccezione è e sarà sempre e solo la bandiera dell’Unione Sovietica (in futuro anche quella della DDR e della BRD), ma lì è davvero un elemento insostituibile.

Altra precisazione: prima della bandiera nazista tedesca non c’era nessuna bandiera greca a sventolare sull’Acropoli. L’ho messa io perché mi piaceva di più il valore simbolico del “togli e metti” piuttosto che del “metti e basta”. La bandiera che viene tolta accentua l’idea di sconfitta, della nazione che cade assieme a lei, e mi piaceva l’idea di rendere questo concetto in maniera figurata.

Perdonatemi questa piccola libertà, e come sempre vi auguro buona lettura!


141. Ti osservano e Ti giudicano

 

 

27 aprile 1941, Atene

 

Le formazioni di Savoia sfrecciarono attraverso il cielo di Atene, travolsero il sottile velo di nuvole, scavarono dodici scie bianche nella distesa azzurra, e volarono via seguite dal rombo dei motori e dal ronzio delle eliche. I Savoia si rimpicciolirono all’orizzonte, ne superarono la linea curva imboccata dalla strada asfaltata che si perdeva fra gli edifici della città, e seguirono subito altre formazioni di caccia che tracciarono a loro volta graffiate di fumo bianco nell’azzurro del cielo.

I reggimenti marciavano attraverso le strade della capitale, mezzi e uomini sfilavano davanti alle case chiuse, da cui non si affacciava nessuno, e davanti alle formazioni di soldati e ufficiali che avevano già occupato la città, immobili ai bordi delle vie, rigidi nei saluti militari battuti sulla fronte. Gli squilli delle trombe accompagnavano i rombi delle auto, degli autocarri, e le marce dei soldati che proseguivano a piedi. I rulli dei tamburi scandivano il ritmo della parata che gremiva le strade e avanzava verso il centro di Atene.

Berline scortate dai motociclisti avanzavano in cima alle formazioni degli eserciti, sfoggiavano gli stendardi dell’Asse, bandiere tedesche e italiane che sventolavano come ali. Dietro le auto sfilavano doppie file di autocarri – soldati raggruppati sui mezzi guardavano le strade della città scorrere sotto i loro occhi – e dietro ancora i reggimenti di motociclisti e quelli di fanteria. Quattro file parallele di uomini marciavano all’unisono, i movimenti delle gambe sincronizzati, gli sguardi che fissavano lo stesso punto da sotto gli elmetti, gli zaini e i fucili caricati sulle spalle. Altre bandiere tedesche e italiane sventolavano sulle strade e sull’esercito, trasportate dagli ufficiali in prima fila.

Un’altra formazione di Savoia attraversò il cielo, passò davanti al sole, trafisse le nuvole, e gli aerei si allontanarono, rimpicciolendosi e trascinando dietro di loro il ronzio del loro volo.

Ungheria sollevò lo sguardo al cielo per seguire le sagome dei Savoia. Si riparò la fronte da un raggio di sole, una delle bandiere gettò l’ombra sventolante sul suo viso, e continuò a camminare al centro della strada, dietro il blocco di fanteria di uno dei reggimenti. La luce del sole si abbassò, il cielo divenne più buio. Soffiò un alito di aria fredda che le agitò i capelli dietro la schiena, sgusciò sotto i suoi vestiti e le scaricò una scia di brividi lungo le braccia e la schiena.

Ungheria si strinse le spalle, si sfregò da sopra la giacca, e rabbrividì. Compì un passo più vicino ad Austria, spostò lo sguardo sui bordi delle strade, i suoi occhi sfilarono sui gruppi di soldati già radunati davanti agli edifici. Le finestre e le terrazze erano tutte chiuse, le saracinesche delle botteghe abbassate e tutte le tende tirate.

Ungheria sollevò un sopracciglio e si rivolse ad Austria. “Non c’è nessuno per le strade,” gli domandò, “solo noi?”

Austria si strinse nelle spalle, sospirò a fondo, e anche lui guardò verso il cielo. Si sistemò gli occhiali facendo correre due scie di luce attraverso le lenti. “Temo che i greci non gradiscano assistere alla sfilata di coloro che hanno appena invaso e sottratto il territorio dove sono nati e cresciuti.” Altri aerei sfrecciarono sopra le loro teste, gettarono rapide ombre sulla parata, e il ronzio superò i rombi degli automezzi, delle motociclette, il rullare dei tamburi e gli squilli delle trombe.

Ungheria intrecciò le dita sul grembo, guardò in basso, fissando l’asfalto annerito dal passaggio degli pneumatici e delle suole di tutti i soldati che stavano marciando davanti a loro, e i suoi occhi si intristirono. “Ma cosa succederà, adesso? La popolazione sarà...” Si chiuse nelle spalle. Una sensazione di oppressione le schiacciò il petto, si allacciò attorno al collo dandole l’impressione di soffocare. Dovette massaggiarsi la gola e sfregarsi i polsi per strofinarsi di dosso la sensazione di prigionia che sentiva bruciare sulla sua stessa pelle. “Occupata?”

Austria abbassò le palpebre. Giunse le mani dietro la schiena, tenne lo sguardo alto, le spalle larghe, e la sua espressione mantenne quella sfumatura di solennità che donava al suo viso lineamenti più forti. “Temo di sì,” rispose. “Sia l’esercito tedesco che quello italiano stazioneranno ad Atene. Per quanto riguarda la sorte dei civili...” Strinse anche lui le spalle. “Temo che solo lo scorrere del tempo saprà dirci come andrà a finire questa faccenda.”

Ungheria riuscì a sollevare gli occhi da terra, ma sul suo sguardo rimase marcata quella sfumatura di dolore. “Non succederà come con i polacchi, vero?”

Austria corrugò un sopracciglio, e rimase in ascolto delle vibrazioni che ronzavano sotto i loro piedi, disturbate dal passaggio delle truppe che scuoteva il terreno. Vibrazioni fioche e singhiozzanti come il respiro di un corpo che sta morendo.

Una voce si intromise alle loro spalle con uno sbuffo. “Te lo dico io come andrà a finire questo macello,” si lamentò.

Austria e Ungheria si voltarono senza smettere di camminare. Si trovarono davanti all’espressione scocciata di Bulgaria che marciava tenendo le braccia incrociate al petto, e a quella più distratta di Romania che lui faceva scorrere ai lati della strada, lungo gli edifici e i soldati appostati davanti alle case e ai palazzi.

Bulgaria piegò un mezzo sorrisetto di scherno e sventolò una mano con fare indifferente. “I soldati italiani si crederanno in villeggiatura, mangeranno dalle loro tavole, berranno dal loro vino, magari brinderanno pure assieme a loro. Si spupazzeranno con le loro donne e si porteranno a casa le mogli greche una volta finito il periodo di servizio.” Strinse un pugno e mimò un piccolo gesto di vittoria. “Colonizzazione italiana!” Sghignazzò.

Romania aggrottò la fronte, inarcò un sopracciglio, e gli lanciò un’occhiataccia di traverso. “Ti sembra il caso di scherzare in una situazione simile?”

Bulgaria sbuffò. “E chi scherza?”

Romania fece roteare lo sguardo, allentò il bavero della giacca e si sventolò il viso accaldato dai raggi del sole che battevano su di loro e sulle carrozzerie scure degli automezzi.

Austria e Ungheria si scambiarono una breve occhiata di commiserazione nei confronti di Bulgaria, Austria lo squadrò da sopra la spalla e sollevò il mento mostrando la sua solita espressione di disappunto. “Ti sei ripreso da Belgrado, vedo.” Tornò a camminare a viso alto, sguardo rivolto al reggimento che marciava davanti a loro.

Il mezzo ghigno di Bulgaria scivolò lentamente e cadde piatto, un angolo della bocca si arricciò trasformandosi in un broncio scuro che gli rese la voce più masticata e brontolante. “Dopo tutto quello che mi sta passando davanti agli occhi in questa guerra...” Guardò anche lui per terra, in mezzo ai piedi, e rallentò il passo. Le vibrazioni che scuotevano la strada risalirono le sue gambe, gli trasmisero la stessa sensazione di malessere e oppressione che aveva provato stando inginocchiato davanti alle rovine di Belgrado. Scosse di brividi gli attraversarono le ossa, costrinsero anche lui a strofinarsi le braccia come aveva fatto prima Ungheria. “Credo che non esista più niente in grado di sconvolgermi come quella volta,” mormorò.

Il frastuono delle marce, dell’avanzare dei mezzi militari, e di altre formazioni di Savoia sfrecciate fra le nuvole sopra di loro, riempì il silenzio improvviso calato fra loro quattro, ruppe quell’aria fredda che si era infittita come ghiaccio.

Austria guardò in disparte. L’espressione di disapprovazione rabbuiò, lo vestì di una maschera di disagio che gli rese gli occhi grigi e assenti, proiettati in un ricordo che ancora gli martellava nel cuore e nella testa. Si strinse il braccio, le dita tremarono, una scossa di gelo e paura tornò ad attraversargli il petto. L’eco dello sparo che aveva sentito esplodere nel corpo di Grecia tornò a tuonare nella sua mente, a lasciare quell’impronta di disagio che era come un graffio nel cuore. Chiuse le palpebre e rivide il corpo di Grecia che si accasciava a terra, il suo sangue che si spandeva fra le rocce, che gocciolava come un fiume di lacrime rosse, e tornò a udire i singhiozzi di Italia, quel pianto disperato che aveva sentito e consolato tante volte ma che non gli aveva mai straziato l’anima in quella maniera.

Ungheria sussultò. Il dolore di Austria colpì anche lei, come una vibrazione, e le diede una scossetta anche senza averla toccata. Ungheria tese una mano, la aprì sulla spalla di Austria, strinse piano le dita e gliela massaggiò. Un piccolo e caldo gesto di conforto. Austria si girò. La guardò con occhi ancora assenti e scossi da quel malessere che gli batteva nella pancia. Ungheria gli sorrise, gli carezzò di nuovo la spalla, lo sguardo che diceva: ‘Va tutto bene, ci sono qua io’. Austria rilassò la tensione sul viso, le posò la mano sulla sua, ne accettò il calore, e annuì debolmente. 

Romania aggrottò un sopracciglio senza farsi notare, rallentò la camminata, e si strinse il mento mimando un’espressione contemplativa. Dopo che Austria ci ha raccontato quello che è successo alle Termopili dopo che ci siamo separati e dopo che anche lui è rimasto così sconvolto... Scosse il capo, si scrollò di dosso quei ricordi e quelle immagini che non gli appartenevano. Posso solo ringraziare di non aver assistito anch’io a quello che è successo a Grecia con i miei occhi.

Romania si passò una mano fra i capelli che erano caduti in disordine sulla fronte, tenne le dita fra le ciocche, e sollevò gli occhi verso i profili delle case e degli altri edifici che stavano percorrendo attraverso la strada. Piccole ombre si mossero fra i tetti, sulle terrazze, sui balconi, in mezzo ai rami degli alberi, e dietro le gambe dei soldati che occupavano i marciapiedi. Passi felpati si spostavano senza fare rumore, come piume. Occhietti brillanti e tondi come biglie di vetro lanciarono sguardi affilati e scintillanti nella loro direzione. Le scie luminose di quelle occhiate li seguivano come fari nella notte.

Romania piegò un mezzo sorrisetto che snudò la punta di un canino fra le labbra. Si sporse, diede una soffice gomitata a Bulgaria, e gli indicò le case con un cenno del mento. “Ehi, guarda.” Tese l’indice. Puntò una delle ombre che scomparve dietro una grondaia per lasciare spazio a un’altra che zampettò lungo la superficie del tetto. “A quanto pare c’è qualcuno che è venuto ad assistere all’entrata delle truppe.”

Tutti sollevarono gli sguardi e seguirono la direzione puntata dall’indice di Romania. Sgranarono le palpebre, le loro espressioni si divisero a metà fra la meraviglia e quello stesso disagio che aveva fatto tremare Austria poco prima.

Gatti. Atene era gremita di gattini che osservavano l’entrata delle truppe da sopra i tetti, che camminavano sui marciapiedi seguendo le truppe, e che scrutavano i soldati e gli ufficiali con occhietti accesi e ostili che parevano tizzoni ardenti. Un gattino rosso, appollaiato sul tetto di una casetta che ospitava una vetrina tappata da una saracinesca, si leccò la zampina e si strofinò in mezzo alle orecchie; uno nero gli camminò dietro tenendo la coda dritta e le orecchie tese, scrutò la parata con due occhi che sembravano lune piene in una notte senza stelle, e passò dietro un comignolo; da dietro il comignolo sbucò un micio color grigio fumo che saltò da un tetto all’altro; altri due gatti bianchi spiavano l’avanzare delle truppe da una delle terrazze, accanto a dei vasi di terracotta vuoti; uno tigrato si era acciambellato sul balcone di una finestra, e la sua coda fremeva di nervosismo, gli occhietti chiusi e affilati erano carichi di odio; un altro ancora fece sbucare il muso da dietro i rampicanti intrecciati alla grata di un’altra terrazza, e guardò in basso come i suoi compagni, fece la guardia alla città che stava venendo invasa.

Austria sbatté le palpebre, senza riuscire a sciogliere quella scintilla di stupore che aveva brillato dietro le lenti. “Gatti?”

Due gattini bianchi e neri scesero da un tetto, saltarono nella penombra di uno dei vicoli, e si unirono a un gruppetto di altri cinque mici che stavano rosicchiando lische di pesce o lisciandosi il pelo. Tutti e sette i gattini sollevarono i musi, smisero di mangiare e di leccarsi – uno di loro aveva ancora una mezza sardina fra i denti – e seguirono la camminata di Austria, Ungheria, Romania e Bulgaria con quegli occhi che parevano trapassarli.

Ungheria sgranò le palpebre, le guance si imporporarono di tenerezza. “Ooh, mici!” Si spostò di tre passi per guardare anche dall’altro lato della strada, si portò la mano tesa davanti alla fronte e seguì altri gruppetti di ombre. Altri gatti si spostarono sui tetti, dietro i comignoli e lungo le terrazze. Dovunque Ungheria spostava lo sguardo, trovava un paio di accesi occhietti felini a spiarla. “Però sono...” Si tolse la mano dalla fronte, tornò accanto ad Austria, e dovette anche lei strofinarsi le braccia e le spalle per sopprimere i brividi di disagio. “Sono tanti,” disse con un tremolio di voce. “Non finiscono più.”

Bulgaria tenne le braccia conserte al petto, le strinse in un gesto inconscio, per proteggersi, e chinò la fronte passando occhiate vaghe sulle ombre che continuavano a sbucare a nascondersi fra le abitazioni. “Effettivamente mi sento un po’ osservato,” borbottò.

Romania sollevò le sopracciglia. “Be’, di certo non sono qua a darci il benvenuto.”

Altri musetti sbucarono a osservarli da dentro i vicoli. Tre gattini seduti su delle casse di legno impilate contro la parete di una bottega si alzarono sulle zampette. Quello con la pelliccia color cioccolato saltò giù dalla cassetta di legno, zampettò dietro le gambe di uno dei soldati fermi sull’attenti, rizzò il pelo, assottigliò le palpebre, e grugnì un lamento di protesta a bocca chiusa. Quello bianco appiattì le orecchie accovacciandosi sulla cassetta più in cima, agitò la coda, e anche lui restrinse gli occhi gialli. Le pupille si dilatarono tingendoli di nero. Quello grigio incrociò gli occhi di Romania che lo guardavano di traverso, gonfiò il pelo e gli soffiò contro spalancando la dentatura bianca e affilata.

Romania arretrò di un passetto, colto di sprovvista, e urtò Bulgaria. Bulgaria lo tenne su, superò la sua spalla con lo sguardo, e ricambiò l’occhiataccia del gattino grigio che aveva appena soffiato. “Bestiacce,” ringhiò.  “Non siamo stati noi ad ammazzare il vostro padrone, sapete?”

Anche il gattino bianco spalancò le fauci e gli soffiò contro, si girò di traverso e graffiò l’aria con una zampata ad arco.

Bulgaria arricciò la punta del naso per fargli il verso. Si nascose dietro le spalle di Romania, tenendogliele ferme, gli infilò un indice all’angolo delle labbra, lo tirò di lato esponendo i canini appuntiti, e ringhiò anche lui. “Grrr.”

Romania ringhiò a sua volta facendo vibrare l’indice di Bulgaria ancora infilato fra le sue labbra. Piegò un braccio e gli piantò una gomitata nello stomaco. “Piantala.”

Bulgaria si massaggiò la pancia soffiando una smorfia di protesta, e si arrese sia ai gatti sia a Romania.

Lo sguardo di Ungheria tornò a scorrere fra i tetti e perse l’ombra di timore, divenne più lucido e comprensivo, gli occhi commossi davanti all’esercito di gattini. “Stanno solo difendendo Atene, ora che Grecia non può più farlo.”

Bulgaria si diede un’ultima strofinata allo stomaco. “Be’, sono più feroci e spaventosi di lui e di tutto il suo esercito messo assieme, questo è sicuro.”

Austria chinò leggermente lo sguardo e intrecciò le mani dietro la schiena. La sua posa tornò dura e solenne. “Il segreto è non guardarli negli occhi,” disse con tono pacato.

“Ah, sì?” fece Bulgaria, punto da una spina di curiosità. “E perché?”

Austria lo guardò da sopra la spalla. Un’ombra gli scivolò sul volto, gli occhi si fecero più fini, la voce bassa e rauca come le tenebre. “Perché altrimenti vi salteranno in faccia e vi strapperanno i bulbi oculari a unghiate.”

Romania sussultò, divenne bianco in viso, si avvicinò di più a Bulgaria, ed ebbe l’istinto di strofinarsi le palpebre che avevano preso a formicolare. Tenne gli occhi distanti dalla miriade di sguardi felini che seguivano i loro passi dai bordi delle strade.

Bulgaria si piegò a mormorargli da sopra la spalla e si coprì i movimenti della bocca con il dorso della mano. “Probabilmente Austria capisce così bene i gatti perché è come loro.”

Romania gli scoccò un’occhiata interrogativa. “Come loro come?”

“Uhm...” Bulgaria spiegò le dita di una mano una alla volta e si mise a contare. “Pigro, menefreghista, altezzoso, schizzinoso, scostante,” cambiò mano, “scorbutico, pretende che tutti siano al suo servizio senza dare nulla in cambio, e...”

Ungheria scattò. “Ehi!” Prese Austria a braccetto, lo portò in disparte, e fulminò Bulgaria con un’occhiata truce.

Bulgaria ridacchiò e tornò a nascondersi la bocca per finire di sussurrare all’orecchio di Romania. “E ha bisogno del cane da guardia.”

Romania sollevò gli occhi al cielo contenendo un mezzo sorriso di approvazione, e continuò a camminare seguendo la parata. L’aria tornò a farsi fredda e opprimente, il cielo più buio, e di nuovo una scia di brividi corse lungo la sua schiena. Romania si guardò di nuovo attorno, incontrò altri musi da gatto. Quella sensazione di dolore, rabbia e odio, trasmessa dalle fiammelle gialle che brillavano in mezzo al pelo, gli entrò nel cuore come la lama di un coltello. Deglutì. “Credi che lo sentano?”

Bulgaria sollevò un sopracciglio, gli lanciò un’occhiata distratta. “Sentano chi?”

Romania prese un breve respiro, trattenne l’aria nei polmoni, emise un sospiro freddo. “Grecia.” Lo pronunciò piano e scosso da un altro brivido di paura, come se avesse evocato il nome di un fantasma. “Credi che i gatti sentano che è qui e che glielo stiamo riportando...” Scosse le spalle. “In quelle condizioni?”

Bulgaria tornò scuro in viso. Allontanò lo sguardo, diede un piccolo calcetto alla strada con la punta del piede, grattando uno strato di terra rinsecchita, e si rimise a braccia conserte. “Che ne so.” Ruotò gli occhi verso gli edifici, oltre gli stendardi, oltre le file di soldati radunati ai bordi della strada, e anche lui intercettò nuovamente gli sguardi ostili dei gatti che gli entravano dentro come tanti aghi fra le costole. Si strofinò le braccia e le spalle. “So solo che questa città ci odia. Lo sento nelle viscere, come quando eravamo a Belgrado. E so anche non immagino nemmeno cosa dovrà succedere nel caso...” Sbuffò, alzò gli occhi al cielo. “Nel caso Grecia dovesse rimanere in quelle condizioni.”

Romania annuì. “Già.” Si passò una mano fra i capelli e si strofinò la nuca. Sospirò con aria stanca. “Tu dici che si riprenderà?”

Bulgaria sbuffò e rispose con tono acido. “Per me è morto.”

“No.” Romania scosse la testa. “Respirava ancora. Pochissimo, ma respirava.”

“Staremo a vedere. In fondo...” Bulgaria reclinò il capo, si massaggiò anche lui il collo, fece schioccare una vertebra. “Io penso che Germania gli abbia sparato più per una questione personale che per una questione strategica.”

Romania sgranò gli occhi, sbatté due volte le palpebre, e lo fissò con sguardo stupito e incredulo. “Sul serio?”

Bulgaria annuì e sollevò un indice al cielo. “Se fosse stato così importante ammazzare Grecia, Germania lo avrebbe fatto subito, quando eravamo a Salonicco e io ero riuscito a catturarlo. Era l’occasione perfetta: lo aveva proprio sotto le sue mani. Ma non lo ha fatto.” Abbassò l’indice, incrociò le braccia, e fece tamburellare le dita mantenendo quel lieve broncio meditabondo. “Germania ha voluto ammazzarlo alle Termopili per un altro motivo, credimi. E forse è per questo...” Si strinse nelle spalle e sospirò. Un lungo sospiro sconsolato. “Che secondo me non c’è nulla che possa andare sopra la rabbia di Germania e che possa risvegliarlo.”

Una sfumatura più avvilita attraversò gli occhi di Romania, diede al suo viso un’aria abbattuta e sconfortata. Romania chinò lo sguardo e continuò a camminare, a pestare i piedi su quella città che emanava brividi di odio a ogni passo premuto sulla sua terra.

Uno dei gattini – occhi verdi brillavano nel musetto color ambra – scivolò fuori dai rami di uno degli alberi piantati ai bordi della strada, si arrampicò attraverso la lunghezza del ramo, ne raggiunse la punta, e saltò facendo piovere piccole foglioline a terra. Atterrò sull’albero adiacente, facendo dondolare il ramo, si infilò fra le foglie, e attraversò anche quello. Corse verso la cima della parata, dove sventolavano gli stendardi della Divisione Julia.

 

.

 

Gli stendardi della Divisione Julia si agitavano al vento, gettavano le loro ombre increspate e ondeggianti sui reggimenti che marciavano dietro la doppia fila di autocarri. I soldati avanzavano a testa alta, gli elmetti calati sulla fronte, gli zaini rigonfi a pesare sulle schiene dritte, e i fucili adagiati al fianco. Fanti, granatieri, bersaglieri e alpini marciavano a passo sincronizzato, i soldati in cima al gruppo reggevano le bandiere italiane e quelle della divisione alpina, sfilavano sotto gli occhi degli uomini rigidi nel saluto militare che li osservavano dagli orli delle strade.

Romano salì sulle punte dei piedi e guardò oltre le formazioni dei reggimenti, compì un paio di passi teso in quella posizione per scrutare le facciate degli edifici, i colli verdi che si ergevano al di là dei tetti e dei comignoli, e le scie bianche scavate nel cielo dal passaggio dei loro Savoia. Si rimise con le suole a terra, si sistemò il fucile che gli stava scivolando dalla scapola, e agitò le dita contro la cinghia di cuoio per sopprimere un fastidioso formicolio che gli stava correndo nel sangue da quando aveva premuto il primo passo ad Atene. Spostò gli occhi dalle alture verdi della capitale, dagli stendardi dei loro reggimenti che parevano infilzare il cielo azzurro graffiato dal passaggio degli aerei, e lo sguardo gli cadde accanto a lui. Si posò sul corpicino chino di Italia che gli camminava affianco.

Italia teneva lo sguardo basso, i capelli cadevano in disordine nascondendogli la fronte, il peso del suo fucile cadeva dietro la scapola e gli ammosciava la postura delle spalle, i piedi si trascinavano in passi lenti e molli. Un’aura scura e fredda lo circondava come una nebbiolina di fumo, lo teneva avvolto in quella spirale di depressione che lo seguiva come una nuvoletta gocciolante di pioggia.

Romano sbuffò, si sporse e gli diede una spallata. “Tirati su.”

Italia sussultò, come se gli avesse infilato un pungolo elettrico nella carne, e sgranò gli occhi cerchiati di nero, lucidi e arrossati dalla stanchezza. Scosse il capo, si strofinò una mano fra i capelli, e si massaggiò il braccio dove lo aveva colpito la gomitata di Romano. Le dita stropicciarono lo stemma con l’aquila dorata cucito sulla spalla. “Scusa,” sibilò. Gli occhi sciupati, ingrigiti dalla stanchezza e da tutte le lacrime che aveva versato, continuarono a guardare per terra. Le palpebre annerite dalla mancanza di sonno li rendevano ancora più lucidi e gonfi. Italia non aveva dormito da quando avevano lasciato le Termopili.

Romano lo squadrò di nuovo di traverso, e si soffermò sul suo capo chino come quello di un condannato alla gogna che trascina i piedi incatenati fino alla ghigliottina. Sbuffò di nuovo. “E alza gli occhi da terra. È la parata dei vincitori, non degli sconfitti.”

Italia prese un breve e triste sospiro. “Scusa,” ripeté con un filo di voce. “È che sento...” Deglutì. Scosse il capo, e tornò a massaggiarsi il braccio, facendosi più piccolo. “Di non meritarmelo.”

“Ovvio che non ce lo meritiamo,” rispose Romano, “su questo non ci piove. Ma almeno fai buon viso a cattivo gioco e fingi di essere un po’ soddisfatto.” Il suo sguardo tornò a scorrere fra i reggimenti, in mezzo alle formazioni di soldati che marciavano dietro le file di autocarri e di motociclette. Soldati con gli stivali sporchi di tutto il fango, di tutta la pioggia, di tutta la neve e di tutto il sangue che avevano calpestato durante quei mesi prima di arrivare ad Atene. Romano sospirò, diede un’aggiustata al fucile. “Fallo almeno per l’esercito e per tutti quelli che sono comunque arrivati qua vivi e sulle loro gambe.”

Italia deglutì a fatica. Tirò su lo sguardo e le ombre gettate dagli edifici si infittirono, annerendosi nei vicoli, in mezzo agli alberi. La fredda sensazione di disagio tornò a corrergli sotto la pelle, i brividi formicolarono dentro il suo petto e attorno al suo collo, dandogli l’impressione di essere soffocato da un cappio al collo, di avere una lama premuta sotto la gola già macchiata da un filo del suo sangue. Italia si massaggiò il collo, camminò di un passetto più vicino a Romano, senza toccargli la spalla, e si nascose nella sua ombra. “La città mi odia.” Rabbrividì di nuovo. “Lo sento.”

Romano annuì, sfiorato anche lui da una carezza di vento dagli artigli ghiacciati. “Sì,” soffiò. “Lo so.” Tornò a guardarsi attorno, a camminare su quel terreno che continuava a vibrare di energia, a respirargli contro, a tremare di protesta sotto i passi degli invasori che schiacciavano le sue strade. Romano si sfregò la spalla. “È incredibile che Atene abbia ancora tutta questa energia latente nonostante Grecia sia...” Si morse la bocca, ricacciò le parole in fondo alla lingua con un gemito, e si maledisse da solo. Allontanò di colpo gli occhi da Italia, e si affrettò a schiarirsi la gola, a correggersi con un borbottio. “R-ridotto in quelle condizioni.”

Il viso di Italia si macchiò di colpevolezza. Lui riabbassò il capo, schiacciato dal peso della vergogna e del pentimento che gli riempiva il cuore di un ingorgo nero e appiccicoso che non riusciva a scollarsi di dosso. Tornò a stringersi le spalle, si strofinò le braccia come in preda ai brividi di freddo. “Tu credi che starà bene?” mormorò. Suonò come una supplica, come una preghiera, non come una domanda. “Che saprà riprendersi?”

Romano tornò a morsicarsi il labbro e rimase in silenzio, senza respirare. La paura ghiacciata che lo aveva travolto alle Termopili tornò ad avvolgerlo in un sudario, lo fece precipitare nel buio di quel giorno, con le ginocchia cadute a terra, i muscoli deboli e molli come gomma, i tremori a scuotergli il corpo, le mani schiacciate sulla bocca e gli occhi sgranati verso la scena che si era tatuata nella sua testa come una fotografia. Romano inspirò, scosse il capo, si strofinò i capelli tenendo la fronte bassa. “Non lo so.” L’eco dello sparo tornò a esplodergli nella testa, e Romano tenne gli occhi aperti per non rivedere l’immagine di Grecia che crollava nel buio, accasciandosi sulle rocce già macchiate del suo sangue. “Proprio non lo so.” Ed era sincero.

Italia sentì il groppo di dolore salirgli in gola, riempirlo del sapore aspro delle lacrime che già stagnavano fra le palpebre appesantite da sonno e stanchezza. Prese un respiro tremante che gli fece vibrare le labbra e si affrettò a schiacciare un braccio agli occhi, a strofinarsi il viso.

Romano scattò e un lampo di scongiuro gli accese lo sguardo. “Ehi, ehi, non osare metterti a piangere proprio ora.”

Italia singhiozzò, diede un’altra strofinata agli occhi. “S-scusa.” Si tolse il braccio dal viso, gli occhi erano ancora lucidi, e le sue labbra si piegarono in un piccolissimo e triste sorriso di autocommiserazione. “S-se penso che ho...” Tirò su col naso, strofinò le nocche sulle palpebre, e le sue labbra ripresero a tremare. “Che mi sono sforzato così tanto per non far succedere questo. E ora invece Grecia rischia di...” Singhiozzò di nuovo. Scosse il capo e allontanò quel pensiero. “Di non svegliarsi mai più.”

Anche Romano sentì lo stesso senso di colpevolezza pesargli sul cuore. Chinò il capo per non guardare la città negli occhi e continuò a camminare, sentendosi anche lui avvolgere da quella nube grigia e fredda che scaricava il suo peso sulla schiena come le piogge dell’autunno scorso. Il suo sguardo scivolò più avanti, oltre i loro reggimenti, oltre i loro stendardi, dove sapeva che i tedeschi marciavano aprendo la parata e facendo sfilare le berline nere e lustre in prima fila. Romano restrinse gli occhi, pizzicato da un altro dubbio. Si riavvicinò a Italia e si sporse a parlargli da sopra la spalla. “Quand’è che avrai di nuovo intenzione di rivolgergli la parola?”

Italia sbatté le palpebre, e il luccichio di tristezza si trasformò in un luccichio di confusione. “Cosa?”

Romano inclinò il capo indicando le truppe tedesche. “Al crucco,” specificò. “È da quando abbiamo vinto alle Termopili che non vi siete parlati.”

Italia rimase a labbra socchiuse, congelate, e le guance tornarono a impallidire, gli occhi a riempirsi di quell’ombra di paura che gli rese lo sguardo più buio e freddo.

Romano sbuffò e lo guardò di traverso. “Non starai mica facendo l’offeso come un moccioso, vero?”

“N-no,” squittì Italia. “Solo che...” Si voltò e intrecciò le dita sul grembo, stropicciò un angolo della giacca, e farfugliò fra le labbra. “I-io non so,” tentennò, “non so cosa dovrei dirgli, ecco. Ho avuto così tanta paura in quel momento che...” Tremò di nuovo, uno spasmo improvviso e violento, e Italia guadagnò un lungo respiro per calmare i nervi e riacquistare un po’ di colorito sulle guance. Parlò con voce più distesa e serena. “Però ho pensato.” Smise anche di trascinare i piedi.

Romano gli scoccò un’occhiata scettica. “Pensato a cosa?”

Gli occhi di Italia si fecero più duri, lo sguardo riacquistò un velo di forza che gli fece aggrottare le punte delle sopracciglia. Le braccia sfilarono sui fianchi, i pugni si contrassero e tornarono a rilassarsi. “Che forse sono io che sbaglio.” Italia si posò la mano sul petto, e le sue dita attraversarono la scintilla metallica emanata dalla croce di ferro che ricadeva sulla giacca. “Che forse Germania ha fatto bene a sparare a Grecia,” disse, “che forse era una cosa che avrei dovuto fare io fin dal primo momento e che non ho mai avuto coraggio di fare, e che quello è stato un gesto che lui ha fatto per coprire i miei errori e per prendersi le mie responsabilità.” Di nuovo una luce liquida gli traballò fra le palpebre, rese la sua voce arrochita dal grumo di pianto e dolore incastrato in gola. “E che forse sono io che continuo a non capire come funziona una guerra.”

Romano rimase con il fiato sospeso, un’espressione di conflitto ad aggrottargli la fronte, e le labbra leggermente torte, congelate in parole che non riusciva a pronunciare.

Italia sospirò e scosse il capo, tornò a intrecciare le dita sul grembo. “Germania non ha colpa in tutto questo,” continuò, “lui ha sempre e solo cercato di proteggermi. Se Grecia ora rischia di morire è solo per colpa mia. Perché non ho saputo concludere la campagna durante lo scorso autunno, perché ho costretto Germania a intervenire e a coprirci le spalle, a eliminare Grecia in quella maniera perché ormai era troppo tardi per finire tutto senza spargere sangue. E non...” Si portò una mano al viso, strofinandosi l’occhio umido, e nascose il piccolo sorriso di dolore dietro il palmo. “E non posso crederci di aver capito una cosa del genere solo ora. Nella maniera peggiore.”

Romano sentì tutta quell’ondata di sconforto arrivargli addosso, fredda come una valanga di neve sulla schiena nuda. Raccolse la mano che Italia aveva alzato per nascondersi il viso, gliela strinse, lasciò che le loro braccia scivolassero lungo i fianchi, e gli spremette le dita. Gli trasmise un guizzo di forza, una scossetta nel sangue, e gli rivolse uno sguardo più caldo e comprensivo. Gli stette accanto.

Italia camminò di un passo più vicino al suo fianco, reclinò il capo lasciandolo riposare sulla sua spalla, e continuò a camminare, protetto dall’ombra delle bandiere. Si lasciò strofinare i capelli in una piccola carezza di consolazione.

Romano spostò di nuovo gli occhi al cielo, catturato da una luce bianca che brillava sulla collina verde appena erta sopra le bandiere e sopra i tetti delle case, oltre le strade su cui marciavano.

Il profilo del Partenone dominava il colle dell’Acropoli come un enorme faro bianco affacciato alla città di Atene, la vegetazione attorno all’altura si apriva lasciando che si innalzasse contro il cielo, che esibisse i templi sotto la luce del giorno che pareva battere solo in quel punto, come il riflettore di un palcoscenico.

Romano provò una stretta di emozione attorno al cuore, ebbe un sussulto che fece tremare anche il capo di Italia poggiato sulla sua spalla. Gli diede una spintarella, un colpetto di gomito sul braccio. “Ehi, guarda.” Aspettò che Italia sollevasse lo sguardo e tese l’indice verso il colle. “L’Acropoli.”

Italia sollevò il capo dalla spalla di Romano, seguì la direzione tracciata dal suo indice puntato al cielo, e nei suoi occhi si riflesse il profilo lontano del colle, la forma del Partenone che biancheggiava contro il cielo sfumato di grigio dove erano appena sfrecciati i loro aerei. Sgranò le palpebre, rimase a bocca socchiusa, e un soffio di calore gli attraversò il cuore, crebbe in una stretta nostalgica che gli piegò le labbra in un piccolo sorriso malinconico. Il colorito sulle guance divenne più roseo. “Bella.” Camminò sulle punte dei piedi per continuare a guardare il colle, sporse le spalle in avanti per superare il profilo di Romano, e tese la mano davanti alla fronte. Rinnovò il sorriso. “Bellissima.” Il ricordo inconscio del nonno sfilò nella sua mente. Italia tornò indietro con le spalle e riprese a camminare a schiena più dritta, guardando però di nuovo in mezzo ai piedi. “Chissà cosa direbbe il nonno nel vederci qui?”

Romano aggrottò un sopracciglio. “Già.” Allontanò lo sguardo, parlò con voce più bassa e amareggiata. “Chissà cosa direbbe.” Calciò via un sassolino dalla strada, corrugò la fronte, e nel suo petto tornò a formarsi un grumo nero di disagio e pentimento. Figuriamoci, pensò subito. Se il nonno ci vedesse qua assieme ai crucchi dopo una campagna disastrosa come questa...  Chiuse gli occhi, rimase a capo basso, spalle chine, e allontanò l’immagine del nonno per non dover ricordare il suo sguardo gentile e solare o il suo sorriso che sentiva di non meritare. Penso che non riuscirei nemmeno a guardarlo in faccia per la vergogna.

 

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Lo sguardo di Prussia, riparato dalla mano che aveva teso davanti alla fronte, racchiuse il profilo dell’Acropoli, la forma del Partenone e delle rovine che lo circondavano. Un lampo improvviso di luce bianca nel rosso dei suoi occhi.

Prussia rallentò il passo e girò la guancia per continuare a guardare verso il colle, anche quando i tetti delle case tornarono a coprire il suo profilo circondato alla base dal verde della vegetazione. Abbassò la mano, si fece aria al viso già accaldato per il sole della primavera greca, allentò la chiusura della giacca sotto la gola, e trotterellò di due passi accanto a Germania. Gli sfiorò la spalla con la sua dandogli un piccolo colpetto. “Arrivati, eh?”

Germania rimase rigido, spostò solo gli occhi su di lui, gli rivolse uno sguardo distratto, e tornò a fronte alta. Annuì senza rallentare la camminata. “Sì.”

Prussia tornò a guardare in alto rivolgendo la punta del naso al cielo. Stiracchiò le braccia sopra la testa, compì tre passi di marcia sulle punte dei piedi, e sgranchì anche i muscoli delle gambe. “Nemmeno io pensavo che saremmo stati così veloci.” Abbassò le braccia, si massaggiò il collo e lo fece scricchiolare. Sbuffò e piegò un mezzo ghigno di soddisfazione. “Peccato solo per lo scherzetto degli jugoslavi, altrimenti avremmo potuto finire ancora prima e buttarci in Unione Sovietica a metà maggio.”

Germania strinse le mani dietro la schiena, il viso immutato, gli occhi di pietra. “È andata così,” rispose. “In ogni caso...” Ruotò gli occhi alle sue spalle, e guardò oltre le file di soldati che marciavano dietro di loro, sotto l’ombra di bandiere e stendardi. “Almeno abbiamo guadagnato qualcosa in più dalla capitolazione jugoslava e dalla sottomissione del loro governo.”

“Già.” Prussia continuò a camminare e si guardò attorno. Le ombre incastrate fra gli edifici e all’entrata dei vicoli gli trasmisero una scia di brividi lungo la spina dorsale. Luccichii lo spiavano da ogni angolo, trasmettevano la sensazione di avere tanti aghi piantati nella pelle. La città lo guardava. Prussia tornò a sventolare una mano accanto al viso per farsi aria, spostò gli occhi davanti a lui, dove la parata proseguiva e i colori degli stendardi si mescolavano sotto la luce del sole, e si schiarì la voce. “E con...” Si rimise più vicino a Germania per poter abbassare il tono. “Con Grecia cosa intendi fare?”

Il viso di Germania non fece una piega, rintanato nella penombra che rendeva i suoi lineamenti ancora più duri. Germania prese un lungo sospiro che gli mosse il petto sotto la giacca. “Per il momento, lo faremo rinchiudere in cella,” disse. “Una cella isolata e sorvegliata anche davanti alle sbarre, ventiquattrore su ventiquattro. Anche se ormai Grecia non costituisce più una minaccia fisica, lo farò comunque incatenare, mani e piedi.”

Prussia storse un sopracciglio. “Incatenare?” domandò con una punta di stupore. “Incatenare un morto?”

“Non è morto.” Germania guardò un punto indistinto alle sue spalle. “Non ancora,” aggiunse con voce più fredda e tesa. “Forse, ora che è tornato ad Atene potrebbe addirittura risvegliarsi. Non voglio correre il rischio che scappi di nuovo, come a Salonicco.”

Prussia scosse le spalle e mostrò i palmi in segno di arrendevolezza. “Come vuoi,” rispose. “Ma a proposito di scappare... cosa pensi di fare con Inghilterra e i suoi marmocchi?” Rivolse un pollice dietro la sua spalla, puntellò l’aria. “Staranno già imbarcando da almeno un paio di giorni. Evacueranno l’intera nazione entro poche ore.”

Germania scosse il capo. “Per Inghilterra non mi preoccuperei troppo. La Luftwaffe li terrà impegnati ai porti e al largo. Poi ci sono ancora le isole da difendere, soprattutto Creta.” Scrutò il cielo segnato dalle scie bianche graffiate dal volo degli aerei. “Questo territorio non appartiene a Inghilterra, e lui si troverà in una difficoltà maggiore nel difenderlo senza l’aiuto e la guida di Grecia. Se per Grecia il viaggio finisce qua...” Posò anche lui lo sguardo sull’Acropoli, su quella cima che stava per venire marchiata a fuoco con la loro impronta. “Non si può di certo dire lo stesso per noialtri.”

 

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Un vento freddo e bruciante, carico di tensione elettrica, risalì la città di Atene, trascinato dal passaggio dei Savoia ronzanti, appena spariti dentro la curva dell’orizzonte, e soffiò addosso agli alberi che rivestivano e proteggevano il colle sotto la loro ombra.

Turchia strinse le braccia attorno al gattino pezzato raccolto contro il suo petto, gli passò una soffice carezza consolatoria lungo la schiena, e compì due passi in avanti. Foglie e ramoscelli scricchiolarono sotto i loro piedi. L’eco degli aerei si perse alle sue spalle, assorbito dalle nuvole che si stavano addensando davanti a loro. Un forte brusio risalì le strade di Atene si stavano riempiendo dei reggimenti tedeschi e italiani. Fiumi neri come inchiostro che si stavano riversando nelle curve delle strade, in mezzo alla vegetazione, fra gli edifici di pietra, come un grosso artiglio che penetra nella città, stritolandola sotto la sua morsa.

Turchia deglutì, le sue braccia avvolte attorno al gattino tremarono assieme a lui, scosse da un brivido di disagio. “Oh, diavolo.” Si affacciò maggiormente al panorama della città. Il vento gli soffiò in faccia e trascinò sotto il suo naso la puzza del nemico, l’odore rancido di guai in arrivo, quello pungente del sangue già versato e che si stava incrostando su tutta la nazione. Turchia aggrottò la fronte sotto la mascherina, il cappuccio calato fino alla fronte si agitò, mosso dal vento.

Che gli avranno fatto? si chiese. Forse è ancora vivo. Forse. Compì un altro passo avanti e tenne fermo il cappuccio fra due dita. Riuscì a distinguere i colori degli stendardi italiani e tedeschi che sventolavano sopra le formazioni dei reggimenti. Anche il gattino pezzato tese il musetto verso l’immagine lontana di Atene invasa, e agitò la punta del nasino. Tastò l’aria con una smorfia disgustata, come se stesse annusando del tonno andato a male. Turchia corrugò un sopracciglio in un’aria scettica. Ma se hanno organizzato tutto questo teatrino, lui dove potrebbe essere...

Il gattino pezzato spinse le zampette contro le braccia di Turchia avvolte attorno al suo corpicino, si spinse a destra e a sinistra, divincolandosi, e sgusciò fuori dall’intreccio dei gomiti.

Turchia sobbalzò e lo riacchiappò al volo per non farlo precipitare a terra. “Ehi, ehi, che fai?” esclamò. “Non vorrai cadere?”

Il gattino spinse il peso verso il basso, schiacciò di nuovo le zampette contro le sue braccia, piantando le unghie nelle maniche della giacca, e scivolò via come una saponetta umida sfuggita dalle dita. Atterrò sulle quattro zampe, si diede una scrollata, e corse via. Una pallina di pelo bianco e marrone che rotola via, rimpicciolendosi all’orizzonte.

“Fermo, aspetta!” Turchia lo rincorse e aprì una mano accanto alla bocca per ingrossare la voce. “Torna indietro, è pericoloso! Ci sono i nemici che hanno invaso la città, finirai schiacciato!”

Il gattino si perse dentro la vegetazione che si infittiva lungo le pendici del colle e svanì dalla sua vista. La sua presenza finì inghiottita dall’energia latente che ancora pulsava fra le abitazioni e le strade di Atene, ora macchiata da quella più prepotente e pulsante dei nemici che stavano avanzando in città.

Turchia rallentò il passo e si fermò, riprendendo fiato. Lanciò un’ultima occhiata di disapprovazione all’ombra del gattino nel punto dov’era svanito, e sbuffò, seccato. “Tutti zucconi,” brontolò. Incrociò le braccia al petto e scosse il capo. “Tutti zucconi in questo dannato paese.”

Si girò, e la sua vista tornò ad aprirsi su Atene. Sulla città strangolata, sul suo respiro che si stava spegnendo, soffocato dal fumo dei mezzi armati e dalle marce che i soldati pestavano sulle strade. Turchia dovette deglutire per buttare giù un nodo di tensione. Inviò una silenziosa preghiera al gattino. Va’ e cercalo. Chiuse gli occhi da dietro la mascherina, strinse l’orlo del cappuccio e lo tirò fino alla punta del naso, nascondendo la sua espressione incupita. Forse sei davvero l’unico in grado di tenerlo qua con noi in un momento del genere.

 

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L’ufficiale tedesco con i gradi da capitano cuciti sull’uniforme grigio-verde sorpassò le due porte di ferro che creavano l’accesso alla prigione. Tenne il capo alto e le mani dietro la schiena, fece un cenno con il mento alle due guardie d’entrata, lasciò che chiudessero le ante dietro di lui – sbum! –, e un’ombra gli sgattaiolò in mezzo alle caviglie senza che nessuno se ne accorgesse. L’uomo socchiuse gli occhi per abituarsi al buio che regnava nel corridoio, trattenne il respiro per resistere alla prima ondata di aria umida e polverosa che gli appesantì i polmoni, e avanzò all’interno della prigione. L’eco schioccante dei suoi passi lo inseguì assieme alla piccola ombra scivolata fra i suoi piedi.

Il capitano portò una mano davanti alla fronte, si riparò dal riverbero delle lampadine a soffitto che brillavano di bianco contro le pareti di cemento armato, e allentò il colletto della giacca per far prendere aria alla gola già soffocata dall’odore umido e stagnante di ferro e di ruggine. Attraversò l’ala dell’edificio, superò tre coppie di soldati armati che pattugliavano i corridoi, entrò in una zona più illuminata, abbassò il capo per superare il passaggio attraverso un’altra porta blindata, e raggiunse il blocco davanti all’unica cella occupata. Un singolo raggio di sole entrava dalla finestrella sbarrata sotto il soffitto, attraversava la cella, e toccava il pavimento fuori dalle spranghe.

Una delle due guardie che sorvegliavano la cella, immobile come un soldatino di stagno, fremette sotto l’arrivo dei passi del capitano. Girò lo sguardo e nei suoi occhi si riflesse la sua sagoma dritta in avvicinamento. La guardia tirò su le spalle di scatto, spinse il petto all’infuori, e batté i tacchi. “Signore.” Anche la seconda guardia lo imitò e batté a sua volta un attenti. “Signore.”

Il capitano annuì a entrambi senza spostare le mani da dietro la schiena. “Movimenti da segnalare?” Si fermò davanti ai due, e il fascio di luce solare che usciva dalla cella gli passò sopra la spalla, scintillò su una delle piastrine cucite sulla stoffa.

La prima guardia che lo aveva notato e che si era rizzata sull’attenti scosse il capo. “Nossignore.” Lo sguardo rimase scuro e teso sotto l’ombra del copricapo. “Non si è né mosso né svegliato.”

Il capitano annuì. “Bene.” Buttò un’occhiata oltre le spalle dei due uomini, superò le spranghe della cella, scintillanti sotto la lama di luce che tagliava l’aria della camera, ma non riuscì a scorgere l’interno delle pareti. Tornò a schiena dritta, rivolse uno sguardo più duro agli altri due soldati. “Ma rimanete in allerta. Abbiamo ordine di sorvegliarlo in ogni caso, anche se non si dovesse svegliare.”

“Sissignore,” rispose la prima guardia. “Nulla è entrato e nulla è uscito, potete stare tranquillo.”

Un musetto pezzato sbucò da dietro la gamba del capitano, dove si era tenuto nascosto zampettando a passo felpato durante tutto l’attraversamento dei corridoi, e annusò l’aria stantia della prigione con la punta del nasino. Nessuno si accorse di lui. Il gattino sgusciò fuori dall’ombra del capitano, agitò la punta della coda, ruotò un’orecchia chiazzata, e fece fremere le vibrisse. Riconobbe un odore morbido e familiare che macchiava l’ambiente mescolandosi a quello più acido e ferroso dei soldati tedeschi.

Il singolo raggio di luce solare che filtrava attraverso la finestrella sbarrata all’interno della cella tagliava quell’aria densa e offuscata, si stendeva nell’anticamera e tingeva il pavimento come un sottile tappeto d’oro. Il gattino rizzò le orecchie, i suoi occhi si accesero, brillarono di entusiasmo, e lui saltò fuori dall’ombra. Si avvicinò alla cella percorrendo la lunghezza del raggio, si infilò fra due sbarre che gli sporcarono il pelo di grani di ruggine, ed entrò.

Il corpo di Grecia era steso sul fianco lungo la panca di legno accostata alla parete della cella, proprio sotto la finestrella incastonata sotto lo spigolo del muro. Gli dava la schiena. I capelli ricadevano dietro le spalle, sfioravano il legno della panca, il raggio di luce scorreva sopra il suo corpo senza toccarlo, lasciandolo solo avvolto dall’umida penombra che riempiva le pareti di cemento. Un anello metallico, spesso e rosicchiato dalla ruggine, era fissato al muro. Dall’anello partivano quattro catene di ferro che si raccoglievano sul pavimento come serpi arrotolate, risalivano la panca dove era sdraiato il corpo di Grecia, e si agganciavano alle manette che gli imprigionavano i polsi e le caviglie. La giacca militare gli cadeva lungo il busto, le maniche distese lungo i fianchi, e nascondeva il profilo smagrito. Il suo corpo non si muoveva. Non un fremito o un sospiro. Grecia era immobile.

Il gattino zampettò davanti alla panca, si sedette raccogliendo la coda attorno al corpicino, e reclinò la testa, flettendo un’orecchia pezzata. Agitò un’altra volta la punta del nasino, chiamò il padrone con occhietti che luccicavano di speranza. “Miau.” Un guizzo di attesa gli attraversò la coda. Il suo miagolio cadde nel silenzio della cella e si perse, inascoltato, come il trillo di una monetina che precipita in un pozzo.

Grecia non rispose, non si mosse. Un’ombra esterna – forse un uccellino – attraversò la luce che passava dalla finestrella, increspò il riverbero del sole, e sfrecciò via.

Il gattino pezzato arricciò il musetto in un’espressione più determinata. Si rimise dritto sulle zampette, si avvicinò alla panca, posò gli anteriori sul bordo, dietro la schiena di Grecia, e accostò il nasino alla giacca che gli cadeva attorno alle spalle. Mosse le vibrisse, la annusò. Odorava di sangue, di campo di battaglia, di fumo, di esplosivo, di roccia bruciata, e di nemico. L’odore di guerra nascondeva il buon profumo di mare, di agrumi e di uliveti che lo cullava sempre quando si addormentava acciambellato al ventre di Grecia.

Il gattino pezzato abbassò le punte delle orecchie, gli occhi si fecero più larghi, umidi e tristi. Il suo cuoricino batté un palpito di dolore. Salì sulla panca con un balzo, si arrampicò sul suo fianco appendendosi alla giacca, scivolò all’altezza del ventre dove erano raccolte le braccia, e finì con le zampette in mezzo alle catene che si allacciavano ai suoi polsi. Annusò la guancia di Grecia, fece le fusa – un ronfare basso e profondo – sbatté gli occhietti, e si abituò alla penombra che si infittiva dietro il raggio di luce che si allungava sopra di loro cadendo fuori dalla cella.

Alcune ciocche di capelli cadevano in disordine sul volto addormentato di Grecia, celavano il pallore del viso, e scivolavano affianco alle labbra leggermente socchiuse, immobili, e sfumate dello stesso grigio che si infossava attorno alle palpebre abbassate, gonfie e scure. Un livido gli segnava il viso sotto lo zigomo, e la pelle diventata bianca e sottile come carta ne metteva in risalto il colorito violaceo. Un lieve scintillio era incastrato fra le ciglia abbassate, donava al suo sguardo addormentato un’espressione più addolorata e malinconica, lo rendeva umido come durante un pianto.

Gli occhi tristi del gattino assorbirono tutto quel dolore. Le punte delle orecchie si abbassarono di più, e le fusa si spensero in un fioco mugugno simile a un lamento. Il micio superò il groviglio delle due catene allacciate ai polsi di Grecia, scavalcò un suo braccio, si accucciò fra gli incavi dei gomiti, senza sedersi, e abbassò di nuovo il musetto contro la sua guancia. “Miau.” Il suo nasino umido lasciò un’impronta sulla pelle.

Grecia non si mosse. Nemmeno un sospiro.

Il gattino gli premette le zampe sulla spalla, tornò ad abbassare il muso, e insistette dandogli una profonda spinta con la testa contro la sua fronte. “Miau.” Gli allontanò i capelli dal viso, le ciocche tornarono a cadere sulla guancia, ma il padrone non si svegliò.

Il gattino fece scivolare di nuovo le zampe sulla panca e abbassò il muso, sospirò a fondo con aria sconfitta. Si riavvicinò, toccò la fronte di Grecia con la sua, fece di nuovo le fusa, e passò una soffice leccata sulla punta del naso. Un bacino di addio.

Si acciambellò fra i gomiti di Grecia, scaldando con il suo corpo le catene che gli grattavano i polsi, e chiuse gli occhi, rilasciò tutto il peso della tristezza con un profondo soffio dal nasino.

Nella cella regnava il silenzio, interrotto solo dai profondi respiri del gattino e dai brusii che scuotevano le pareti dall’esterno – i suoni della parata, le marce degli eserciti, i rombi dei mezzi, lo sfrecciare degli stormi aerei sopra il cielo di Atene.

Una scossetta di vita contrasse le dita di Grecia, le punte si arricciarono leggermente, sfiorarono il pelo pezzato del gatto, e tornarono immobili nella posizione precedente. Un’altra contrazione dei muscoli indurì un braccio coperto dalla giacca e tornò a rilassarlo.

Il gattino sollevò il muso di colpo, rizzò le orecchie, gli occhietti si spalancarono, dilatandosi come ventose, e caddero sul braccio di Grecia che si era appena mosso. Tornarono a brillare di speranza.

La luce del giorno si fece più bassa e polverosa, il raggio che passava attraverso le sbarre della finestrella scivolò fino al viso di Grecia, si posò sulla sua guancia, rischiarì le ciocche di capelli in disordine, accentuò il colore scuro delle occhiaie, e fece luccicare le ciglia ancora unite.

Un tremore attraversò le palpebre, un brivido minuscolo che increspò il gonfiore degli occhi chiusi.

Le palpebre di un occhio si divisero, svelarono uno spicchio di iride verde e ancora sporca, appena svegliata, e tornarono a unirsi. Un altro tremore attraversò il viso, arricciò la punta del naso che il gattino aveva leccato, e gli occhi si schiusero assieme, pesanti e ancora annebbiati dal dolore. Grecia soffiò un minuscolo risucchio d’aria che gli contrasse il torso e fece scricchiolare le giunture indurite delle ossa.

Un lampo di entusiasmo si accese nello sguardo del gattino pezzato. Il micio si rizzò sulle zampe, tornò a leccare il naso di Grecia, spinse di nuovo la fronte sulla sua e riattaccò a fare le fusa.

Grecia sbatté altre due volte le palpebre, le tenne socchiuse, spostò lo sguardo oltre la figura ancora sfocata del gattino che appariva come una nuvoletta di cotone bianca e marrone, e lo posò sul muro della cella. Sollevò la tempia dalla panca, una forte fitta di dolore gli trapassò la nuca, lasciandolo senza fiato, e lui tornò a riappoggiarsi sopprimendo una smorfia. Una prima spina di confusione gli punse la testa. Sono... I rumori esterni interruppero il fischio che gli ovattava le orecchie, si fecero limpidi come la vista che stava tornando chiara. Grecia mosse di nuovo le mani, piegò e distese le dita informicolate che iniziavano a bruciare, e le sollevò. L’eco metallico rimbalzò fra le pareti emettendo un trillo acuto. Grecia sbatté di nuovo le palpebre, mise a fuoco le fasce d’acciaio allacciate ai polsi e le catene che ricadevano lungo la panca su cui era sdraiato. Rigirò i polsi. Il metallo gli grattò la pelle, ma la sensazione di bruciore gli trasmise una scossa di stupore. Sono vivo?

Mosse di nuovo le dita, sparse il formicolio, il sangue ricominciò a scorrere verso le punte, intiepidendole, e riaccese le pulsazioni di dolore che battevano sulle ossa e attraverso i muscoli. Martellate che lo colpivano a ritmo del suo respiro.

Il gattino pezzato inarcò la schiena contro la spalla di Grecia e tornò a strusciarsi su di lui, gli strofinò il muso fra i capelli, sulla guancia, e aumentò le fusa andando avanti e indietro fra le sue braccia distese.

Grecia storse la punta di un sopracciglio, ancora annebbiato dallo smarrimento e dal dolore, e sollevò una mano incatenata per carezzargli la schiena. Ma dove... Spostò un ginocchio, un peso lo trattenne, e un altro squillo di catene rimbalzò nel silenzio. Grecia spostò lo sguardo lungo le sue gambe. Fasce di ferro scintillavano anche attorno alle caviglie, le catene ricadevano giù dalla panca e strisciavano verso l’anello incastonato al muro. Dove sono?

Il gattino tornò a sfregarsi sotto la sua mano, spingendosi da solo attraverso le sue carezze, e le vibrazioni delle fusa trasmisero una scossa di vita anche a Grecia.

Grecia fece scivolare la guancia sul legno della panca, rivolse lo sguardo alla finestrella sbarrata che affettava il raggio di luce, e tastò l’aria di Atene con la punta del naso. Una fitta di malinconia gli trapassò il cuore, più dolorosa di tutte le ferite che pulsavano attraverso il suo corpo. Casa. Avvolse le braccia attorno al corpo del gattino pezzato, e il micio tornò ad acciambellarsi fra i suoi gomiti, si accoccolò rintanando il muso contro il petto del padrone, e soffiò un respiro di sollievo prima di addormentarsi.

Grecia strinse le ginocchia al ventre facendo di nuovo trillare le catene. Si accoccolò al suo gatto, gli carezzò la pelliccia fra le orecchie e lungo la schiena, e gli posò le labbra sulla testolina. Chiuse anche lui gli occhi, rilassò il respiro, lasciandosi abbracciare dalla sensazione di sonno e stanchezza. Sono a casa.

Abbracciato al gatto e arrotolato fra le catene della sua prigionia, Grecia si era risvegliato.

 

.

 

La bandiera greca sventolava in coma all’asta piantata davanti al Partenone. Un freddo vento dall’odore di fumo e di carburante bruciato soffiava sulla cima dell’Acropoli, faceva rotolare i sassolini bianchi lungo il suolo, addosso alle rocce più grandi, contro le colonne di pietra, attorno all’asta della bandiera, e fra le gambe degli ufficiali tedeschi radunati sull’altura. Cumuli di nuvole grigie si stavano infittendo davanti al sole, ne tappavano i raggi che ora cadevano fiochi e spenti, freddi come l’aria dura che era calata su tutta Atene.

Italia rabbrividì, il passaggio del vento scosse il suo corpo in un violento spasmo di gelo. Tornò a strofinarsi le spalle e le braccia da sopra le maniche della giacca, come aveva fatto durante la parata, e si allontanò dall’ombra della bandiera che continuava a sventolare emettendo un suono morbido, di ali piumate che sbattono. Rivolse lo sguardo accanto a sé, verso Romano, in cerca di un appiglio di conforto.

Romano guardava per terra. Le spalle dritte ma la fronte china. I pugni schiacciati tremavano contro i fianchi, lo sguardo rimaneva rigido nell’ombra, i denti morsicati sul labbro inferiore facevano vibrare la bocca, i capelli sventolavano davanti agli occhi tenuti distanti da quelli di Italia. Romano stava in piedi davanti all’asta della bandiera con lo sguardo abbattuto e umiliato di chi sta venendo sgridato.

Accanto a lui, Ungheria teneva le mani raccolte in grembo, strofinava le dita per scaldarle, osservava lo sventolio di quell’ombra con occhi tristi, toccati dai capelli che si agitavano sopra le spalle e dietro la schiena. Lo stesso sguardo addolorato e colpevole che aveva mostrato davanti all’esercito di gattini accorsi sulle strade di Atene per difendere la città.

La stessa ombra velava anche il viso di Austria. Lo sguardo era alto verso la punta dell’asta, con l’immagine del Partenone a riflettersi sul lucido delle lenti, ma punto da quel luccichio di soggezione che rendeva la sua espressione più mite e scura, tesa come quando si era ritrovato davanti alla caduta di Grecia alle Termopili.

Vicino a loro, Bulgaria si sporse di spalle superando il profilo dritto di Romania, in piedi accanto a lui, e guardò prima il Partenone, poi la distesa della città di Atene che si apriva ai piedi del colle, e di nuovo la bandiera bianca e azzurra. Deglutì, rabbrividì anche lui come Italia, e si spinse di un passetto più vicino a Romania, senza guardarlo in faccia.

Il gruppetto di ufficiali tedeschi si schiuse, lasciò passare uno di loro che aveva il viso nascosto dall’ombra del copricapo e le braccia tese davanti al petto, un panno ripiegato in quattro a giacere fra le sue mani aperte verso l’alto come se stessero reggendo un vassoio. I passi dell’ufficiale schioccarono sul suolo di pietra, spaccarono il silenzio interrotto solo dal fischio del vento e dal suono soffice della bandiera greca che sventolava sopra di loro, e l’uomo sfilò davanti al profilo di Prussia, fermo e rigido ai piedi dell’asta. I suoi occhi rossi seguirono la camminata dell’ufficiale come fiammelle nella notte, sottili e roventi.

L’ufficiale arrivò al fianco di Germania e si fermò piantando l’attenti con un battito di tacchi.

Germania abbassò lo sguardo dalla bandiera greca che si era specchiata nei suoi occhi, li posò su quella tedesca ripiegata fra le mani dell’uomo. La raccolse, la resse anche lui tenendo i palmi verso l’alto, senza sciuparne gli angoli e senza creare pieghe sul tessuto, e ne accettò il peso. L’ufficiale batté un saluto e arretrò unendosi al gruppo che li aveva accompagnati fino alla cima dell’Acropoli.

Germania irrigidì il tocco, ascoltò il peso della sua nazione che gravava sui suoi muscoli e sulle sue ossa, e camminò davanti alle altre nazioni radunate attorno a lui. Lo sguardo scivolò su quello di Prussia, attirato dai suoi occhi magnetici che brillavano di un rosso acceso e vivo, come sangue. Prussia gli annuì con un movimento del capo lento ma deciso, un piccolo ma sincero cenno di approvazione. Germania tenne il capo alto, gonfiandosi il petto con il calore trasmesso da suo fratello, e ricambiò il cenno.

Superò Bulgaria e Romania, calpestò un passo davanti ad Austria e a Ungheria, andò oltre Romano che non aveva ancora sollevato la faccia da terra, e i suoi occhi scivolarono su Italia in un movimento spontaneo. Rallentò il passo, esitò sentendosi i piedi farsi più pesanti e duri da sollevare, come tirati da un pavimento di colla.

Italia sussultò. Un lampo di dolore e tensione gli attraversò gli occhi distrutti dalla stanchezza, si infossò nelle palpebre annerite, e gli rese il viso ancora più pallido. Lui e Germania smisero entrambi di respirare, il vento calò di colpo, le nuvole si addensarono davanti ai raggi di sole rendendo l’aria nera e ghiacciata come quel breve attimo che aveva congelato i loro cuori.

Italia gettò di colpo lo sguardo a terra, in mezzo ai piedi, e scivolò più vicino a Romano, premendo la spalla alla sua. Non si dissero nulla e non si guardarono più.

Germania prese un profondo respiro. Rimase davanti alle altre nazioni, immerso nell’ombra della bandiera sconfitta che esalava gli ultimi singhiozzanti sventolii di vita, e la sua voce bassa e profonda ruppe il silenzio che regnava sull’Acropoli. “Se oggi siamo qui,” compì un altro passo, lo schiocco vibrò attraverso il pavimento di pietra, “se oggi abbiamo l’opportunità di piantare la nostra bandiera su Atene, sulla cima della capitale e di conseguenza su tutta la nazione greca,” strinse leggermente le mani sotto la bandiera tedesca che giaceva ripiegata fra le sue mani, “è perché siamo stati in grado di dimostrare un’ennesima volta che il mondo ha tutto il diritto di tremare davanti ai nostri eserciti, davanti ai nostri soldati, davanti alla nostra gente che ogni giorno lotta per i nostri paesi e per far sì che alle Potenze dell’Asse venga assegnato il ruolo che meritano.” Il suo sguardo acquistò un’aria solenne, gli occhi brillarono di una luce nobile. “Il ruolo che hanno dimostrato di meritare in ogni loro lotta.”

Italia e Romano si scambiarono un’occhiata di sfuggita. Italia prese un piccolo respiro di coraggio, strinse anche lui i pugni lungo i fianchi, e compì un piccolo passetto all’indietro per non toccare l’ombra di Germania che camminava davanti a loro.

“Se oggi siamo qua,” continuò Germania, “è perché abbiamo dimostrato ancora una volta che la nostra supremazia merita di erigersi sopra agli altri popoli, e che ogni popolo ha tutte le ragioni di temerla.”

Una luce di fierezza indurì anche lo sguardo di Prussia, i suoi occhi si fecero più accesi, più caldi di vita. Sentì quelle parole entrargli dentro e battere assieme al suo cuore, assieme alla croce di ferro che cadeva sul petto.

“Questa supremazia, tuttavia,” continuò Germania, tornando a passare di fronte a loro, “non ci è stata regalata, non è stata rubata. Ma abbiamo saputo guadagnarla.” Un altro passo, e la sua voce si fece bassa come un eco. “Con sangue, fatica, sofferenze, sacrifici,” inspirò e abbassò le palpebre, “con anni di povertà e ingiustizie durante i quali non abbiamo comunque mai smesso di lottare e dai quali abbiamo saputo rialzarci a testa alta.”

Austria e Ungheria si guardarono. I loro occhi tornarono a ripercorrere gli anni dopo il Primo Conflitto, si fecero più sofferenti, di nuovo distanti come quando li avevano separati. Ungheria lasciò scivolare una mano lungo il fianco, Austria fece lo stesso togliendo la sua da dietro la schiena, e si sfiorarono. Unirono le punte delle dita e le agganciarono fra loro, riavvicinandosi. Quel piccolo e semplice gesto di calore soffiò via l’aria fredda che li aveva fatti rabbrividire.

I passi di Germania tornarono a passare davanti al gruppo. “Non è stata l’avarizia a portarci qui, non è stata la cattiveria, o un qualche desiderio di vendetta.” Li squadrò tutti. Il cielo attorno a lui divenne più scuro, soffiò un alito di vento rauco che fece traballare i sassi fra i loro piedi, e quell’ombra accese i suoi occhi, li fece risplendere come quando si trovava sul campo di battaglia. Bruciarono di vita come quelli di Prussia. “È stata la giustizia.”

Bulgaria fece roteare lo sguardo e contenne uno sbuffo. Romania sollevò un sopracciglio e irrigidì le spalle, lo toccò con il braccio in maniera impercettibile, trasmettendogli una scossa che lo fece tornare a spalle dritte e viso fermo. Se avesse fatto o detto qualche idiozia...

Germania passò oltre. “Se un popolo come il nostro è forte,” continuò, “se un popolo come il nostro è in grado di sottomettere e di prevalere sulle altre nazioni, allora è un suo diritto esercitare questa supremazia. Anzi: è un suo dovere. È dovere di ogni popolo forte mettere la sua potenza a disposizione del mondo, è suo dovere governare con quella stessa potenza che ha saputo coltivare da solo e che ora genera i frutti com’è giusto che sia.”

La bandiera posata fra le sue mani divenne più pesante da sorreggere. Un breve ma intenso tremito attraversò le braccia di Germania, come un sussulto. Un respiro della bandiera stessa trasmesso al suo corpo.

Germania camminò di nuovo davanti alle altre nazioni, lo sguardo fiero e solenne, ma freddo. “Ed è questo che abbiamo dimostrato oggi.” La sua ombra scivolò sugli altri, facendoli sembrare più piccoli. “Abbiamo dimostrato come il mondo è sempre appartenuto al più forte, a colui che è in grado di conquistarlo, a colui che è in grado di reggerne le redini per guidarlo verso il progresso, verso il futuro, verso nuove prospettive. Il mondo appartiene...” Un forte abbaglio d’argento brillò sulla sua croce di ferro, si specchiò nei suoi occhi che tornarono azzurri e limpidi come un cielo di ghiaccio. “A colui che dimostra di meritarselo.”

Anche Prussia socchiuse le palpebre, gli occhi si fecero più affilati, e irrigidì il petto, trattenendo il respiro. Anche la sua croce brillò. Un infuocato occhiolino di complicità.

Un viscido sentimento di disagio scivolò nel cuore di Italia, il muscolo strizzò un battito più doloroso e soffocato che lo fece impallidire. Anche la sua croce ricominciò a pesare, a pulsare di dolore assieme al rilievo della cicatrice che bruciava come se fosse stata ancora aperta e sanguinante.

“Oggi siamo qui non solo perché abbiamo assistito a una nostra vincita,” riprese Germania, “a una nostra conquista, ma anche a una sconfitta.” Sfilò una mano da sotto la bandiera e spalancò il braccio a indicare la città di Atene stesa ai piedi del colle, inghiottita dai loro eserciti che defluivano fra le strade. “Questo è quello che accade a chi si oppone, a chi si ribella, seppur animato da coraggio e da un reale amore per la propria patria.” Il suo sguardo tornò sulle nazioni, senza però nemmeno sfiorare quello di Italia. Trasmise un forte impeto di forza e determinazione che tutti sentirono battere dentro il loro sangue. “E le Potenze dell’Asse non si fermeranno qui.” Germania scosse il capo. “Non smetteranno mai di lottare, e combatteranno fino al loro ultimo respiro.”

Italia tornò a chinare lo sguardo in mezzo ai piedi, non osando incrociare quello di Germania, e si rosicchiò l’unghia dell’indice con piccoli morsi nervosi. Un groviglio di conflitto si annodò nel suo petto, fastidioso come un boccone andato di traverso, buio e pesante come se avesse ingoiato un’amara cucchiaiata di pece. Supremazia del più forte? Sospirò a fondo, abbassò le palpebre, e la sua espressione si fece più triste e abbattuta, accentuata dalle occhiaie scure scavate attorno agli occhi. Ma io ho vinto solo grazie a te, Germania. Solo perché mi sono aggrappato alla tua forza, altrimenti avrei perso. Eppure...

Spostò gli occhi dietro la sua spalla, li posò su Atene vista dall’alto dell’Acropoli, e un altro sbuffo di vento fece dondolare i suoi capelli davanti alle palpebre, appannandogli la vista.

Italia intrecciò le dita alle ciocche e districò la frangia, continuando a contemplare la città. Ora mi ritrovo a vincere, a conquistare un territorio che non merito. Emise un sospiro triste e colpevole. Anche questo è giusto, Germania? Secondo il tuo principio, io non dovrei contare su di te, dovrei sempre e solo cavarmela unicamente con le mie forze per dimostrare di meritarmi il posto in quest’alleanza e in cima a un mondo che altrimenti sarebbe capace di distruggermi. E anche tu ne saresti in grado. Si sfilò le dita dai capelli e toccò la croce di ferro, quel peso che tante volte non era riuscito a sostenere. Davanti agli occhi ricomparvero le immagini di Germania che afferrava la spalla di Grecia, che lo schiacciava contro la parete di roccia, e che gli piantava la canna della pistola contro la nuca. Lo sparo esplose di nuovo nei suoi ricordi, lo colpì con la stessa violenta ondata di terrore che gli aveva raggelato il sangue anche quel giorno. Saresti benissimo in grado di distruggermi, se lo volessi. Avvolse la croce e la chiuse fra le dita. E allora perché mi stai affianco? Perché non mi lasci cadere, io che sono più debole di te e che non merito questa sopravvivenza? È forse... Rivide le mani di Germania coperte di sangue schiacciarsi attorno ai corpi delle armi che sputavano fuoco contro i nemici. Le mani che avevano sconfitto Grecia in quella maniera erano le stesse che accarezzavano Italia prima di addormentarsi e che lo stringevano in quei caldi e avidi abbracci capaci di isolarli dal resto del mondo. Le mani da cui Italia non riusciva a slacciarsi. È forse il lato umano di cui non riesci comunque a sbarazzarti che continua a tenerti legato a un debole come me?

I passi di Germania lo strapparono dai suoi pensieri. “La lotta è il principio primo che governa la vita.” Germania si riavvicinò all’asta della bandiera che ancora sventolava sopra di lui. Si mise ai suoi piedi e afferrò una delle due funi, pronto a calarla. “Vivete per combattere e per guadagnarvi la vostra stessa sopravvivenza.” Guardò di nuovo tutti negli occhi. “Combattete per rimanere vivi.” Strinse le dita, piegò il polso, e abbassò il primo centimetro.

“Fermo.”

Quella voce calma ma dura precipitò nella bolla di silenzio come uno schiocco di fulmine schiantato in mezzo ai loro piedi.

Italia sbiancò, rimase strozzato con il suo stesso fiato, con il battito del cuore che si era stritolato fra le costole. Lui e Romano si girarono per primi – Italia sbatté sulla sua spalla e barcollò – e i loro sguardi volarono sulle sagome appena emerse dalla curva dell’Acropoli, davanti al cielo sfumato di grigio e davanti alla distesa che racchiudeva l’immagine di Atene vista dall’alto.

Le quattro guardie tedesche tennero saldi i fucili contro il petto, compirono gli ultimi passi e si fermarono. Due di loro si spostarono di lato e lasciarono passare una figura zoppicante che camminò comunque a testa alta e a spalle dritte, silenziosa come un’ombra. Il gattino pezzato scrutava la scena stando acciambellato sulla sua spalla, la coda a pendere lungo la sua schiena, e il musetto a sfiorare la sua guancia più pallida e scarna. Le maniche della giacca che cadevano sulle braccia distese lungo i fianchi lasciarono vedere i segni rossi che le manette avevano già scavato sui suoi polsi. Non era incatenato.

Italia rimase a bocca aperta, il fiato in gola, il cuore pietrificato, gli occhi sgranati e gonfi di terrore come se avesse appena visto un fantasma. “Gr...” Si portò una mano alla bocca. Sussurrò il suo nome fra le dita, “Grecia”, e il vento si portò via quella parola come una foglia secca.

Anche Romano impallidì. Nei suoi occhi spalancati si specchiò l’immagine di Grecia appena apparso assieme alle guardie, si fossilizzò fra le pupille sostituendo il ricordo del suo corpo che crollava in mezzo alle rocce, immobile e sanguinante.

Grecia compì un altro piccolo passo, il piede traballò ma la gamba rimase dritta e salda, e sollevò il viso. I capelli scivolati via dagli occhi scoprirono il suo sguardo segnato da dolore e stanchezza, ma ancora vivo.

Bulgaria si sporse scostando la spalla di Romania per avere più spazio, e anche lui sbatté più volte le palpebre. Gli occhi increduli, la voce tremante. “È vivo?”

Romania rimase immobile, la faccia pietrificata in quell’espressione di sconcerto, e scosse più volte il capo. “Io,” balbettò con un filo di voce, “io non lo...”

Grecia compì un altro piccolo passo senza nemmeno guardarli, protetto dalla presenza del gattino pezzato acciambellato sulla sua spalla che teneva le orecchie dritte e la pelliccia gonfia, in allerta.

Austria rimase a sua volta a bocca aperta. Il cuore spremette un battito di paura come era successo alle Termopili. Un anello di confusione stridette attorno alla sua testa. “Non è possibile,” soffiò con un sospiro.

Ungheria si portò una mano alla bocca, si riavvicinò ad Austria e gli sussurrò accanto al viso. “Ma avevi detto che era...”

“Infatti.” Austria strinse i pugni, scosse il capo, una ruga di conflitto e paura gli corrugò la fronte. “Non può essere ancora vivo.”

Grecia sfilò anche davanti agli occhi di Prussia, ma si scambiò un’occhiata congelante solo con Germania. Lo guardò a viso alto come aveva sempre fatto. “Se dovete calarla dall’asta,” disse, “allora lasciate che sia io a farlo.” Si posò la mano sul petto. Una mano bianca e consumata dalle ferite, dai calli, e già mangiata dalla morsa del metallo attorno ai polsi. La mano di un fantasma agganciato alle catene. “Io non ho più alcun potere, Germania,” mormorò Grecia. “Permetti che sia io a raccogliere il simbolo della mia sconfitta. Permettimi di raccogliere la mia dignità.”

Germania fece volare lo sguardo su Prussia. Prussia scosse il capo per riprendersi dal breve stordimento, allontanò gli occhi increduli da Grecia, guardò la bandiera che sventolava ancora sulla cima dell’asta, e li incrociò con quelli di suo fratello. Si strinse nelle spalle, indicò Grecia con un breve e rapido cenno del capo, e sollevò le sopracciglia. Germania annuì, tornò a rivolgersi a Grecia. “Procedi.”

Grecia chiuse gli occhi, il suo corpo irrigidì nonostante il calore del gattino pezzato che lo intiepidiva all’altezza della spalla, e strinse i pugni all’altezza dei fianchi. Riaprì le palpebre, squadrò la sua bandiera con un ultimo sguardo d’addio, e il panno smise subito di sventolare, cadde lungo l’asta come un’ala che smette di battere. Grecia aprì una mano e la tese verso le quattro guardie tedesche che l’avevano accompagnato. Uno di loro riappese il fucile alla spalla, gli si avvicinò, estrasse un pugnale dalla cinta, e glielo posò sul palmo aperto. Grecia camminò fino alla base dell’asta, tese una delle due corde, vi spinse contro la lama seghettata del pugnale, flettendo la linea retta in una forma a punta, diede due forti strattoni, sfilacciandola in un paio di colpi, e la tranciò. La carrucola rullò riavvolgendo la corda. La bandiera cadde, si schiuse raccogliendo una bracciata d’aria, rallentò la discesa sventolando gli angoli, e Grecia aprì le braccia per prenderla al volo. La raccolse fra i gomiti come una sposa, e la bandiera si accasciò come un cadavere, smettendo di sventolare.

Grecia si girò e mantenne lo sguardo alto, anche se ingrigito e appannato. Non abbandonò quella scintilla di orgoglio che brillava nel profondo dei suoi occhi socchiusi e sfocati dal dolore. Avete vinto, Asse. Restrinse le dita sul tessuto della bandiera. Ma non avete vinto me. Riprese il passo e tornò a sfilare davanti agli altri. “Non ti preoccupare,” disse, riferito a Germania. “Me ne torno subito in cella. Sarà la volta buona in cui riesco a farmi una vera dormita da quando è iniziata la guerra.” Lanciò un’ultima occhiata di sbieco, da sopra la spalla. Una fine occhiata di disprezzo. “Ormai hai vinto, Germania. Goditi i frutti della tua vittoria.” Passò davanti a Italia e rivolse anche a lui quel placido e pigro sguardo d’odio. Crudelmente indifferente. “E anche tu, ovviamente.”

Italia sentì quelle parole piantarsi nel cuore come se Grecia avesse usato il pugnale per trapassargli il petto e scavargli fra le costole, invece che per spezzare la fune della bandiera. Scivolò dietro la spalla di Romano stringendo le dita sulla sua manica, e gettò gli occhi in mezzo ai piedi. Tremò e non disse nulla.

Grecia passò in mezzo alle quattro guardie che lo avevano accompagnato, ridiede il pugnale a quello che glielo aveva porto, e fece un cenno con la mano senza voltarsi. “Godetevi il panorama.” Il gattino pezzato girò il musetto, rizzò il pelo, appiattì le orecchie, grugnì un latrato a bocca chiusa, e restrinse gli occhi mostrando anche lui un fitto sguardo di ostilità.

Grecia se ne andò e li lasciò tutti congelati come statue di sale. Bulgaria aveva ancora la bocca aperta. Romania gli posò due dita sotto il mento e gliela richiuse senza staccare gli occhi dal gruppetto che se ne andava.

Germania soppresse un moto di rabbia, simile a quello che gli era bruciato dentro durante la loro ultima occhiata di sfida alle Termopili, prima che gli sparasse. Si girò anche lui verso i suoi ufficiali, passò la bandiera tedesca al primo di loro, e indicò l’asta da cui pendeva la corda tranciata. “Sistematela.” Non perse di vista il profilo di Grecia che si rimpiccioliva allontanandosi da loro.

Dietro di lui, gli ufficiali lavorarono all’asticella e alla bandiera. Sollevarono il suono stridente della carrucola che arrotolava la corda riannodata, e una spazzata di vento soffiò il frush! del panno che si spiegava gettando la sua ombra sul terreno. Germania si girò a guardarla. La sagoma della bandiera si era spalancata davanti al sole, riempiendone la forma e frammentando i raggi che si stendevano lungo il colle. La sua ombra scivolò sopra a Germania e arrivò fino a Grecia che ancora si stava allontanando scortato dalle quattro guardie.

Grecia sentì la sensazione fredda e pesante di quell’ombra cadergli addosso. Esitò, rallentò il passo, e una fitta di dolore gli centrò il cuore come l’esplosione di un proiettile. Si strinse nelle spalle, chiuse la mano contro il petto, come per sradicare quel ramo di sofferenza dalla carne, e trattenne il fiato. Il cuore gli faceva male. Si fece più pesante, il sangue ghiacciò affaticandogli il respiro e facendolo sudare freddo. La voce della sua nazione gridava di dolore dentro di lui. Fu la prima volta in cui una singola lacrima si staccò dalle palpebre e scese a rigargli il viso. Un filo d’argento cucito sul tappeto di sangue che era stato versato durante la guerra.

   
 
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