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Autore: _Pulse_    18/09/2017    2 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Ciao a tutti! :)
Allora, first things first: sono così contenta che la storia vi piaccia! Arsène ha rubato il mio cuore ed ero certa che avrebbe fatto lo stesso col vostro - in fondo è la sua specialità - ma non pensavo a questi livelli 
Perciò vi ringrazio tutti, uno per uno, e spero di farvi divertire fino alla fine!
In questo capitolo parleremo, tra le altre cose, di un vecchio caso irrisolto che coinvolto il Ladro Gentiluomo e la Donna Bionda, ovvero la madre di Geneviève. E chi si interesserà a riprenderlo in mano dopo tutti questi anni? Ma certo, il nostro amato consulente investigativo. Perché? Questo non ve lo anticipo ;)
Vi auguro buona lettura e se avrete voglia e cinque minuti mi farebbe piacere un vostro parere!

Alla prossima!

_Pulse_


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8. The blue diamond


Arsène toccò il bordo della piscina con una mano e poi vi si appoggiò con entrambi i gomiti, fissando il suo fidato collaboratore in piedi davanti a lui, con un asciugamano in una mano e il suo cellulare squillante nell'altra.
«Chi è?», chiese, infastidito dall'interruzione.
«Irene Adler, padrone».
Il ladro alzò gli occhi verso la cupola che illuminava di luce naturale la piscina del Savoy, sgombrata appositamente per lui. Quindi prese l'asciugamano e dopo esserselo passato contro l'orecchio destro si fece dare il cellulare per rispondere.
«La pazienza non è il tuo forte, vero?», esordì stizzito.
«Quanto ti ci vuole, Arsène?».
«Signor Lupin, prego», la corresse. «Solo gli amici mi chiamano Arsène».
«Bene, signor Lupin. Non pensavo che scoprire l'identità della donna di cui Sherlock è innamorato si sarebbe rivelato un problema per te».
«Conosci i miei metodi e conosci Sherlock. Non è facile entrare nel suo cuore, ma ci sto lavorando».
«Dimmi che cosa vuoi per accelerare i tempi».
Arsène fissò allibito il cellulare, poi si portò il microfono alla bocca e gridò come un ragazzino: «Che tu la smetta di chiamarmi!».
«E va bene», rispose mestamente la Adler. «Ma sappi che ti pagherò il doppio, se riuscirai a far sì che Sherlock torni da me strisciando».
Il rumore secco di un frustino pose fine alla comunicazione e Arsène lanciò il cellulare verso il proprio servitore, con una smorfia sul volto.
«L'ho già detto che non riesco a tollerare quella donna?».
«Ripetutamente».
«E pensare che nel mio cuore c'è spazio per tutti!».
Arsène stava per riprendere il proprio allenamento, quando Geneviève venne scortata a bordo piscina da un altro dei suoi uomini.
«Tesoro!», esclamò il Ladro Gentiluomo, con un sorriso allegro. «Iniziavo a sentire terribilmente la tua mancanza».
La ragazzina abbozzò un sorriso imbarazzato e si sedette su una delle eleganti sedie sdraio a bordo piscina.
«Avevi ragione tu», gli disse.
«A proposito di cosa?».
«Molly Hooper. Sherlock è innamorato di lei».
«Beh, i fatti erano chiarissimi: a parte sua madre, la signora Hudson, Irene Adler e una sua amica defunta non ha altri contatti femminili nella sua rubrica. Tuttavia, avevo ancora qualche dubbio. Insomma... ho visto la signorina Hooper e non mi è sembrata nulla di speciale. Ne sei proprio certa, tesoro?».
Geneviève annuì con convinzione. «Ho fatto come mi hai chiesto: ho lasciato delle piccole briciole di pane e Sherlock le ha seguite, finendo proprio al Bart's. Domani saprò se ha invitato Molly allo spettacolo».
«Ottimo».
Arsène rimase appoggiato a bordo piscina, le gambe stese in avanti. Il suo sguardo si era fatto assente e Geneviève guardò l'uomo che solitamente le faceva da baby-sitter, il cui nome le era ancora sconosciuto e pertanto per lei era semplicemente "Baffoni", il quale osò dire: «Non dovrebbe avvisare la Adler, padrone?».
Il Ladro Gentiluomo arricciò il naso. «Nah. Lasciamola ancora un po' nel suo brodo, se lo merita per avermi chiuso il telefono in faccia. E poi...».
«Che cosa?», chiese la figlia, incuriosita.
«Voglio scoprire che cosa c'è sotto. Perché Sherlock ha messo fine a quella loro malsana relazione così, di punto in bianco?».
«Molly sostiene che è successo qualcosa, quasi un mese fa. Da allora Sherlock riesce a malapena a stare nella stessa stanza con lei», disse ancora Geneviève.
«Quasi un mese fa, uhm?». Arsène si passò una mano tra i capelli biondi, tirandoli indietro. «Sì, è un bel rompicapo. Vale la pena di investigare ancora un po'. Chissà, potrebbe anche fruttarci qualcosa».
Quindi si voltò verso la figlia e con entrambe le mani sul bordo vasca si sollevò verso di lei senza alcuna fatica. Rimase in equilibrio su un solo braccio, mostrando le stesse capacità di un acrobata, e le toccò la punta del naso con un dito, un sorriso gioioso sulle labbra.
«Lavoro esemplare, tesoro mio».
Mentre Geneviève cercava di reprimere il rossore, Arsène uscì dalla piscina e si infilò l'accappatoio bianco che l'amico gli aveva porto.
Dirigendosi verso le docce con le infradito ai piedi, esclamò: «Vai a cambiarti, Geneviève. È orario di visita».

***

«Com'è andata al lavoro?», lo accolse Sherlock quando entrò in salotto, sorridendogli persino, con un vassoio di té appena fatto tra le mani.
John si portò le mani sui fianchi, sospettoso. «Non mi chiedi mai com'è andata al lavoro. Stai cercando di essere gentile per evitare di parlare?».
Sherlock, colpito e affondato, lasciò cadere in malomodo il vassoio sul tavolino accanto alla poltrona e poi si avvicinò alla mensola del caminetto, guardando il dottore attraverso lo specchio.
«Sì, tra me e Irene Adler c'era qualcosa», disse senza che gli ponesse alcuna domanda. «Non la chiamerei una relazione, dato che io ho quasi sempre ignorato i suoi messaggi, anche dopo i tuoi rimproveri. Ci incontravamo però, occasionalmente, quando entrambi eravamo liberi ed annoiati».
John si tolse la giacca e si accomodò nella propria poltrona. Gettò un'occhiata al detective, intimandogli di continuare mentre si versava una tazza di té.
Sherlock piegò la bocca in una smorfia e riprese: «Non lo nego, l'attrazione fisica tra noi c'è sempre stata. Il sesso è stato... appagante, molto. C'era una cosa che faceva, in particolare...».
«Okay, meno dettagli», lo interruppe il dottore, imbarazzato.
Il consulente investigativo a quel punto abbozzò un sorriso, come se avesse voluto vedere fino a dove si sarebbe spinta la sua curiosità. Quindi si appollaiò sulla poltrona di pelle nera.
«A parte questo e le nostre intelligenze affini, non avevamo nient'altro in comune. Non poteva funzionare, ne ero consapevole fin dall'inizio».
«Forse lei non la pensava allo stesso modo, visto che ha assunto Arsène Lupin».
«No, ha ammesso tranquillamente di non amarmi quando tre settimane fa le ho detto che non ci saremmo più rivisti. Sono più propenso a credere che l'abbia assunto per quello che mi sono lasciato sfuggire».
«Cioè?».
Sherlock lo guardò severamente, come se trovasse incredibilmente stupido il suo chiedere spiegazioni. O forse aveva già appurato che John sapesse perfettamente ciò che gli passava per la testa ed era infastidito dal fatto che volesse farglielo dire ad alta voce a tutti i costi, ancora una volta.
Alla fine Sherlock sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona, e guardò le braci nel camino spento biascicando: «Una serie di indizi mi hanno fatto dedurre che amo un'altra donna».
«Molly», disse John, annuendo. «Ce ne hai messo di tempo».
Sherlock corrugò la fronte, sinceramente confuso. «Uhm?».
John iniziò a contare sulle dita: «Ti sei rivolto a lei prima di affrontare Moriarty, hai chiesto a lei di farti da assistente quando io non ero disponibile, uno dei tuoi nascondigli è a casa sua... E ti ricordi quanto odiavi vederla al fianco di Tom, la tua brutta copia? Beh, queste sono tutte prove del tuo amore per lei. E il tuo continuo criticarla e sminuirla, come a volerla smantellare pezzo dopo pezzo, era solo il tuo modo contorto per tenerla lontana, per non affezionarti. Eurus, la sua bara e la minaccia della bomba nel suo appartamento, quella dichiarazione... sono state le gocce che hanno fatto traboccare il vaso, non è così?».
«Perché non hai le stesse capacità deduttive durante i casi?». Infastidito, Sherlock deviò il suo sguardo.
Possibile che tutti lo sapessero, tranne lui? Solo pronunciando quelle tre parole ne era venuto a conoscenza, e lo shock era stato tanto che la seconda volta le aveva ripetute più per se stesso che per Molly. E il terrore che aveva provato quando lei non aveva subito ricambiato... Un dolore del genere non avrebbe mai più voluto sperimentarlo, ma lei ci era riuscita.
«Non c'è bisogno di alcuna capacità deduttiva, Sherlock. A te però farebbe bene un corso sulla comprensione delle emozioni umane».
«L'ho detto, John», sussurrò, coprendosi gli occhi con i palmi delle mani, proprio come aveva fatto di fronte al timer che si era fermato due secondi prima della finta detonazione. «Non si può tornare indietro».
«No, puoi solo andare avanti. Ma hai deciso cosa fare, no? Hai lasciato Irene, ora puoi...».
«No!», gridò, alzandosi. «Non capisci, John?! Io la amo!».
«Oh sì, l'ho capito benissimo», lo rassicurò.
«E allora perché sorridi? Non c'è niente da sorridere!».
«Okay... forse ora non sto capendo».
Sherlock si portò le mani tra i capelli, il desiderio di strapparseli uno a uno dalla testa.
«Quante volte ti sei ritrovato nei guai per colpa mia?», gli chiese, sforzandosi per risultare calmo.
«Almeno una volta al giorno, quando vivevamo insieme», rispose il dottore e ascoltandosi riuscì a intravedere una luce in fondo al tunnel. «Oh... Non vuoi che diventi un bersaglio».
«Perdonami, John. Non ho mai voluto che tu lo diventassi, che Mary...». Si portò un pugno alla bocca e deglutì, come a ricacciare giù, nelle viscere della sua anima, l'emozione. «Ma devo proteggere chi ancora posso. Se Molly mi odierà... non correrà alcun pericolo. Specialmente ora, con Arsène e Irene...».
«Dannato idiota».
Sherlock si voltò verso di lui, colpito dal suo tono duro, arrabbiato. E lo trovò così, infatti: coi pugni stretti lungo i fianchi, il volto proteso leggermente in avanti e i muscoli del collo tesi.
«Tu insulti la tua intelligenza ogni volta che pensi che la nostra felicità sia meno importante della nostra sicurezza. Sai perché sono ancora qui, in piedi? Perché un giorno di felicità, un giorno al fianco delle persone a cui si tiene, vale più di mille anni di miseria e solitudine, Sherlock. Chi ama non è la parte perdente, come sosteneva tua sorella. Chi ama è destinato a vincere e così è stato: hai salvato me e hai salvato la bambina sull'aereo, tua sorella. Ora devi salvare te stesso e aprire gli occhi, come ha detto Arsène».
Sherlock, scioccato, non aprì bocca. Il dottore, soddisfatto, si congratulò con se stesso per il discorso e lo lasciò a riflettere.
Si trovava ancora dalla signora Hudson, una ventina di minuti dopo, quando lo sentì scedere dalle scale e poi sbattersi la porta d'ingresso alle spalle.

***

«Gen?».
La ragazzina sbatté le palpebre e tornò a guardare sua madre con un lieve sorriso sulle labbra, cercando di ignorare suo padre al di là del vetro: stava parlando con Baffoni e rideva, come se non si trovasse davanti alla stanza d'ospedale della donna che un tempo aveva amato, con cui aveva concepito una figlia e che ora si stava spegnendo.
«C'è qualcosa che ti preoccupa, non è vero?». Sollevò una mano e le accarezzò il volto. «Puoi parlarmene, sai».
«Mi dispiace», sussurrò, chinando il capo così che i capelli le coprissero gli occhi.
«Per che cosa, amore?».
«Tu hai... hai fatto davvero promettere a papà di non coinvolgermi nei suoi affari?».
La Donna Bionda sospirò, capendo al volo. «Oh, tesoro mio. Vieni qui».
Geneviève posò la testa contro il suo ventre e non riuscì ad arrestare le lacrime che le irritarono le guance.
«È vero, gli ho detto che doveva tenerti al sicuro, che non volevo che facessi la sua stessa vita. Però, se è questo che ti senti di fare, non voglio che tu pensi di avermi delusa. Io per prima sono stata una complice di tuo padre».
«Mi dispiace solo avertene tenuta all'oscuro. Non voglio ci siano segreti tra noi».
«Mai, amore mio», la rassicurò, accarezzandole i capelli.
Il suo sorriso però a poco a poco si spense. Si fece forza per sollevarsi e Geneviève si alzò per sistemarle i cuscini dietro la schiena; la madre ne approfittò per prenderle il volto tra le mani ed incatenare gli occhi nei suoi.
«Ma non aspettarti lo stesso da Arsène Lupin», affermò con veemenza. «Con lui ci saranno sempre dei segreti, che ti piaccia o no. È fatto così, prendere o lasciare». «Ma lui... lui è mio padre», balbettò. «Perché dovrebbe tenere dei segreti con me?».
Sua madre sorrise mestamente. «Tuo padre è un uomo buono ed ha una mente brillante. È bravissimo a tenere in piedi tutte le sue false identità e ad elaborare piani intricatissimi, ma a volte smette di vedere ciò che ha sotto il naso. Quando si fissa su un obiettivo utilizzerà ogni mezzo a sua disposizione per raggiungerlo».
Geneviève sentiva il cuore pulsarle nelle orecchie, mentre una pesante coperta gelata si posava sulle sue spalle. Il sospetto. La paura di non potersi fidare dell'unica persona al mondo che presto o tardi avrebbe avuto come famiglia.
«Lui ti ha mai... ti ha mai usata per uno dei suoi obiettivi?».
La Donna Bionda strinse il pugno, nascondendo il diamante azzurro che lei e suo padre avevano rubato ad un vecchio per rivenderlo ad un collezionista e che poi, quando Arsène era ricomparso nelle loro vite, era tornato al suo dito in memoria del tempo trascorso insieme.
«Sono stanca, amore mio. Ci vediamo domani alla stessa ora?».
Geneviève si alzò, cercando di reprimere il tremore. Non le aveva appena detto che non ci sarebbero mai stati segreti tra loro?
Si fece forza e la baciò sulla guancia, poi si diresse verso la porta. Aveva già la mano sulla maniglia, quando la madre le disse: «Pensa sempre con la tua testa, Gen. E non fare mai nulla di cui potresti pentirti».
La ragazzina annuì ed abbozzò un sorriso, poi si decise ad uscire e si ritrovò al cospetto di suo padre, i cui occhi verdi brillavano di gioia e acume.
«Sei pronta, tesoro? Pensavo che potremmo andare a cena fuori, questa sera».
Geneviève si strinse le braccia al petto e deviò il suo sguardo, a disagio. «Preferisco... preferisco tornare in hotel e andare subito a dormire, se non ti dispiace».
Arsène sembrò davvero deluso dalla sua risposta, ma solo per i primi tre secondi, trascorsi i quali, infatti, scrollò le spalle e picchiò una mano sulla schiena di Baffoni, esclamando: «Oh beh, andremo noi due allora!».
«Come vuole, padrone».
Geneviève, suo padre e Baffoni salirono sull'auto che li riportò al Savoy, scortati come al solito da quattro uomini della sicurezza. Lei mantenne la parola e si rifugiò subito in camera, dove accese l'iPod e si tartassò di musica heavy metal. Qualsiasi cosa, pur di riempire il vuoto lasciato dal silenzio di sua madre.
Ad un tratto non riuscì più a starsene con le mani in mano: doveva andare a fondo di quella faccenda.
Sua madre non gliene avrebbe parlato, quindi doveva trovare un modo per scoprire che cosa fosse successo tra lei e suo padre di tanto grave da giustificare il suo ultimo monito. Pensò di andare a casa, a Brixton, a cercare tra i diari di sua madre, ma dubitava avesse tenuto a portata di mano (e di poliziotto) dettagli così sensibili riguardo alla sua complicità con Arsène Lupin.
Di chiedere a suo padre non ne aveva la minima intenzione: non voleva che se la prendesse con sua madre e poi temeva che dimostrando dei sospetti sulla sua moralità lo avrebbe allontanato. Quella era proprio l'ultima cosa che voleva e sperava proprio di trovare il modo di dimostrare che aveva interpretato male le parole di sua madre e che Arsène Lupin non fosse altro che il Ladro Gentiluomo di cui si era innamorata da bambina sentendone le storie.
C'era un'unica persona che poteva aiutarla a riabilitare il suo nome e quella persona era il suo più grande rivale di nazionalità inglese: Sherlock Holmes.
Scelse un outfit total black e preparò uno zainetto con tutto ciò che avrebbe potuto servirle, compreso un cambio di vestiti e il proprio pugnale; poi si infilò il cappellino nero e si preparò a saltare sul balcone sottostante come aveva fatto la prima volta che era sfuggita alla sicurezza, ma un trambusto improvviso al piano di sopra, dove si trovava la Royal Suite di suo padre, la fece scendere dal cornicione.
Si spogliò velocemente, si infilò l'accappatoio in dotazione e si raccolse i capelli col fermaglio-pugnale, poi corse fuori dalla stanza. La guardia davanti alla sua porta provò a fermarla, ma lei gridò di toglierle le mani di dosso e questa obbedì. In fondo era pur sempre una Lupin.
La seguì fino alla Royal Suite, dove la sicurezza aveva sorpreso proprio Sherlock Holmes mentre tentava di intrufolarsi nel covo extra lusso del loro capo fingendosi uno dei maggiordomi privati i quali, inclusi nel servizio, si davano il cambio per essere sempre a disposizione, ventiquattr'ore su ventiquattro, dell'illustre ospite.
Di sicuro ci aveva messo dell'impegno - si era truccato con parrucca e baffi fulvi, aveva rubato una divisa, un carrello e dello spumante pregiato - ma non era stato abbastanza. D'altronde non aveva idea che tra i compiti della sicurezza ci fosse quello di fare sempre un esame approfondito del volto dei pochi privilegiati che avevano il permesso di entrare nelle stanze di Arsène Lupin.
Una volta smascherato, il detective aveva provato ad entrare comunque, usando la forza quella volta, ma era caduto in trappola, cinque contro uno, e ora si trovava con un occhio pesto e del sangue che gli colava dal naso, legato ed imbavagliato ad una delle dodici sedie del tavolo da pranzo.
Vedendolo in quelle condizioni, Geneviève sentì il cuore salirle in gola.
«Non osare!», gridò, trucidando con gli occhi il gorilla che le si era piazzato davanti per impedirle di avvicinarsi ulteriormente al detective.
Era così arrabbiata per quello che gli avevano fatto! Lo era in un modo che non riteneva possibile. Perché avrebbe dovuto importarle? Eppure eccola lì, a sfruttare tutta l'influenza che il legame di sangue con Arsène Lupin le trasmetteva.
«Stavamo per chiamare il capo, signorina», spiegò la guardia, in francese e con una voce da topino.
«No, non disturbatelo. Ci penso io a lui».
«Ne è sicura, sign-?».
Geneviève non lo lasciò nemmeno finire e spingendolo da parte entrò nella sala da pranzo. Scrutò l'ambiente e realizzò amaramente che a parte la porta non avevano altre vie di fuga. Gli uomini di suo padre, nonostante i muscoli e l'aspetto rozzo, non erano affatto stupidi: avevano scelto di mettere Sherlock nell'unica stanza senza finestre.
«Lasciateci», esclamò ad un tratto, ferale.
«Signorina, non credo che sia...».
Geneviève si voltò di scatto verso l'uomo, lo stesso che le aveva ostruito l'ingresso, e lo fissò in cagnesco. «Come ti chiami?».
«Ernest».
Un ghigno le arricciò gli angoli della bocca, mentre con la voce a singhiozzo recitò: «Papino, Ernest ha cercato di farmi del male mentre tu non c'eri! Ho avuto tanta paura!».
Il bestione arretrò, il volto pallido come un lenzuolo, e fece segno ai suoi compari di uscire. Una volta chiusa la porta, la ragazzina sospirò e raggiunse finalmente il detective.
Si chinò su di lui sentendo il cuore batterle forte nel petto a causa dei suoi occhi di ghiaccio che la stavano studiando con attenzione, circospetti e al contempo impressionati. Ignorandoli, gli tolse il bavaglio perché potesse parlare.
«Avevo tutto sotto controllo», esordì con tono indispettito.
Geneviève avrebbe voluto portarsi una mano sul viso, ma si limitò a sussurrare: «Senti, ho bisogno del tuo aiuto. Che ne dici se facciamo uno scambio? Io ti faccio uscire di qui prima che torni mio padre e tu...».
«No».
La ragazzina, che si era già portata la mano tra i capelli per prendere il fermaglio, divenne una statua di sale. «Come hai detto, scusa?».
«Ho detto no», ripeté Sherlock, irremovibile. «Non mi estorcerai alcun favore».
Geneviève rimase a lungo in silenzio, a riflettere sulla prossima mossa. Se stava imparando a conoscere Sherlock Holmes, quello che aveva voluto sottintendere con quella frase era che l'avrebbe aiutata comunque, se l'avesse trovata la cosa giusta da fare. E questo, incredibilmente, glielo fece piacere ancora di più.
Si morse un sorriso e premette il rubino del fermaglio, rivelando la lama luccicante del pugnale nascosto.
«Vuoi che ti spieghi il piano?», gli domandò, mentre tagliava lo scotch con cui l'avevano legato alla sedia.
«Non serve. Tu hai una scusa abbastanza convincente da usare quando Arsène ti chiederà il motivo per cui mi hai liberato?».
Geneviève, accucciata accanto alla sedia, dovette ammettere che non ci aveva pensato. Immaginava che si sarebbe giustificata dicendo che l'aveva colpita e le aveva rubato il fermaglio, ma il modo in cui lo avevano legato - il busto contro lo schienale e i polsi e le caviglie alle gambe della sedia - rendeva impossibile la sua bugia. Arsène l'avrebbe scoperta in un attimo.
«Mi verrà in mente qualcosa», biascicò pur di non dover ammettere la propria mancanza.
Quando Sherlock fu libero, le domandò con gli occhi se fosse pronta. Geneviève annuì con un cenno del capo e gli consegnò il fermaglio, poi si voltò.
«Tra mezz'ora al Waterloo Bridge?», gli chiese, sentendo il calore del suo corpo alle spalle. Il suo profumo era molto diverso da quello di suo padre, tanto inebriante da lasciarla stordita; Sherlock Holmes sapeva di elettricità.
«Va bene».
Il detective l'avvicinò di più a sé e senza alcun preavviso le strinse un braccio intorno al collo. Il fiato le venne a mancare e il panico le fece portare le mani sul suo gomito, ma Sherlock si chinò sul suo orecchio e sussurrò: «Perdonami, ma dovrà sembrare realistico. Ora urla».
Geneviève obbedì ed  immediatamente tutte le guardie fecero irruzione nella sala, scoprendo che Sherlock Holmes aveva preso in ostaggio Geneviève Lupin.
«Oh, salve!», salutò il detective, con un'espressione folle sul viso. «Scusatemi, ma la sedia iniziava a risultare scomoda».
«La lasci andare», lo minacciò uno degli uomini, con un forte accento francese, puntandogli contro la pistola.
«Oppure che cosa? Mi sparerà, rischiando di colpire la sola e unica figlia del vostro capo? Non ne sarebbe contento».
«Ti prego, non farmi del male», soffiò Genevieve, guardando la punta del sottile pugnale con la coda dell'occhio.
«Non ti preoccupare, non ho alcuna intenzione di sfregiare il tuo bel visino. Però, se la tua scorta non mi lascia andare...».
La ragazzina chiuse gli occhi, riuscendo persino a farsi scivolare una lacrima sul volto. «Fate come vuole», mormorò tremando. «È uno psicopatico».
«Sociopatico iperattivo», la corresse e Geneviève dovette serrare i denti per non scoppiare a ridere.
Gli uomini della sicurezza, non vedendo altre alternative, abbassarono le pistole ed arretrarono fino a ritrovarsi nel corridoio che attraversava tutta la Royal Suite, collegando ogni stanza all'altra. Sherlock procedette con calma, tenendo Geneviève sempre davanti a sè. Camminando all'indietro, raggiunse la porta e l'aprì per controllare che non ci fossero altri uomini. Una volta al sicuro lasciò il fermaglio e spinse in avanti la ragazzina, facendola cadere sul pavimento, per poi correre via.
Quattro uomini si gettarono all'inseguimento, mentre gli altri due si sarebbero presi cura di Geneviève, la quale era rimasta a terra, una mano sul collo dolorante e una sulla bocca per reprimere le risate. In quel modo, il tremore delle sue spalle sembrava dovuto al pianto.

***

Geneviève era una continua sorpresa per Sherlock e forse era per questo che l'apprezzava tanto: con lei non rischiava di annoiarsi.
Dall'unione dei geni di Arsène Lupin e della sorella di Mary era uscito solo il meglio, rendendo quella ragazzina non solo intelligente e senza paura, ma anche sensibile e divertente. Guardandola, Sherlock non poteva fare a meno di provare una specie di gelosia al pensiero che statisticamente lui non avrebbe mai provato l'orgoglio che doveva provare Arsène nell'avere una tale progenie.
Quasi sicuramente, lui non avrebbe avuto alcuna progenie. Non sarebbe mai stato in grado di prendersi cura e di crescere un altro essere umano, lui che a stento si ricordava di dover mangiare quando era assorbito da un caso. Che razza di modello sarebbe stato?
«A che cosa stai pensando?».
Sherlock smise di seguire il filo dei propri pensieri e si voltò verso una Geneviève vestita interamente di nero: cappellino, giacca di pelle, felpa, jeans e anfibi. In tutta quell'oscurità, spiccavano le sue guance rosse per il freddo pungente e i suoi capelli biondi, ondulati sulle spalle.
«Al mio lascito», rispose, senza sapere bene perché.
Era vero che si trattava della nipote di Mary e che iniziava a piacergli, ma non era ancora riuscito a stabilire con precisione quanto fosse dedita al padre e se poteva fidarsi di lei, specie dopo il suo ultimo tiro da Cupido.
Geneviève si appoggiò alle transenne del ponte e guardò lo skyline notturno di Londra: dalla loro posizione spiccavano la St. Paul's Cathedral, la Tower 42 e il Gherkin.
«Che si fottano», mormorò con un profondo dolore negli occhi. «I lasciti sono come incudini. Perché una persona dovrebbe lasciare ciò che è stata ad un'altra? Perché costringerla a seguire le sue orme, invece di lasciarla diventare ciò che vuole essere?».
«E tu che cosa vuoi essere?».
La ragazzina si sollevò e strinse le mani intorno alla ringhiera, guardando l'acqua scura che turbinava sotto il Waterloo Bridge. Indossava un paio di guanti senza dita e Sherlock ne fu distratto: qual era la loro utilità? Tenere al caldo parte della mano, rendere insensibili le dita? Non li aveva mai sopportati.
«Non lo so più», rispose alla fine, rivolgendogli un sorriso umido di lacrime. «Hai presente quello che si dice sull'incontrare i propri idoli? Si rimarrà inevitabilmente delusi, perché le aspettative che ci siamo fatti su di loro sono troppo alte».
Il detective la fissò intensamente, colpito dal suo ragionamento e dai suoi occhi, tanto forti e tanto fragili allo stesso tempo. Anche quelli di Molly erano così.
«Mia madre non mi ha mai nascosto chi fosse mio padre e io sono cresciuta con le sue storie. Tutti i giorni correvo all'edicola in paese, nella speranza di leggere l'ultimo strabiliante furto del Ladro Gentiluomo. Ero così orgogliosa di lui... eppure non potevo parlarne mai con nessuno, perché mia madre mi aveva fatto promettere di mantenere il segreto. Diceva che non ne sarebbe venuto nulla di buono. Una sola volta disubbidii: alcuni miei compagni di classe si stavano vantando dei loro papà, ricchi e di successo, e prendevano in giro quelli degli altri. Io non ero stata presa di mira, ma decisi comunque di intervenire. Mi dissero che non avevo voce in capitolo, dato che non avevo un padre, ed io esplosi... Gridai che mio padre era Arsène Lupin e che se solo avesse voluto avrebbe potuto dare a tutti i loro papà una bella lezione. Ovviamente nessuno mi credette, anzi... divenni lo zimbello della classe, la vittima preferita dei bulletti. Persino i compagni che avevo cercato di difendere ridevano di me, affermando che mia madre si era inventata tutto solo per evitare di dirmi la verità, ovvero che a mio padre non era mai importato nulla di noi. Il pettegolezzo raggiunse persino le orecchie degli insegnanti, ma non dissero nulla in merito: pensavano fosse tutto frutto della fantasia di una ragazzina orfana di padre. Furono costretti ad intervenire quando un giorno, stanca di subire, decisi di sgattaiolare via dalla lezione di educazione fisica per introdurmi negli spogliatoi e prendere gli zaini di tutti quelli che mi avevano dato fastidio. Il mio unico sbaglio fu quello di firmare il colpo, lasciando un bigliettino con le iniziali G.L.».
«Geneviève Lupin», disse Sherlock, sfruttando la pausa che si era presa dopo quel flusso inarrestabile di parole, un fiume in piena.
Riusciva ad immaginarsela perfettamente mentre cercava di imitare suo padre.
La ragazzina abbassò di nuovo lo sguardo verso le torbide acque del fiume e diede un calcetto alla ringhiera.
«I professori convocarono mia madre per discutere della mia punizione e le dissero che era colpa sua se si era arrivati a tanto. L'accusarono di avermi raccontato un sacco di fandonie e io stessa iniziai a dubitare delle sue parole. In fondo non mi aveva mai fornito alcuna prova che mio padre fosse realmente Arsène Lupin. Quando glielo confessai, mia madre non ne fu sorpresa, ma mi disse anche che non aveva prove. Dovevo decidere se crederle o meno e io... io decisi di crederle. Io volevo essere la figlia di Arsène Lupin, più di ogni altra cosa».
Sherlock si alzò dalla panchina su cui era rimasto ad osservarla durante tutto il suo racconto e l'affiancò, infilandosi le mani nelle tasche del cappotto.
«E adesso?», le chiese con gentilezza, gli occhi puntati verso lo skyline. «Adesso che l'hai conosciuto cos'è cambiato?».
«Non ne sono sicura ancora. È per via di una cosa che mi ha detto mia madre, oggi pomeriggio».
Lo sguardo di Sherlock si fece ancora più attento. Eccola, l'occasione che aspettava. Il filo che l'avrebbe portato alla cattura di Arsène Lupin.
«Di che si tratta?».
Geneviève però si nascose dietro una corazza fin troppo familiare: raddrizzò le spalle e sbatté le ciglia perché le lacrime sparissero, la sua espressione tornò fiera e decisa, facendola sembrare molto più grande di ciò che era.
«Il diamante azzurro», esclamò. «Mia madre non mi ha mai raccontato nei dettagli quel caso e i giornali, in particolare L'Ècho de France, gli dedicarono appena un paragrafo. Quasi come se...».
«Come se fosse stato comprato il loro silenzio», concluse per lei Sherlock. Sì, era proprio il modo di fare di Arsène Lupin. Ma che cosa valeva tanto disturbo?
«Ho bisogno di sapere come sono andate veramente le cose», decretò Geneviève. «Mi aiuterai?».
Il detective ricambiò il suo sguardo fino a quando non fu certo che con o senza il suo aiuto avrebbe indagato per scoprire la verità.
Le avvolse improvvisamente un braccio intorno alle spalle e tornando verso il Victoria Embankment affermò con un sorrisino sulle labbra: «Risolvere i misteri è il mio lavoro».

***

«Padrone, abbiamo un problema».
Arsène mosse una mano nella sua direzione, profondamente concentrato sulla donna seduta dall'altra parte del bancone del pub, sola e con gli occhi tristi fissi sulla pinta di birra che aveva quasi finito.
«Si tratta di Geneviève».
A quelle parole il Ladro Gentiluomo chiuse gli occhi e sospirò pazientemente, girandosi verso l'amico per prendere il cellulare che gli stava porgendo. Se lo portò all'orecchio e diede le spalle al bancone, il volto contratto in un'espressione stizzita.
«Che cosa c'è?», ringhiò. «Sapete che non voglio distrazioni mentre lavoro».
«Signore, Sherlock Holmes ha provato ad introdursi nelle sue stanze. L'abbiamo catturato, ma poi...».
«Poi cosa?».
«Sua figlia ha insistito per rimanere da sola con lui, signore, e l'inglese ne ha approfittato per liberarsi, prenderla in ostaggio e scappare».
«Geneviève sta bene?».
«Nemmeno un graffio, signore. Ora si trova nella sua stanza».
«Aspetta in linea».
Fece segno all'amico di tirare fuori il suo tablet dalla borsa e col cellulare incastrato tra la spalla e l'orecchio lo accese per collegarsi alle telecamere che aveva installato nella sua suite dopo la sua prima fuga. Si era sentito molto a disagio al pensiero di dover spiare la sua stessa figlia, ma iniziava a credere che avesse avuto l'idea giusta.
La camera era buia, il letto intoccato, e in nessuna delle quattro angolazioni si vedeva Geneviève.
Con enorme disappunto, disse al capo della sua scorta: «No, idiota, non c'è».
«Che cosa? Ma...».
«Mi state solo facendo perdere tempo», lo interruppe, per poi terminare bruscamente la comunicazione e lanciare il cellulare verso il partner.
Quindi prese un sorso del Martini che si era fatto servire e passandosi la lingua tra le labbra si rimirò grazie alla fotocamera interna del tablet: i capelli biondo platino non erano tirati all'indietro, bensì con la riga centrale ed ondulati sopra le orecchie; gli occhi smeraldo erano schermati da un paio di finti occhiali da vista dalla montatura spessa ma elegante, firmati Ray-Ban. Come stile, invece, aveva scelto il casual chic: pantaloni cachi, maglietta bianca e giacca di velluto blu con delle toppe marroni sui gomiti.
«Bene, sono pronto», esclamò porgendo il tablet all'amico. Quindi prese di nuovo il bicchiere di Martini e lo finì tutto d'un fiato.
«È giunto il momento di conoscere la famosa Molly Hooper».

***

«Non è un po' tardi per cenare, ragazzo?».
«Cenare? Chi ha detto che voglio cenare?».
Ganimard si guardò intorno. «Per quale motivo mi avresti chiesto di incontrarti in un ristorante, altrimenti?».
«Angelo, il proprietario, è un mio amico», spiegò Sherlock, portandosi le mani sotto il mento. «Posso stare qui e non mangiare nulla. Ma se lei vuole ordinare qualcosa, faccia pure».
L'ispettore francese ordinò un piatto di spaghetti con le polpette e il detective alternò lo sguardo su di lui e sulle spalle sottili della ragazza che gli dava la schiena, seduta al tavolo davanti al loro.
Aveva raccolto i capelli biondi sotto il cappellino nero e aveva ordinato del pesce fritto, che stava spiluccanto con il cellulare davanti al naso come tutte le normali teenager, tuttavia saperla così vicina all'uomo che avrebbe dato di tutto per catturarne il padre lo rendeva inquieto, preoccupato che Justin potesse fiutare l'odore di Lupin e la trascinasse via con sè.
Ancora una volta, l'apprensione che provava per quella ragazzina scatenò in lui sensazioni contrastanti.
«Allora, perché volevi vedermi?», domandò ad un tratto Ganimard, stufo del suo silenzio.
Geneviève voltò un poco il capo verso la spalla, in ascolto.
«L'altro giorno ha accennato alla Donna Bionda e nel documentarmi ho notato che il caso del diamante azzurro non è stato considerato molto dalla stampa. Come mai? Lupin adora vantarsi delle proprie imprese!».
Ganimard si pulì la bocca, all'improvviso senza più appetito. «Non quando ci scappa il morto, a quanto pare».
Sia Sherlock che Geneviève si irrigidirono, per nulla preparati ad una risposta del genere.
«Sta dicendo che Lupin si è macchiato di omicidio, Ganimard?».
«Ma no, no. La sua morale glielo impedirebbe, lo sai perfettamente. Ha sempre ripudiato la violenza e i casi in cui l'ha usata - sempre a difesa dei suoi princìpi - si contano su una mano. I membri della sua banda, però...».
Sherlock si portò distrattamente una mano sul naso, ancora pulsante e su cui sarebbe comparso un bel livido per via del pugno ricevuto.
«Mi racconti tutto dall'inizio».
L'ispettore sospirò e si addossò contro lo schienale della sedia, la mano destra sul pacchetto di sigarette che aveva posato sul tavolo.
«Possiamo uscire?», gli chiese mentre Sherlock, già un passo avanti, rispondeva con un secco «No».
«L'ex ambasciatore Hautrec si era trasferito a casa di suo fratello Charles da sei mesi, a causa delle sue precarie condizioni di salute, quando venne trovato morto nella sua stanza. Il giorno era trascorso nella solita routine. Non c'era nulla che facesse presagire la tragedia. Ad ogni modo, devi sapere che per quanto gli volesse bene, Charles non gradiva occuparsi di persona di tutte le necessità del fratello - non ne avrebbe nemmeno avuto il tempo, essendo ancora attivo in politica - perciò aveva assunto un'infermiera privata dal curriculum esemplare, di nome Antoniette Bréhat. Si fermava a dormire nella stanza accanto a quella del vecchio Hautrec cinque sere a settimana, perciò era diventata una di famiglia. Nessuno sospettava di lei».
«Nessuno tranne lei, Ganimard», intervenne Sherlock.
«Ho semplicemente prestato attenzione alle prove, ragazzo».
Il detective gli fece segno di continuare col racconto e l'ispettore obbedì.
«Quella notte, intorno alle tre, Charles venne svegliato da un lungo trillo: il campanello delle emergenze che aveva fatto installare nella sua camera, identico a quello che c'era nella stanza della signorina Antoniette. Era raro che suo fratello lo chiamasse, specialmente se era di turno l'infermiera. Si disse che forse si era semplicemente confuso, al buio, e fece per tornare a dormire, ma il dubbio lo assalì e andò a controllare comunque. Passò davanti alla camera dell'infermiera e la trovò vuota, il letto intonso. Allora corse dal fratello e come ho anticipato prima lo trovò morto, steso ai piedi del letto e con una ferita al collo, l'arma del delitto - un tagliacarte ricevuto come regalo di pensionamento - accanto a lui. Secondo il racconto di Charles, c'era anche un fazzoletto macchiato di sangue sul comodino, vicino ai pulsanti di emergenza».
Sherlock assottigliò gli occhi. «Intende forse dire che non venne ritrovato dalla scientifica?».
Ganimard sogghignò ed annuì con un cenno del capo. «E non solo quello».
«Non capisco».
Quelle due parole aumentarono la sua ilarità, tanto che scoppiò in una risata rauca che ben presto, a causa del vizio del fumo, si trasformò in un attacco di tosse. I suoi occhi arrossati erano lucidi di lacrime.
«Charles si precipitò al telefono fisso per chiamare un'ambulanza e la polizia, ma la linea era stata tranciata. Allora andò a recuperare il cellulare in camera sua, ma anche quello era stato disabilitato. La scientifica, successivamente, avrebbe trovato diversi disturbatori di segnale disposti in vari punti della villa, piazzati in via preventiva. Ora, cos'ha fatto il nostro povero Charles?».
Sherlock guardò la porta del ristorante, ma ciò che vide fu il fratello dell'ex ambasciatore, pallido e scioccato per la terribile scoperta, avanzare verso l'ingresso col cellulare sollevato. Una volta in giardino, il segnale tornò e con estremo sollievo poté chiamare aiuto.
Più quella visione proseguiva, più le parole e il divertimento di Ganimard trovavano finalmente un senso.
«È stato mandato fuori», mormorò, posando di nuovo gli occhi in quelli del francese. «Perché era lì che lo volevano mentre la scena del crimine veniva ripulita da ogni prova, ogni indizio conducibile all'assassino».
Ganimard incrociò le braccia al petto, soddisfatto. «Proprio così. La porta si chiuse alle spalle di Charles e lui, sprovvisto di chiavi, non riuscì a rientrare fino a quando non arrivò la polizia. A quel punto l'unica prova dell'omicidio era il morto, sistemato sotto le coperte, con le mani incrociate sul petto. Tutto il resto - l'arma, il fazzoletto, i segni di colluttazione - era sparito. Capisci perché sospettai immediatamente di Lupin e della Donna Bionda?».
Sherlock si portò le dita alla bocca e con gli occhi fissi oltre le spalle di Ganimard mormorò: «Antoniette Bréhat. Caso vuole che fosse bionda, suppongo».
Era una tortura per lui non poter vedere il volto di Geneviève, ma dal modo in cui aveva contratto i muscoli del collo e delle spalle capì che il racconto di Ganimard stava purtroppo dando prove a sostegno dei suoi sospetti.
«Ne ero sicuro allora e ne sono sicuro adesso: quella donna era una complice di Lupin, la quale, spacciandosi per infermiera, aveva il compito di rubare al vecchio Hautrec l'anello con il diamante azzurro», affermò Ganimard, burbero. «Il diamante però era ancora lì, alla mano della vittima, e per questo nessuno mi credette. La mia reputazione si stava già sfasciando: ero l'ispettore che vedeva Lupin ovunque. Nemmeno le prove che misi loro sotto il naso riuscirono a convincerli».
«Sentiamo», lo invitò Sherlock, chiudendo gli occhi per proiettarsi in Francia, in quella villa di campagna, in quella stanza da letto.
«Primo: Charles affermò che ogni oggetto era esattamente dove doveva essere, perciò è chiaro che solo una persona che conosceva a menadito quella stanza poteva risistemare tutto in modo così preciso».
«Chiaro».
«Secondo: il pulsante di emergenza. Charles era convinto che fosse stato il fratello a chiamarlo, ma quando avrebbe suonato? Dopo la lotta, prima di morire? No, perché Charles l'aveva trovato ai piedi del letto, ben lontano dal comodino. Durante la lotta? Anche questo impossibile, perché il trillo era stato lungo, continuo, e il suo aggressore non gli avrebbe mai permesso di chiamare aiuto in quel modo. Allora prima, quando aveva capito che sarebbe stato aggredito? Nemmeno, perché dalle ricostruzioni si appurò che erano trascorsi tre minuti, non di più, dalla chiamata al ritrovamento del corpo. Un tempo troppo limitato per la lotta, l'assassinio e la fuga del colpevole, concordi con me?».
«Io avrei potuto farlo», rispose tranquillo il consulente investigativo, senza aprire gli occhi.
Si perse così l'espressione di rimprovero di Ganimard, il quale concluse: «Il pulsante di emergenza è stato premuto dall'assassina: la Donna Bionda, la complice di Arsène Lupin. Non so per quale motivo, ma non può essere che così».
Sherlock era d'accordo con lui, ma il tremore delle spalle di Geneviève gli fece fare qualcosa di più unico che raro: dubitare davanti ad un buon ragionamento.
«Senza prove fisiche schiaccianti...», disse incerto, sentendosi sull'orlo di un precipizio. Un altro passo e il grande detective sarebbe diventato un uomo comune, un uomo che davanti ai fatti preferiva una bugia, una speranza.
«Ce l'avevo. Sparì misteriosamente dal laboratorio - senza alcuna sorpresa da parte mia - ma ce l'avevo: dei sottili capelli biondi, nella mano di Hautrec. Deve averglieli strappati durante la colluttazione».
Sherlock sospirò, salvo e con entrambi i piedi sul terreno. Geneviève però, dall'altra parte del burrone, cadde. Il detective avrebbe voluto stendere la mano, afferrarla per il polso e stringerla a sé, ma con Ganimard che lo guardava...
La ragazzina si alzò di scatto dal tavolo, urtando persino la sedia dell'ispettore francese, e col capo rivolto verso il basso corse verso i bagni, dall'altra parte del locale. Justin aveva avuto l'istinto di girarsi per dirle di stare attenta, ma Sherlock non poteva permettere che la vedesse, perciò si era sollevato a sua volta per guardarlo negli occhi ad una distanza quasi nulla, tanto che i loro nasi si sfiorarono.
«Andiamo a fumare».
L'ispettore non se lo fece ripetere due volte e si portò una sigaretta alla bocca ancor prima di uscire dal ristorante. Appena fuori, l'accese ed aspirò avidamente, chiudendo gli occhi al piacere delle nicotina che gli entrava in circolo.
Sherlock rifiutò quella che gli venne offerta, impegnato com'era a risolvere l'enigma della Donna Bionda. Era a buon punto, anche se alcuni dettagli erano ancora oscuri.
«L'anello. Che ne è stato dell'anello?», chiese ad un tratto, con le mani infossate nelle tasche del cappotto.
«Léonce Hautrec, il nipote, l'ha messo all'asta», rispose Ganimard, soffiando il fumo verso il cielo scuro. «Ed è stato allora che la Donna Bionda è ricomparsa. Io ero lì, casomai Lupin decidesse di colpire in quel momento, e ho assistito in prima persona alla battaglia tra la signora Crozon, collezionista, e il signor Herschmann, milionario. Si sono raggiunte cifre astronomiche, ma diciamocela tutta... era già scritto che il diamante sarebbe finito nelle mani di quest'ultimo. Ma con Lupin il mondo va al contrario, non è vero?».
«La Crozon si aggiudicò il diamante? Come?».
«Un sms. Herschmann ricevette un sms che lo distrasse, o meglio, lo spaventò».
«Cosa c'era scritto?».
«"Il diamante azzurro porta disgrazia. Si ricordi del vecchio Hautrec". Per nulla velata, come minaccia. Comunque sia, quando il martello cadde e il diamante fu della signora Crozon, una donna si è alzata all'improvviso e se n'è andata, nonostante l'asta non fosse conclusa. L'ho vista solo di sfuggita, ma ancora una volta ero sicuro che si trattasse della Donna Bionda».
«È più che probabile. Ma perché spaventare Herschmann?».
«Perché una volta nel suo caveau sarebbe stato difficile rubare il diamante. Molto più semplice introdursi nella villa della Crozon, specialmente se invitati. Accadde l'estate stessa, ancora la Donna Bionda. Si faceva chiamare signora Réal e divenne amica della Crozon, un'amica così fidata che poté ammirare da vicino la sua collezione di diamanti e gemme preziose. Ovviamente alla prima occasione il diamante azzurro scomparve insieme alla signora Réal. Durante le perquisizioni venne ritrovato nel beauty case di un altro ospite della signora Crozon, un certo Bleichen. Un trucco per sviare le indagini, dato che si trattava di un falso».
Sherlock era a tanto così dalla soluzione, ma perse il filo quando scorse Geneviève sbucare dal vicolo ad una ventina di metri dall'ingresso del ristorante. Doveva essere uscita dalla stretta finestra del bagno. Una continua sorpresa.
Lei si infilò le cuffiette nelle orecchie, poi strinse le mani intorno alle fibbie del suo zainetto e si incamminò nella direzione opposta.
«Pensavo di averla in pugno quando scoprimmo un traffico clandestino di diamanti, ma Lupin ebbe la cortesia di mandarmi un'email dicendomi di non perdere più tempo con la signora Rèal che interrogavo senza successo da due giorni: non era la sua complice, ma la persona a cui si erano ispirati quando avevano dovuto scegliere l'ultima identità della Donna Bionda. Niente di più semplice per cogliermi in fallo e farsi una risata alle mie spalle».
Sherlock abbozzò un sorriso e Ganimard si offese, giustamente. Gettò il mozzicone a terra - non era rimasto altro che il filtro - e per abitudine lo schiacciò col piede.
«Allora, sei soddisfatto?», gli domandò, burbero come suo solito.
«Quasi», rispose il detective, e facendo un passo avanti verso la strada alzò la mano per chiamare un taxi. «Ti manderò un messaggio quando avrò capito come la Donna Bionda riusciva a scomparire».
«Non ci riuscirai!», gridò Ganimard, rosso di rabbia. «Io ho cercarto di capirci qualcosa per anni!».
«Tu sei bravo, Ganimard. Il poliziotto migliore che conosco. Ma io sono Sherlock Holmes!».
Gli fece l'occhiolino e chiuse finalmente la portiera, sporgendosi verso l'autista per dare l'indirizzo: 221B Baker Street.

Certo, gli indizi che aveva non erano di prima mano, ma Ganimard non avrebbe potuto fare di meglio nemmeno volendo.
Ed era anche consapevole che con Lupin doveva lavorare al contrario, doveva ovvero tirare fuori un'idea e poi, solo poi, verificare che si adattasse ai fatti.
Ecco cos'aveva fatto durante la breve corsa in taxi, con le strade della sua Londra che scorrevano fuori dal finestrino, e alla fine era riuscito a raggiungere il bandolo della matassa, il punto da cui partire. Ora si trattava solo di districarla.
Pensava che Geneviève fosse tornata al Savoy per prepararsi ad affrontare suo padre, ma la trovò nel suo salotto, sprofondata nella poltrona di John, con i capelli sciolti e la musica così alta nelle orecchie che Sherlock si domandò come potesse non essere già diventata sorda.
Il detective si tolse il cappotto e si diresse verso la scrivania, la stessa scrivania dove solamente quella mattina aveva fatto colazione con lei e Arsène. Recuperò il pc portatile, impilato sopra una serie di libri posati per terra, e lo accese di fronte a sé per fare delle ricerche.
Erano fondamentali per verificare la sua teoria, eppure non riusciva a concentrarsi: gli occhi spiritati di Geneviève lo fissavano, ma non lo vedevano veramente. Anche lui assumeva quell'espressione quando era concentrato? Ora capiva come dovevano sentirsi John, la signora Hudson o Molly: invisibili, non importanti.
Rimasero in silenzio per un'ora, ognuno immerso nel caso da due punti di vista differenti: quello della figlia che cercava di scagionare la propria madre e quello del detective che, appurata la sua colpevolezza, era già passato oltre.
Avrebbe voluto che John fosse lì, per mostrargli che cosa stavano facendo i sentimenti alla mente brillante di quella ragazzina: distorcevano la realtà, le impedivano di accettare che sua madre aveva ucciso un uomo e, ultimo ma non meno importante, la stavano distruggendo dall'interno. Geneviève non sembrava affatto la parte vincente.
Ad un tratto le chiatarre, la batteria e tutta quella cacofonia di strumenti con cui si stava stordendo si interruppe all'improvviso. La ragazzina tirò fuori il cellulare dalla tasca della felpa e leggendo il nome sul display ritornò nel mondo reale. Incrociò il suo sguardo con intenzione e si alzò per dirigersi in cucina. Solo allora rispose alla chiamata, esclamando: «Ciao papà».
Sherlock era troppo lontano per sentire le risposte di Arsène, perciò si concentrò sulla gestualità di Geneviève: il piccolo sorriso che si sforzava di mostrare, come se suo padre la stesse guardando; il dito che sfiorava con delicatezza gli strumenti da chimico del consulente investigativo; il suo leggero ondeggiare sui talloni.
«Sono contenta che tu ti sia divertito. La prossima volta non mancherò, promesso. Va bene, allora buonanotte».
A quel punto i suoi occhi si sgranarono leggermente, colta di sorpresa. Ma si sforzò per risultare tranquilla ed abbozzò persino una risata: «Ma che dici? Perché dovrei salutarti Sherlock?».
Il detective si girò completamente verso il pc, le dita che picchiettavano  velocemente sulla tastiera, mentre Geneviève lo guardava imbarazzata.
«S-Sì», balbettò. «Okay. Buonanotte anche a te».
La comunicazione si interruppe e Geneviève guardò lo schermo del cellulare per qualche secondo, profondamente turbata. Quell'espressione e la luce azzurrognola sul suo volto la facevano somigliare ad uno spettro.
«Che cosa ti ha detto?», le domandò Sherlock, quando non riuscì più a trattenere la curiosità.
La ragazzina deviò il suo sguardo, fissandosi le scarpe da ginnastica. «Ha detto che sono in un mare di guai per essere scappata ancora dalla scorta. E ha aggiunto che se mi piace tanto la tua compagnia, allora dovrei...».
Sherlock si voltò di scatto, i nervi tesi. Geneviève si ritrasse ancora di più, nascondendo il collo tra le spalle.
«Sono d'accordo», affermò con decisione, ancor prima che la bionda trovasse il coraggio per ripetere le parole di suo padre.
Geneviève sollevò gli occhi grandi e lucidi. «Non stai dicendo sul serio».
Sherlock si alzò, serissimo, e con le mani unite dietro la schiena la scrutò a fondo. Era un rischio enorme, ma com'era quel detto? Tieni gli amici vicini e i nemici ancora più vicini. Arsène aveva dimostrato più volte di essere inafferrabile e altrettante volte aveva commesso errori grossolani per le persone che amava. Doveva solo giocare bene le sue carte, sfruttare l'opportunità che gli aveva dato, e cercare di ribaltare la situazione.
«La stanza di John, di sopra, è libera», spiegò. «Puoi restare per questa notte, e per tutto il tempo che vorrai».
La ragazzina si morse le labbra e si passò un braccio sugli occhi per cancellare le lacrime. Non ne aveva l'assoluta certezza - l'aveva vista piangere a comando un paio d'ore prima - ma dalla stretta allo stomaco che provò, Sherlock volle credere che fossero vere.
«Grazie», mormorò avvicinandosi cautamente, forse per un abbraccio.
Il detective fece finta di non aver compreso e tornò davanti al pc. La stessa Geneviève ne sembrò sollevata, quando la guardò per dirle: «Domani mattina tutti i dubbi riguardanti il caso della Donna Bionda saranno risolti, hai la mia parola».
E con quell'augurio di buonanotte, la ragazza bionda gli rivolse un lieve sorriso, carico di gratitudine, e lo lasciò solo.  

   
 
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