Muoveva gli occhi sotto le
palpebre chiuse.
Harry era il calore contro la schiena, era la carezza
possessiva e pensosa sul fianco, era il respiro dietro l’orecchio.
Draco era
stanco nel cuore di una stanchezza incosciente, infantile, pura, che Harry gli
lasciava, che assomigliava al sonno di un bambino nel grembo.
La mano di
Harry sul petto, sulla pancia, la pesantezza delle coperte, lo facevano sentire
in acqua.
-Draco… ti ricordi dove dobbiamo andare domani, vero?-
Pesanti,
le palpebre si rifiutarono di aprirsi. –Do. Domani?.
-Domani pomeriggio, io e
te…-
-Mh?-
-Dai tuoi.-
Draco sussultò. –Ma… ma non era una cosa in
forse?-
-Era una cosa in forse settimana scorsa.-
Draco deglutì, strinse
le braccia al petto. –Ah… e… non si può rimandare?-
-Draco…- Il tono con cui
Harry lo sgridava (lo faceva sentire in colpa) era serrato come la sua mano
sull’anca.
Sospirò. –Sì, ecco… non sono preparato. Non… non mi ricordavo che
era per domani.-
-Te lo sei voluto dimenticare, come al solito. Sai benissimo
che non posso rimandare. Ho impiegato due settimane e parecchi favori per
ottenere l’attivazione della passaporta. E sai benissimo anche che tu non sei
mai pronto.-
Draco girò la testa nel cuscino. Ormai era svaporata la
tranquillità necessaria al dormire. Sentiva un sapore ferrigno sotto la lingua.
La pesantezza di una corda sul collo. Un freddo di metallo nel cuore, che faceva
bruciare l’atmosfera insopportabilmente attorno a lui.
Harry gli cinse la
vita e si strinse contro di lui. –Partiremo alle due e torneremo alle sei e
mezza. Pensi di poterle sopportare, cinque ore e mezza?-
Draco annuì.
Il
calore non era più piacevole, l’abbraccio non lo cullava più.
Draco avrebbe
voluto sgusciare via dal letto.
Avrebbe voluto rifugiarsi in un luogo freddo
almeno quanto era lui dentro, da solo.
Harry non lo avrebbe lasciato
andare.
-Mi cambio.-
Harry rise (flash di denti bianchi
sotto le labbra rosse). –No!-
(Grigio perché le palpebre rimanevano troppo
tempo chiuse nel loro sbattere. Mani che tremavano) –Ma dai… mi
cambio.-
-No!-
-Non sto bene.-
Harry lo guardò da sopra gli occhiali
(lo sguardo di quando lo voleva nudo sul letto. O. Di quando riteneva che lui
avesse fatto qualcosa di stupido) –Smettila. Sei bellissimo.-
Draco strinse e
rilasciò i pugni. –Harry, sono pallido, sono biondo. Non posso vestirmi tutto di
bianco.-
-Certo, vestiti di scuro, così ti squagli appena arriviamo. Dai,
sbrigati, manca cinque alle due.- Alzò gli occhi al cielo, mentre lui (le mani
agitate sulla giacca, sui pantaloni, nei capelli) si guardava intorno cercando
chissà cosa, camminava avanti e indietro per il salotto. –Come se non avessimo
impiegato tre ore a vestirti.- borbottò. –Razza di perditempo.-
-Mi cambio
solo la maglia.-
-Sta fermo! Hai preso i fiori?-
-Sì, sì, sono qui, sulla
poltrona…-
Harry gli afferrò con uno strattone le braccia. –Fermo.- Draco
annuì, deglutì. –Smettila di sbatacchiare le palpebre.- Draco chiuse gli occhi.
Harry fece un verso d’assenso. –Respira.- Draco si riempì fino in fondo i
polmoni, trattenne il fiato, espirò. –Bravo. Prendi i fiori.- Draco li raccolse
tra le braccia. Harry gli mise in mano la passaporta. -E ora
andiamo.-
Il rumore della risacca sugli scogli sembrava irreale. Il vento tiepido
mascherava il calore del sole. La luce era bianca ed accecante. Chiuse gli
occhi. Tanto c’era la mano di Harry sulla sua schiena a guidarlo.
Tonc.
–Tonc. –Tonc.
Draco sapeva riprodurre la cadenza di quel suono a
memoria.
Tonc. –Tonc., faceva il bastone di suo padre.
-Signor Potter. È
riuscito a riportarlo qui, finalmente.-
Quel tono vibrante la sua voce
l’aveva acquistato col tempo.
Draco socchiuse gli occhi e vide Harry e suo
padre stringersi la mano.
Lucius era invecchiato. I suoi capelli erano
candidi e brillanti. Le punte delle ciocche si arricciavano sulle sue spalle.
Rughe attorno alle labbra, agli occhi. Strana aria da saggio.
Suo padre
indossava un completo color sabbia, in onore del loro incontro, e sembrava un
attore degli anni d’oro, con tanto di Panamà col nastro nero. Non c’era più il
bastone d’ebano col pomello d’argento. Ora Lucius di sosteneva con una stampella
di titanio.
Draco si accorse che Harry gli aveva tolto i fiori dalle
braccia.
Sapeva cosa ci si aspettava da lui.
Si avvicinò a quell’uomo così
anziano cercando di aggiogare le proprie labbra ad un sorriso. Lo abbracciò, lui
gli poggiò una mano (mano nodosa, mano tremante) tra le scapole.
Draco
respirò un odore di mare, d’acqua di colonia. Di vecchiaia.
Quell’uomo sapeva
di vecchio, di malattia.
Draco strinse le sue spalle non più forti, col naso
nel suo collo e gli occhi chiusi. Nel fondo del suo odore riconosceva quello di
suo padre. Così in fondo. Troppo in fondo. C’era troppo odore di vecchio a
nasconderlo.
Eppure, quando arrivarono al porticato, Draco rimase incantato nel vedere
sua madre.
Era una donna anziana, sì, e i suoi capelli non erano più color
del grano, e i suoi occhi erano troppo chiari, troppo lucidi quando ricevette i
suoi fiori.
Draco rimase incantato ad ammirare quanto l’amore e la commozione
la trasfigurassero in una bambina.
Si sentì un cane, un vero bastardo, peggio
di come lo faceva sentire Harry, perché realizzò che al mondo c’era qualcuno che
lo amava forse più di lui.
Come, con che coraggio, che vigliaccheria avrebbe
potuto fare del male ad una bambina così fragile?
Erano due anni che non si vedevano e non si parlavano. In due anni,
neanche avevano potuto scriversi.
Loro, per quanto privilegiati, erano
criminali di guerra. L’isolamento dalla comunità era la loro pena.
La
lontananza da loro figlio, quasi una punizione divina.
Per Draco era stato
quasi un sollievo. Non vedere la sofferenza di suo padre, la premura ansiosa di
sua madre. Ed era più facile fare finta che non esistessero, che a parte Harry
non ci fosse più niente a legarlo.
Harry e Lucius parlavano di politica. Suo
padre era affamato di notizie, perché l’ozio era difficile da sopportare per un
uomo che come lui era stato impegnato tutta la vita.
La cronaca di Harry su
chi tra i suoi vecchi amici e nemici salisse e scendesse nei giochi di potere
era sincera e completa.
Lucius raccontava vecchi aneddoti e Harry ghignava,
chiedeva conferme con un “Sì?” un po’ maligno.
Draco non si interessava di
quelle cose.
Sua madre, seduta davanti a lui dietro il vassoio di dolcetti
(Lucius aveva avuto il permesso di mangiarne solo due), gli carezzava la mano
allungata attraverso il tavolo.
Draco aveva paura che arrivasse la domanda
(la domanda “alla Harry”), perché a lei non poteva mentire.
Però lei non
chiedeva niente, lo accarezzava e basta, come se volesse consolarlo, con i suoi
occhi troppo chiari e troppo dolci, troppo buoni.
Draco si sentì in colpa
come un bambino. Molto, molto peggio che con Harry. Sua madre gli faceva
pizzicare il naso e gli occhi.
Per quanto rimanere con loro lo mettesse a disagio, quando arrivò l’ora
del tè, Draco sentì che era troppo presto.
Fu preso da una strana ansia
infelice nello scoprire che già erano le cinque.
Da una mezzora Lucius li
aveva coinvolti in una discussione su quello che volevano fare (il tono lo
riportava alle estati della scuola, a quella del terzo anno, “cosa vuoi fare da
grande?”, e Harry era solo una scocciatura in una vita quasi felice, e Voldemort
era un nome che non si pronunciava, e i purosangue e la guerra erano
storia).
Suo padre lo guardava, perché voleva sapere che intenzioni avesse
lui.
Allora Draco si voltava verso Harry, che gli stringeva
rassicurante un ginocchio sotto il tavolo. Rispondeva usando un “noi” che chissà
se esisteva davvero, visto che era lui a fare sempre tutto. Eredità Potter, o
Black, o Malfoy. Processi, riabilitazioni, permessi speciali.
Il loro
contratto di convivenza.
La cessione del palazzo a loro in quanto coppia
de facto.
Draco si sentiva così a disagio che avrebbe preferito
chiedere “Come va, papà? Il cuore, il rene?”, tirare in ballo argomenti di cui
tutti preferivano non parlare, lui per primo. Perché se pensava spesso
all’andarsene, l’idea che suo padre potesse morire e troppo presto lo
angosciava.
Il profumo dei gigli che avevano regalato a Narcissa, grandi,
bianchi, inondava il porticato, insaporendo persino il tè. Draco immaginò che il
vento lo avrebbe sparso per tutta l’isola.
Narcissa lo strinse contro il suo corpo non più morbido.
Draco rispose
un po’ meccanicamente. Una parte di lui già si era allontanata. Un po’ per
volta, per non soffrire tutto assieme.
Sua madre era forte, sorrideva.
Suo padre aveva gli occhi lucidi.
Draco sentì le budella stringersi. Sperò
che non succedesse ancora.
Quando lui aveva pianto, sottomesso dal dolore
della ferita, dalle accuse e dalle cause, da tutti i mille problemi che gli
stavano cadendo addosso nel momento in cui stava fisicamente più male… Draco
sapeva quante cose suo padre aveva sopportato, cose che avrebbero dovuto colpire
lui e sua madre. Lucius li aveva sempre protetti, ma quel giorno, per meno di un
minuto, per meno di tre lacrime, era crollato.
Era crollato il mondo di
Draco.
L’uomo che era davanti a lui e Harry era vecchio, malato e vedeva
partire l’unico suo figlio per un tempo indeterminato, ma lungo.
Però
quell’uomo sorrise mentre stringeva le loro mani.
Quando Lucius e Harry si
guardarono, Draco capì che suo padre non aveva alcun rancore nei suoi confronti,
ma anzi era grato per la cura che si prendeva del suo bambino, ora che non
poteva farlo di persona.
Draco non era pronto a smettere di incolpare Harry
(la colpa di essere stato dalla parte giusta – la colpa di avergli salvato
troppo spesso la vita) e forse non lo sarebbe mai stato.
Le mani di suo padre
gli dissero di essere forte, di andare avanti.
Come se lui non fosse il
figlio vigliacco che era, che rifiutava l’unica cosa che i suoi genitori
volevano (che fosse felice).
Draco non voleva lasciargli le mani, che anche
se non stringevano collo stesso vigore di dieci anni prima, erano ancora le
salde mani di un padre. Si costrinse a farlo.
Si costrinse ad afferrare la
passaporta.
Suo padre abbracciava sua madre e si appoggiava alla stampella.
Per loro tutto andava nel migliore dei modi, perché Harry era con
lui.
Tornare a casa fu come il risveglio da un incubo.
Sbattere le palpebre davanti alla familiarità del salotto i cui contorni
sembrano sbagliati, come se la realtà fosse il sogno. Però cogli incubi tutto
torna giusto presto. Ora Draco dovette chiudere gli occhi perché nulla era più
al suo posto.
Draco sentiva le gambe molli e la testa pesante.
Il corpo
solido di Harry, la sua spalla, il suo braccio. Erano lì.
Lui che gli aveva
stravolto l’esistenza e ogni possibile normalità. Pretendeva di dargli l’una e
l’altra.
Perché avrebbe dovuto essere facile accettarlo, come aveva fatto suo
padre?
Tutti volevano che lui cedesse, perché erano sicuri che Harry avrebbe
saputo rimettere insieme i suoi pezzi. Volevano che lui toccasse la disperazione
in fondo al suo cuore, perché erano sicuri che Harry lo avrebbe risollevato
subito.
Lui voleva solo fuggirla. Nessuno glielo permetteva.
Harry glielo
aveva impedito l’unica volta che avrebbe davvero potuto farla finita. Harry (che
ogni tanto sembrava rimproverargli di voler star male, che forse lo
pensava) era libertà e catena che ormai non aveva più forza (la voglia) di
spezzare.
Draco sentì che non riusciva più a reggere, come se ormai tutto
fosse venuto a galla, come se ormai il suo malessere lo impantanasse, come se i
suoi mostri ormai l’avessero raggiunto.
Harry, il corpo solido (su cui
abbandonarsi), la spalla (su cui poggiare la fronte), il braccio (da cui farsi
stringere). Erano lì.
E se ormai era tardi per scappare, lui che non
voleva stare male, forse era il momento di provare se suo padre avesse
ragione. Se Harry fosse forte abbastanza. Se Harry lo amasse
abbastanza.
Draco dovette aprire la bocca per respirare.
-Harry.- lo
chiamò colla gola chiusa. –Harry. Non sto bene.-
Lui annuì e gli premette la
testa sulla spalla.
Davvero tutto poteva andare bene? Draco in quel momento
non riusciva a capirlo. Si lasciò andare e basta e ogni respiro rumoroso a bocca
aperta, ogni goccia che gli sfuggiva dagli occhi serrati era un peso in meno
sull’anima. Era una corda in più che si scioglieva.
Non aveva mai voluto
cercare la libertà tra le braccia di Harry, lì dove avrebbe sofferto e l’avrebbe
trovata.
Lasciò finalmente che il dolore infrangesse le catene.
Domo:
Ringrazio Vera Lynn per la recensione e per le belle parole con cui ha descritto la storia.