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Autore: Arny Haddok    19/09/2017    1 recensioni
Dal testo "Signori e Signore. Bambini e Bambine. Benvenuti. Il circo itinerante Hound's Wonders è felice di ospitarvi per questa magica serata natalizia! Questa sera sarete in mia compagnia, e insieme ammireremo meraviglie di altri mondi, creature bizzarre e evoluzioni che nemmeno potete immaginare! Questa sera, signori miei, la destinazione del nostro indimenticabile viaggio è una sola... DESTINAZIONE MERAVIGLIA!"
I personaggi di Sherlock catapultati nell'universo del circo.
[CircusAU] Accenni di [Teen!lock]
Genere: Angst, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutte! Se mi seguite sui social sapete perché il capitolo è uscito con un giorno di ritardo, ma bando alle ciance. Vi aspetto in fondo, come al solito, quindi buona lettura miei circensi!



On the Wire


 
Capitolo settimo
Sussurri e Sorrisi

 
Si precipitò verso quel corpo disteso a terra, senza rendersi immediatamente conto del fatto che appartenesse a Sherlock. Avrebbe agito così per chiunque si fosse trovato in quella situazione, ma avrebbe gridato il suo nome nello stesso modo, con urgenza?
Piegò le gambe e si inginocchiò davanti al giovane Holmes, cercando di svegliarlo muovendolo con la mano ripetutamente, senza smettere di chiamarlo con tono estremamente preoccupato. Solo dopo aver notato la siringa abbandonata a terra, John capì che quanto era successo, andava ben oltre le sue basilari competenze. Certo, avevano discusso a lezione diverse volte di come alcune sostanze alleviassero il dolore e offuscassero i pensieri e le emozioni, e di come queste venissero sfruttate sui campi di battaglia dai soldati e dai medici militari durante gli interventi. Ma quel ragazzo non stava combattendo, quindi perché mai aveva assunto della droga, qualsiasi essa fosse?
- Mycroft? – un sussurro, e Watson spostò rapidamente lo sguardo sul viso dell’amico: gli occhi vitrei del funambolo avevano ripreso un briciolo di vita, ma restavano rossi e gonfi. Che si trattasse di pianto o di un effetto della droga, John non riusciva a capirlo. Posò nuovamente la mano sulla spalla del compagno di tenda, cercando di richiamare la sua attenzione.
- Sherlock. Sherlock mi senti? Sono io, John, John Watson. – fu costretto ad alzare la voce e parlare lentamente. Nel frattempo si stava togliendo il maglione per coprire il corpo infreddolito di Holmes.
- Dov’è Mycroft. – non aveva la cadenza di una domanda. Il circense non aveva la forza di badare all’intonazione delle poche parole che riusciva a pronunciare. Ora sentiva una strana sensazione di calore all’altezza della gabbia toracica, in contemporanea un rumore confuso, una voce che arrivava ovattata alle sue orecchie.
Il medico della compagnia, ormai fradicio a causa della pioggia che aumentava sempre di più, si vide costretto a rialzarsi e cercare il direttore il più velocemente possibile. Il pensiero di dover lasciare il suo amico disteso a terra e solo lo bloccò prima che potesse voltarsi in direzione delle tende: si abbassò nuovamente per passarsi il braccio di Sherlock attorno alle spalle, sostenendolo con la mano destra. La differenza d’altezza non lo aiutava in quel frangente, e nemmeno la muscolatura del giovane Holmes. Prima di riuscire a muovere qualche passo, il ricciolo si piegò in avanti preso da un conato di vomito, e John dovette reggergli il busto perché non cadesse di nuovo a terra.
 
Con un andamento altalenante e lento, Watson riuscì a raggiungere la tenda di Mycroft e a svegliarlo chiamando il suo nome con insistenza, lasciando trasparire tutta la stanchezza e la preoccupazione che aveva in corpo. Il direttore si coprì con una vestaglia di tessuto pesante e fece coricare suo fratello sulla propria branda, dopo avergli tolto il maglione del più basso e avergli coperto le spalle con un panno di lana abbastanza grande.
- Sherlock, sono Mycroft, adesso dovrai sopportare il caldo ma ti passerà. – aveva occhi solo per il funambolo in quel momento di difficoltà, mentre John restava ad un paio di metri dal corpo fradicio di Sherlock. Aveva adottato un’espressione che fino a quel momento mai gli si era dipinta in volto: bocca socchiusa e occhi stanchi, sembravano vivi solo a causa di quell’ansia che aleggiava senza sosta intorno al suo volto. Non aveva mai visto nulla di simile, e l’ultima persona da cui si sarebbe aspettato una cosa del genere era il suo amico, il suo unico vero amico tra tutti quegli individui con cui intratteneva discorsi superficiali. Come diavolo poteva un ragazzo tanto brillante e talentuoso come Sherlock Holmes rovinarsi con della droga, per quale ragione soprattutto.
- John, credo che per te sia arrivato il momento di andare. – il tono del fratello maggiore non ammetteva repliche, nonostante quel “credo” all’inizio della frase. Watson doveva andarsene, e non faticava ad immaginarsi la faccia del direttore, seduto in direzione del giovane circense e che nemmeno si era voltato per chiedergli di lasciare la sua tenda. Il ragazzo dai capelli chiari afferrò il concetto, e tornò sotto la pioggia battente senza nemmeno salutare. A quanto pare Mycroft sapeva gestire nel modo corretto le crisi di Sherlock, lo si capiva dalle parole che aveva utilizzato, dall’espressione poco sorpresa. Pensava a questo, John, mentre si cambiava con qualcosa di asciutto e caldo, abbandonando il maglione sul proprio baule e lasciando che l’umidità imperniasse l’aria della tenda e le sue narici.
 
Ovviamente non si addormentò. L’immagine di Sherlock bagnato e scosso da brividi sotto la coperta di lana lo tormentava. Gli occhi azzurri, in quel momento dello stesso colore del ghiaccio, socchiusi e vuoti che cercavano una sicurezza e chiamavano silenti il nome del fratello. Lo avevano spaventato, quegl’occhi, quei maledettissimi occhi gli avevano fatto saltare diversi battiti prima di farlo agire. Se quel momento lo aveva lasciato inerme, come poteva suo padre immaginarselo nascosto in una trincea e pronto ad affrontare la disperazione nello sguardo dei nemici. Ammettiamolo, sono davvero poche quelle persone che gridano di gioia nel conficcare pallottole di piombo nello stomaco degli avversari, il problema è che nessuno sa che cosa si troverà di fronte in battaglia, e sono pochi quelli che tornano ancora in grado di utilizzare il senso dell’udito.
Si sollevò dalla branda senza nemmeno pensarci, e si ritrovò in piedi vicino all’ingresso della tenda. Si infilò un cappotto dai colori spenti e un berretto: la pioggia non aveva ancora smesso di battere con violenza, ma restare sdraiato a pensare al suo amico perdendo la cognizione del tempo era una possibilità che lo irritava. Mycroft lo aveva praticamente cacciato, senza nemmeno ringraziarlo per aver trovato suo fratello di cui altrimenti nessun’anima si sarebbe accorto. Un grazie, un’esclamazione, un’emozione forte. Niente di tutto questo faceva parte della grigia figura del direttore del circo.
Da quanto tempo andava avanti quella storia? Per quanti anni Sherlock si era drogato, era successo anche nel periodo in cui lui era stato accettato nel circo? Erano le domande che frullavano e riempivano i pensieri di John, che si era accostato alla tenda buia del pezzo grosso della compagnia dalla quale non si intravedeva nemmeno una luce o una fiamma di candela. Sentiva un respiro profondo provenire dall’interno, che però non poteva appartenere al giovane Holmes: di notte sembrava un morto, non cambiava mai posizione così come non russava o emetteva qualunque tipo di suono. Talvolta la tentazione di provargli il battito era tanto forte da convincerlo a destarsi dal dormiveglia e stringere il polso pallidissimo del compagno di tenda. Una volta capito che no, non era morto, se ne tornava sotto alla coperta e poteva dormire tranquillo.
In quel momento la preoccupazione per Sherlock occultava tranquillamente l’agitazione. Non sapeva se entrare e illuminare fiocamente il volto del funambolo, oppure tornare indietro e lasciar perdere.
Indietro ci tornò, ma per prendere una candela e un pacchetto di fiammiferi. L’immaginazione di Watson non cessava di produrre simpatici scenari in cui Mycroft lo cacciava senza ripensamenti dall’Hound’s Wonders, abbandonandolo come un animale per la strada, tornando poi indietro e togliendogli bruscamente il cappello, la sua unica protezione dall’acqua battente. Eppure era lì, di fronte all’entrata, con la mano a proteggere la fiamma e l’altra a scostare silenziosamente lo spesso telo di plastica. Essendoci stato qualche ora prima si ricordava che il fratello maggiore aveva l’altra branda in fondo alla tenda, mentre il minore era abbastanza lontano, quindi sì, la preoccupazione di essere scoperto esisteva, ma non era troppo forte da impedirgli di controllare le condizioni di Sherlock. Perché ne aveva così tanto bisogno, di vederlo dormire tranquillo, accostarsi al suo viso per sentirlo respirare debolmente. Piegò le ginocchia e avvicinò la candela all’amico: aveva i riccioli gonfi a causa dell’umidità, e il medico sapeva perfettamente che se ci avesse passato le dita in mezzo avrebbe dovuto sciogliere qualche nodo; le ciglia già chiare, si schiarirono ancora di più per la fiamma; le labbra spigolose ammorbidite dal tremolio della luce, così come gli zigomi. Se non fosse stato per le occhiaie scure, John avrebbe sicuramente pensato che era splendido. Certo, lo pensava ugualmente, ma quelle occhiaie gli ricordarono il perché delle sue condizioni. Quel respiro silenzioso che lo caratterizzava in quel momento era affaticato, e il giovane poteva sentirlo anche a mezzo metro di distanza. Sherlock era avvolto nella coperta e rannicchiato su se stesso, senza dubbio si sarebbe svegliato intorpidito e dolorante, con i muscoli tesi.
Gli occhi del funambolo si aprirono lentamente con la stanchezza che sopravviveva sulle palpebre pesanti. Si limitò a fissare John aspettando che reagisse al suo sguardo. Si stavano guardando, e il ragazzo steso aveva ripreso abbastanza lucidità perché le sue capacità deduttive tornassero a funzionare. Il suo amico era lì per controllarlo, anche se dalla sua espressione non trasparivano altro che due sentimenti contrastanti: preoccupazione e rabbia.
- John. –
- Sherlock… - sospirò il più lentamente possibile per raccogliere le parole e la calma necessarie – che diavolo è successo. – si morsicava il labbro cercando di nascondere il gesto, ma la luce della candela bastava ad illuminare il viso di entrambi.
Inchiodò il proprio sguardo in quello del più basso. Non poteva raccontargli il motivo che lo aveva spinto a tanto. Aveva aspettato troppo per rispondere, quindi non fece altro che abbassare gli occhi. – Almeno dimmi questo: - un altro sospiro trattenuto – come ti senti adesso? –
- Mi gira la testa, ho freddo e mi hai svegliato, ma poteva andare peggio… - la sua voce era rauca e debole. Il giorno seguente Watson lo avrebbe legato alla branda per non fargli prendere freddo. Perché si preoccupava in quel modo per un ragazzo che sicuramente sapeva badare a se stesso? Perché evidentemente non sapeva farlo, ecco perché.
Non sapevano più come portare avanti la conversazione e il giovane dai capelli chiari non poteva bombardarlo di domande. L’impulso di provargli la temperatura lo colse alla sprovvista, e la sua mano sinistra si poggiò sulla fronte del moro che rimase impassibile di fronte a quel gesto. Solo il rossore sulle guance lo tradì, ma John era troppo occupato a “visitarlo” per accorgersene. Era accaldato, ma non solo a causa della coperta che lo copriva quasi completamente, e aveva bisogno di riposo, molto riposo.
Si erano entrambi dimenticati della presenza di Mycroft che fortunatamente dormiva tranquillo, presi dall’intimità di quei gesti e di quel momento. Si erano scambiati qualche battuta, e le parole di Sherlock saranno state anche impertinenti, ma Watson era ancora lì, con la mano sulla sua fronte. Si stava prendendo cura di lui, anche se sarebbe stato tutto più semplice se fossero stati nella loro tenda. Il giovane Holmes avrebbe trattenuto quella mano ancora a lungo, fino a riaddormentarsi, per essere sicuro di avere qualcuno accanto, e chiuse gli occhi con le dita leggermente fredde di John a raffreddargli la fronte. Il ragazzo allontanò la mano.
La febbre lo aveva assopito, e sentiva diminuire la tensione sulle braccia – John? –
- Sì, Sherlock? –
Ancora una volta non rispose, voleva sapere se lo stava ancora guardando e anche ad occhi chiusi ne aveva la certezza. Sapeva che il giorno dopo sarebbe stato ancora lì nella compagnia, che avrebbero dormito sotto la stessa tenda ancora a lungo, che avrebbero parlato fino a notte fonda. Lo sapeva.
Si addormentò con questa consapevolezza, e John rimase ad ammirarlo per qualche minuto prima di tornare a dormire finalmente tranquillo. Appena si sarebbe ripreso, Sherlock, gli avrebbe dovuto spiegare tutto, scendendo nei dettagli.
 
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Ricordava perfettamente il giorno del processo: abito elegante e sorriso sicuro, un ghigno divertito di chi sapeva di poter farla franca un’altra volta. Aveva tutto sotto controllo e non si sarebbe fatto mettere le manette per una sciocchezza come quella, ma ancora più importante, mai avrebbe passato più di una notte in prigione.
Osservò per un ultimo momento la cartolina del punto in cui il circo si era sistemato a Londra per lo spettacolo di diversi mesi prima, per poi imbustarla.
- Questa volta ti lascio l’onore, prego. –
Sorrise e si allontanò scostando l’ingresso della tenda incamminandosi in direzione della città.
 
Si copriva con insistenza, come se stringendosi l’ampia sciarpa attorno alle spalle potesse in qualche modo scaldarla e dare l’impressione di trovarsi di fronte ad un caminetto. Spostava l’attenzione da un lato all’altro della strada, anche se non aveva nulla in particolare da cercare o adocchiare se non una cassetta delle lettere. Il passo impercettibile non richiamava l’attenzione delle famiglie che passeggiavano in quel freddo pomeriggio. Sicuramente i bastoni da passeggio pestavano in maniera più pesante la strada, ornati dai pomelli dorati o di mogano intagliato. Trovò quello che cercava, e lasciò che la busta cadesse sulle altre in fondo alla cassetta prima di tornare a camminare nel centro della cittadina.
 
 
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Gettò la corrispondenza sul tavolo della cucina, oltre che tavolo della sala, e si liberò di giacca e berretto. Aveva appena concluso un compito che gli era stato assegnato giorni prima di cui non vedeva l’ora di disfarsi, e tutto quello che aspettava era tornare a casa e rilassarsi con una buona tazza di tè bianco. Si accomodò su una delle due sedie di legno con un coltello in mano pronto a sorbirsi altre richieste o bollette, ma c’era qualcosa di diverso. Un’altra busta, un’altra foto.
Quella volta però, non si trattava di una fotografia, ma di una cartolina: una zona non proprio splendida di Londra, ma comunque ben illuminata e frequentata. Spesso venivano allestite fiere di grande estensione, oppure mostre di vario genere. Il mittente doveva essere lo stesso della foto di John Watson, ancora una volta nessun indirizzo, sigla o nome. Una sensazione di nervosismo si faceva rapidamente spazio negl’intenti di Lestrade, che dopo aver sbuffato senza contegno di sorta, si rassegnò e cercò di riacquisire quella concentrazione che era scemata una mezz’ora prima. Mise l’acqua a bollire e si preparò una delle tazze più grandi che aveva nella dispensa, insieme alla zuccheriera e a tutto ciò che aveva tra le mani: un’immagine del ragazzo sparito, un cartoncino con un misero disegno e una cartolina di una zona della città. Poteva cercare il negozio dal quale il mittente aveva acquistato la fotografia, consapevole però del fatto che si trattava di un acquisto estremamente economico, con una carta non troppo spessa e capace di non resistere molto a lungo insieme a dei colori già sbiaditi, e non a causa del tempo ma della poca qualità. Non sembrava rovinata, e gli angoli erano perfettamente integri, segno che chiunque l’avesse maneggiata, non lo aveva fatto per molto tempo. Un acquisto veloce, senza che ci si dovesse impiegare denaro o tempo.
Quel luogo doveva avere qualcosa a che fare con John, altrimenti non avevano ragione di spedirgli una cosa del genere. Che si trattasse di una falsa pista? Di un indizio per mandarlo fuori dallo schema? Greg non poteva saperlo, e nemmeno gli era passato per la testa. Era un buon osservatore, questo era vero, ma non possedeva una mante brillante e contorta come quella dei fratelli Holmes o di Moriarty. Si infilò la giacca lasciando il cappello appeso all’appendiabiti, dimenticandosene, e uscì per raggiungere la cabina telefonica più vicina con qualche spicciolo che gli tintinnava in tasca.
 
- Pronto? – i telefoni pubblici rendevano le voci sempre metalliche e più dure rispetto alle originali.
- Buonasera Signore, sono Lestrade Gregory, il ragazzo che ha parlato con sua moglie del caso di suo figlio, avrei bisogno di parlare con tutta la famiglia quando possibile. – era chino sulla cornetta con gli occhi che saettavano attraverso il vetro della cabina.
- Mia moglie mi ha parlato di voi… perché avreste bisogno di un colloquio? Per farci altre stupide domande come quelle della polizia? – forse non era il telefono ad indurire la voce di Joseph, ma il suo vero tono.
Il giovane cercò di non farsi intimidire, dopotutto aveva a che fare con colleghi più anziani e grossi di lui tutti i giorni pronti ad impartirgli lezioni di vita e mansioni da svolgere – mi dispiace contraddirla, signore, ma sono già a conoscenza di qualche informazione in mano alla polizia, credo che sua moglie abbia avuto l’occasione di discutere del nostro incontro con lei… - manteneva sempre un atteggiamento cordiale, non alzava quasi mai la voce e mai si rifiutava di obbedire a qualche ordine. Forse un giorno si sarebbe permesso di gridare “Non è di mia competenza”, seduto dietro ad una possente scrivania di legno su una di quelle sedie girevoli e di pelle rossa.
- Certo che me ne ha parlato. Mia moglie e mia figlia domani saranno a casa tutto il giorno, io rincaserò verso le cinque del pomeriggio. Veda di essere breve e puntale con quello che avrà da dirci. –
- Certo, signore. – e posò la cornetta. Nemmeno aveva usato più di una moneta tanto la conversazione era stata sintetica.
 
L’indomani si presentò in casa Watson e l’immagine che aveva in mente del padre di John era praticamente identica alla realtà: un uomo dall’atteggiamento distaccato ma facilmente irascibile; il classico padre di famiglia duro e severo, ma dalle grandi aspettative sui figli, non una gratificazione, non un complimento.
Dopo aver riassunto le informazioni che si era preoccupato di appuntare su un taccuino, mostrò la cartolina e nessuno aveva niente da dire, se non Harriet – questa fotografia credo di averla già vista altrove. È una cartolina di seconda mano, come ha spiegato lei, e credo che una cartoleria vicina a questo posto la venda… non ricordo il nome, ma so che l’insegna presenta un elefante dipinto di rosso, più o meno la stessa tinta del palloncino. – un dettaglio insignificante, quello dell’insegna, che poteva essere utile per chi cercava il negozio e basta.
Lestrade ringraziò la ragazza per quest’indicazione, e dopo aver discusso ancora qualche momento con i Watson, si congedò e affrettò il passo nel tentativo di raggiungere il prima possibile la cartoleria.
 
 
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Mentre era in città, si preoccupò di acquistare una cartolina, l’ennesima. Era sempre suo questo compito, e poteva quindi scegliere quelle più belle. Se per la prima non aveva tanta moneta a disposizione, ora ne aveva, così come per le altre, e si preoccupò di selezionarne alcune tra le più dettagliate e vive. Quella volta ne comprò una quasi poetica: la piazza illuminata da qualche fioca finestra in contrasto con la potenza del tramonto; si percepivano i colori caldi del cielo. Chissà se avrebbe fatto la stessa scelta.

 
 
 
 

 
“And anytime you feel the pain,
Hey Jude refrain,
Don't carry the world upon your shoulders.
For well you know that it's a fool,
Who plays it cool,
By making his world a little colder”
 
The Beatles – Hey Jude





 
Spazio (in)utile: eccoci qua. Il momento tra i due protagonisti è quasi ambiguo, e me ne sono accorta solo rileggendo il capitolo (brava Anita, bravissima). Non ho tante parole da spendere riguardo a quella prima parte (che è anche la più lunga), quindi passo ai personaggi.
Lestrade è ormai una presenza fissa, e difficilmente ci lascerà: ha un compito nelle sue mani, ed è determinato abbastanza per volerlo portare a termine. In questo chap, Moriarty non c'è, perché dopo la grande presenza e impatto che ha avuto nel precedente, mi sembrava giusto lasciarlo riposare un pochino. Mycroft veste i panni del direttore del circo che non vuole far sapere niente a nessuno, ma in cuor suo è preoccupato per Sherlock e ringrazia John per averlo trovato prima che la situazione degenerasse. L'atmosfera buia e gelida mi sarà riuscita? Dato che non so rispondermi con fermezza mi dico: mboh.
Il prossimo capitolo è ancora in lavorazione (tipo fabbrica capite), e spero di riuscire a finirlo entro la prossima settimana. Come sapete sono abbastanza impegnata, e lo studio già mi occupa dei pomeriggi, anche se non è nemmeno passata una settimana di scuola. Sposterò il giorno di pubblicazione da lunedì a martedì per varie ragioni che non sto a spiegarvi. 
Detto questo vi saluto senza pubblicità perché non ne voglia :D 
Grazie a tutte voi che leggete e Adieu! 
 
   
 
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