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Autore: FatSalad    22/09/2017    5 recensioni
Spartaco è giovane, bello, spiritoso, laureato, con un contratto a tempo indeterminato e con un “superpotere”: quello di far cadere ai suoi piedi qualsiasi donna senza fare assolutamente niente.
Il rovescio della medaglia di una capacità del genere, però, è che Spartaco è incapace di costruire rapporti di amicizia con le ragazze e, soprattutto, quando si scoprirà completamente e perdutamente innamorato si renderà conto di una cosa: non ha assolutamente idea di come si conquista una donna.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dall'altra parte dello schermo'
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Irene si rigirava un bicchiere quasi vuoto tra le mani, mentre guardava Michele, il ragazzo che una volta aveva intravisto nell'ufficio di Spartaco, a pochi passi di distanza da lei. Stava raccontando alla compagnia un aneddoto con tanto di espressioni da pantomima rendendosi ridicolo. Dal suo modo di fare si capiva che non era proprio una cima, ma non era per quello che poco prima Irene aveva ignorato le sue avances, trovava che semplicemente ci fosse un limite sul quanto una persona potesse essere diretta. Per fortuna aveva desistito in fretta e non le era parso ferito.
Osservò Spartaco ridere alla battuta finale dell'amico, complimentarsi poi con lo stesso per mezzo di una pacca troppo violenta e finire con un sorso la bevuta, la seconda, se non aveva fatto male i conti. Il moro guardò il fondo del bicchiere, poi annunciò che sarebbe andato a comprare qualcos'altro da bere e si fece largo tra la folla verso l'ingresso del locale.
«Spartaco è un bueno chico, - disse una voce sibilante alla sua destra - sai... un bravo ragazzo, solo che è un po' un Dylan Dog.»
Irene si voltò per guardare in faccia Elena, che le aveva parlato notando forse che aveva seguito Spartaco con gli occhi. Aggrottò le sopracciglia cercando di capire il senso di ciò che le aveva appena detto.
«Dylan Dog, hai presente? Quello dei fumetti...»
«So chi è Dylan Dog, ma non colgo il nesso.» ammise.
«Dylan Dog ha il cuore tenero, in ogni episodio si innamora di una ragazza e ci va a letto.»
Elena attese un cenno della ragazza, ma Irene sbattè la palpebre. Non sembrava aver capito.
«Quello che voglio dire – si decise a spiegare – è che Spartaco ha un debole per le donne, ma non le tratta mai male. È un gentiluomo, fa sempre sul serio. Si innamora, capisci?»
«Oh. Ha l'innamoramento facile, intendi.»
Elena ci pensò su, poi annuì.
«Sì, diciamo così.»
Irene considerò per un attimo le parole della ragazza, chiedendosi se Elena stessa non fosse caduta in un passato più o meno remoto al fascino di Spartaco. Lo vide uscire dal pub con un nuovo bicchiere colmo in mano, mentre si ricavava un varco tra la folla per tornare dai suoi amici.
Dunque c'era un Dylan Dog, accanto il fedele Groucho, famoso per l'umorismo non a tutti comprensibile, intorno un sacco di ammiratori e di belle donne, alcune persino con accenti sensuali e gambe da modella. Lei che ci stava a fare in quel fumetto?
Niente, comprese. Dylan Dog non aveva mai avuto un'amica con cui non andare a letto. Lei era un robot arrugginito, comparso per caso da un fumetto diverso.
“Eppure i crossover di solito mi piacciono!” pensò, sperando che nessuno si fosse accorto che stava sorridendo da sola.
Tanto nessuno faceva caso a lei. Cercò un cestino e vi gettò il bicchiere senza finire di bere, poi, non senza difficoltà, raggiunse Spartaco.


«Io devo andare, buonanotte.»
Spartaco si era sentito picchiettare sulla spalla sinistra e si era voltato per vedere il viso inespressivo della collega.
«Oh, davvero?» chiese.
Lei annuì piano e Spartaco si accorse che alla presenza di Irene era calato un imbarazzo generale tra i suoi amici, doveva metterli a disagio con la sua espressione truce. Forse avrebbe dovuto spiegare prima che quella era la sua espressione “normale”. Quella sera, poi, gli era parsa ancora più “amebica” del solito. Nonostante avesse provato a farla partecipare alle discussioni dei suoi amici e a servirle occasioni di battute che solitamente coglieva, Irene era rimasta per tutto il tempo seria e pensierosa finché Spartaco non aveva desistito. Fu per quello che, senza averci pensato troppo, le sue labbra si mossero.
«Ti accompagno alla macchina» disse, senza preavviso.
Irene provò a dirgli che non ce n'era bisogno, ma lui aveva già fatto un cenno agli amici e si stava districando tra la massa di giovani alticci. Poco dopo si voltò per controllare che la collega lo stesse seguendo e incontrò i suoi occhi enigmatici. L'istinto lo spingeva a dirle qualcosa, a chiederle quale fosse il suo problema, ma un'altra parte del suo cervello lo tenne a tacere, avanzando l'ipotesi che a voler parlare fosse il terzo cocktail e non l'istinto. Così arrivarono all'auto di Irene senza una parola e Spartaco si sentì improvvisamente un idiota.
Cos'è che stava sbagliando, ultimamente? Come mai aveva aquisito la capacità di farsi detestare dalle persone a cui più teneva? Come aveva potuto perdere l'amicizia di Camilla? Come mai Lilla era tanto fredda dopo l'ultima volta che si erano visti? Perché anche Irene, che era Kilowatt, sembrava non aver voglia di parlargli?
«Allora... ci vediamo lunedì.» disse Spartaco, cercando di non farsi dominare dai pensieri.
Irene annuì ed aprì la portella dell'auto. Fece per entrare, ma si fermò e guardò Spartaco dritto negli occhi.
«Come tornerai a casa? Non hai mica intenzione di guidare, vero?»
“Com'è possibile?” si chese Spartaco. “Com'è possibile che per un'ora abbia tenuto la faccia di una che è circondata da grossi ragni pelosi e l'attimo dopo sia tutta premure e gentilezze?”.
«Sto bene, non ti preoccupare.» disse incerto mentre teneva lo sguardo abbassato sul bicchiere, mescolandone il contenuto con movimenti lenti e circolari.
«Va bene. Mi raccomando.»
Spartaco alzò gli occhi mantenendo il capo chino. Si fissarono per un istante che parve un minuto intero, entrambi a disagio per non essere stati capaci di dirsi tutto ciò che pensavano.
Spartaco non voleva perdere anche Irene, non poteva!
“Al diavolo!” pensò. Si avvicinò a lei con pochi passi e quando le fu davanti inclinò il volto sul suo, lo sguardo fisso sulle sue labbra.


«Che stai facendo?!» gridò Irene, flettendo la schiena all'indietro per allontanare il volto da quello di Spartaco.
«Ti bacio.» rispose tranquillo il moro, come se stessero parlando del tempo.
Irene sollevò le sopracciglia, sorpresa.
«Cos...? No! Cosa ti salta in mente?!»
Spartaco rimase perplesso e sollevandosi scrollò le spalle.
«Non so, è tutta la sera che fai la musona, ho pensato che fosse... perché magari ti aspettavi qualcosa di diverso...» concluse, sentendosi sempre più stupido sotto gli occhi sgranati di Irene.
«Hai ragione, – confermò lei – mi aspettavo qualcosa di diverso. Credevo che saremmo stati solo tu ed io stasera, ma come amici e nient'altro!»
Spartaco la scrutò, cercando nei suoi occhi la verità. Con l'indice si ritrovò a tamburellare sul bordo del bicchiere.
«Va bene, d'accordo, ma se vuoi essere solo mia amica, perché allora quel giorno ti sei lasciata baciare?» chiese.
Anche se non se n'era accorto prima di pronunciarla, era la domanda che gli frullava in testa da quel fatidico venerdì che aveva stravolto il loro rapporto. Sicuramente non aveva programmato di porla in modo tanto diretto e, dalla sua espressione confusa, anche Irene sembrava impreparata per quel dritto che gli aveva lanciato. La vide abbassare gli occhi a terra, sistemare una ciocca di capelli e finalmente rialzare il viso verso il suo.
«Non sei esattamente il tipo di ragazzo a cui si possa dire di no.»
Toccò a Spartaco sgranare gli occhi, incredulo e compiaciuto davanti a quella sincerità.
«Mi sentivo un po' in colpa per come mi ero comportata nei tuoi confronti, – continuò la ragazza - ti ero grata per essere lì con me e sapevo che eri il mio amico Corto per cui provavo stima e affetto ed ero un po' sconvolta. Ti basta come scusante? Insomma, sei tu che mi hai colto in un momento di debolezza, ecco!» concluse, puntandogli un indice accusatore contro il petto.
«D'accordo, d'accordo. - concesse il ragazzo, disarmato dalle sue parole - Ora però vuoi spiegarmi perché hai tenuto il muso lungo per tutta la sera? Non ti piaccioni i miei amici?»
Irene parve più sorpresa da quella domanda che non dalla precedente. Squadrò il collega come a cercare di capire quanto fosse sbronzo in quel momento, poi, evidentemente, decise che poteva parlare.
«Se ti sono sembrata “musona”... beh, mi dispiace, nel caso tu non l'avessi ancora capito non sono molto socievole, non riesco ad aprirmi subito alle persone come fai tu, ecco! Pensavo di avertelo già detto.»
Spartaco notò l'espressione della ragazza, il mento increspato indicava che non fosse orgogliosa di ciò che aveva rivelato, del proprio carattere. Gli venne naturale sollevare la destra e strizzarle il mento tra due dita, mentre le chiedeva, con una certa tenerezza:
«Allora è per questo che non sorridi mai?»
Irene parve titubante, sbuffò per il buffetto e rimase in bilico. Confidarsi con Spartaco o no? Era questo il dubbio che le si agitava nella testa, lo capì anche lui, mentre la osservava dare un calcio ad un sassolino inerme.
«Sì, anche...» sussurrò.
«Che significa “anche”? C'è dell'altro?»
Improvvisamente Spartaco si sentiva come passato in una posizione di vantaggio. Se tentare di baciarla era stato un errore di valutazione, adesso sentiva di aver toccato le corde giuste per indurre la ragazza ad aprirsi sinceramente.
Irene rispose con un'alzatina di spalle. Spartaco non sopportava quella reticenza, sbuffò piano e fece per andarsene. Evidentemente aveva scelto di non confidarsi.
«Ti ricordi... - disse invece lei, bloccandolo sul posto – Filippo?»
Quando si voltò, Spartaco aveva le sopracciglia aggrottate nello sforzo di trovare un collegamento logico.
«Il tipo che è venuto a litigare in ufficio?»
Irene annuì evitando il suo sguardo.
«Beh, ecco, io non sono sempre stata così, ma... - esitò ancora, poi si decise - ti va di fare due passi?»


Spartaco stava seguendo l'amica da qualche minuto, camminando al suo fianco senza fretta e non aveva bisogno di chiederle ulteriori spiegazioni. Si stavano allontanando dal chiasso del pub e Spartaco sapeva che stava aspettando il momento in cui Irene si sarebbe sentita libera di dire tutto ciò che voleva e ad un certo punto gli parve che non avrebbe avuto importanza se quel momento non fosse giunto quella stessa sera.
“Forse è questo che significa essere amici?” si chiese. Forse era così che si sentiva Giovanni, che reputava più sensibile di sè, ogni volta che ascoltava le sue lamentele senza osare interromperlo.
«Diciamo che mi ero presa un bella cotta per Filippo.»
Spartaco ebbe bisogno di un secondo per dare un senso a quelle parole, tanto profondamente era perso nei propri pensieri. D'altra parte il significato di quella frase era alquanto misterioso.
«Tu? Per lui?!» chiese, incredulo.
«Già. Io sono sempre stata costretta ad essere perfetta a casa. La studentessa modello, la brava figlia, quella che non è mai giù di morale... e credimi se ti dico che è stato piuttosto stancante. A casa ero inappuntabile, ma fuori dalla vista dei miei, spesso, tendevo a perdere un po' del mio spirito.» spiegò Irene, che ormai aveva preso il via e sembrava intenzionata a raccontare “una lunga storia”.
Spartaco studiava le sue espressioni, mentre lei faceva di tutto per evitare il suo sguardo, fissando ora l'orizzonte ora il marciapiede.
«A quel tempo non ero propriamente una “musona”, ma diciamo che preferivo rimanermene in disparte, “a riposo”. Poi all'università ho conosciuto Filippo. Lui mi veniva sempre a cercare, mi stava ad ascoltare, si sforzava di farmi ridere, mi riempiva di abbracci e... niente, è così che mi sono innamorata di lui. Credevo di avere un posto speciale tra le sue conoscenze, dato che mi riservava tante attenzioni, prima di scoprire che ero solo la sua azione umanitaria. - disse con malinconica ironia - Evidentemente “salvare la povera ragazza triste” lo faceva sentire un eroe o solo più in pace con se stesso, perché quando ho cominciato a farmi altri amici lui ha cominciato a lasciarmi da parte. Si capisce: la missione era compiuta e il buon samaritano era riuscito nel suo eroico salvataggio. Poi lui si è messo con una ragazza e io sono partita in Erasmus e ho fatto di tutto per perdere i contatti. Fine della storia.»
Spartaco aveva voglia di farle delle domande, ma si sforzò di rimanere in silenzio, come se non avesse avuto il diritto di manipolare i pensieri e le parole dell'amica.
«Non avevo più voglia di essere così vulnerabile, capisci? - riprese Irene dopo una breve pausa, cercando per un attimo gli occhi di Spartaco e la sua comprensione - Non volevo che mi capitasse ancora una cosa del genere, non volevo più essere la missione di nessuno e preferivo essere “quella musona senza amici” piuttosto che “la poveretta che avrebbe bisogno di un amico”. Non mi importa se ho chiuso tutti fuori, non voglio la compassione di nessuno.»
Spartaco guardò dentro lo sguardo fiero di Irene e pensò a come cozzasse con quello dolce e limpido che aveva intravisto qualche volta, negli ultimi giorni.
«Adesso Filippo è tornato a cercarmi e sai perché? Perché ha un problema! Ah! Come se io fossi in debito e dovessi ricambiare un favore!»
Era stizzita, o almeno così sembrava, ma Spartaco ricordava bene che dopo il loro alterco Irene aveva abbracciato quel ragazzo, l'aveva consolato, nonostante le sue parole fossero adesso piene di rabbia.
«Però l'hai già perdonato.» mormorò come se stesse parlando a se stesso e anche Irene finse che quel pensiero non fosse stato espresso ad alta voce.
Spartaco pensò di nuovo a Giovanni e alla sua capacità di dire tutto con una sola frase. Si fermò, facendo arrestare anche Irene, che si voltò finalmente verso di lui. Si sentì stupido, perché non gli veniva in mente niente di sensato e con due dita le strinse il mento come aveva già fatto poco prima, come per sciogliere la sua espressione corrucciata. Parve funzionare, perché Irene si rilassò un poco.
«Scusa. Avrei dovuto dirti che c'erano anche i miei amici stasera.» disse il ragazzo e subito seppe che aveva detto la cosa giusta, perché gli occhi di Irene divennero docili e teneri come poche altre volte.


Irene pensò che con l'umore che si ritrovava qualsiasi canzone allegra le sarebbe suonata malinconica e per questo ancor più straziante. Cambiò stazione radio per un paio di volte, poi si bloccò alle note di una vecchia ballad che le riportò alla mente un ricordo preciso e affilato come un pugnale. Quella sera non lo sfuggì come faceva di solito, cambiò marcia ed alzò il volume, sentendosi stranamente triste e forte.


Al momento la serata stava vincendo il concorso per la festa più triste dell'anno, anzi, della sua vita. Irene avrebbe voluto lasciarsi andare e passare una bella serata per salutare i propri amici e colleghi di università, ma ne erano rimasti davvero pochi con cui poter scambiare due parole, la maggior parte dei presenti erano talmente ubriachi da non riuscire nemmeno a reggersi in piedi. Le dispiaceva per Marco che aveva messo a disposizione la villetta fuori città, mandando in vacanza i suoi per festeggiare la fine della sessione d'esami, perché l'indomani si sarebbe trovato diversi “resti” della serata a giro per casa. Sospirò, facendo ondeggiare le gambe che penzolavano dall'alto del muretto di recinzione del giardino ed accarezzò con un brivido l'erbetta fresca che raggiungeva la piante dei suoi piedi scalzi. Le scarpe col tacco a spillo erano accanto a lei, relitto dell'eccitazione che aveva permeato i preparativi. Erano state una scelta deliberata e quasi una sfida: sapeva bene che con quei décolleté addosso sarebbe stata più alta di una buona metà dei ragazzi presenti, che, frequentando la facoltà di Ingegneria, non erano pochi. Semplicemente Irene voleva ostentare che non le importasse di mettere in soggezione i maschi e uno in particolare. Purtroppo era solo facciata, si era pentita della scelta e aveva provato l'impulso di togliere le scarpe appena Filippo le era andato incontro per salutarla.
«Woah! Che fai lassù, Renetta? Controllo pidocchi?» aveva scherzato il ragazzo, che in realtà la superava ancora di qualche centimetro, con la sua solita interiezione, che solo nella sua bocca poteva assumere fascino e con quel soprannome che solo lui utilizzava.
«Con te c'è poco da controllare!» aveva risposto lei, accennando al suo taglio di capelli.
Quando l'aveva visto per la prima volta con la cresta da moicano gli aveva dato dello stupido e continuava a prenderlo in giro, non avrebbe mai ammesso ad alta voce di trovarlo sexy. Non era solo per il taglio di capelli, in verità, era sexy per il semplice fatto di essere sempre se stesso, perché diceva sempre quello che gli passava per la testa, si vestiva fregandosene delle ultime tendenze, sorrideva in un modo che avrebbe surriscaldato anche una mela. Magari una renetta.
Era Filippo, semplicemente Filippo, tanto aperto ed espansivo, carismatico, che era bastato sedersi accanto a lui per la prima lezione per conoscere in poco tempo tutti gli altri compagni del suo corso e non solo.
Irene alzò gli occhi al cielo, rimpiangendo di non poter distinguere alcuna costellazione a causa dell'inquinamento luminoso della città, ma rimase ugualmente con il naso all'insù, finchè un rumore non la fece voltare.
«Ehi»
A parlare del diavolo spuntano le corna” pensò con un sorrisetto.
«Qual è il resoconto dei danni, là dentro?» chiese in tono scherzoso.
«Dunque, si sono formati laghetti artificiali di varia natura qua e là, il Santoro sta piangendo da mezz'ora e la Innocenti ha fatto uno spogliarello che... woah! Sembra lo faccia di mestiere!»
Irene cercò di mostrarsi divertita da quel racconto, ma non lo era affatto e Filippo stava usando un tono un po' strano.
«Che c'è?» si decise a chiedere dopo qualche secondo di un silenzio stranamente teso.
«No, niente, è solo che...»
Irene deglutì: quello non era mai un buon inizio.
«Ho parlato con Costanza, prima.»
Oh. Porca vacca.
«Quindi?» l'unico piano d'azione era fingere indifferenza e tenere la respirazione sotto controllo.
«Niente. - Filippo si guardava i piedi ed era già un atteggiamento piuttosto strano per un tipo estroverso come lui - È la verità? Ti piaccio?»
Estroverso e diretto.
Irene non perse tempo a riprendere fiato.
«Mi piaci.» disse.
«Woah! Senti Irene...»
Pessima, pessima cosa: l'aveva chiamata per nome, il suo nome completo e non un bizzarro soprannome. Non volle ascoltare altro, scese dal muretto con le scarpe in mano e gli andò incontro.
«Ma questo non vuol dire nulla, non devi dirmi nulla.»
Irene constatò con sollievo che la sua voce era ferma e che riusciva a mantenere il sorriso.
Poteva farcela, come ce l'aveva fatta poco prima, quando aveva sorpreso Filippo a baciare Costanza, l'unica persona al mondo che sapesse quanto il ragazzo le piacesse. Non ce l'aveva con lei per il fatto di aver pomiciato con la sua cotta, Irene stessa aveva notato l'attrazione del ragazzo nei suoi confronti, ce l'aveva con lei perché aveva rivelato il suo segreto più intimo.
Ora non voleva sentirsi dire che per lui era solo un'amica, che lui non si era mai accorto del suo interesse o cose del genere. Lo sapeva già, sapeva già tutto. Stupida era lei per essersi innamorata, per aver interpretato i suoi sorrisi, i suoi abbracci e quello stupido soprannome come segni del suo interesse per lei, prima di capire che quello era il suo comportamento con tutte.
«A marzo vado in Erasmus, pensi davvero che io voglia qualcosa di serio adesso?» gli chiese con la solita calma e l'espressione distesa.
«No... io... no, certo.» disse lui, un po' stupito.
Irene stava bene, altrochè, se la stava cavando alla grande, nonostante quella canzone malinconica che proveniva dall'interno della villa. Stirò maggiormente il sorriso.
«Costanza non ti ha detto che l'ho incoraggiata io?»
Evidentemente no”. Dedusse notando gli occhi sgranati del ragazzo.
«Allora te lo dico adesso e ti dico anche un'altra cosa: vi auguro tutto il bene del mondo e siete una bella coppia, faccio il tifo per voi, ma se non vuoi farla soffrire smettila di sorridere a tutte.»
«Cosa...?» chiese Filippo.
Il suo smarrimento confermava l'ipotesi che si era fatta Irene: lui non se ne rendeva conto. Non capiva che ad essere gentile con tutte, a spacciare abbracci e sorridere a quel modo ad ogni ragazza poteva lanciare messaggi fraintendibili, che poteva far sentire speciale una ragazza solo in quel modo.
«Smettila di essere gentile con tutte - ripetè prima di superarlo, camminando lentamente, a tempo con quella maledettissima ballad che le si sarebbe incisa nella mente per sempre - Ciao, non penso che ci rivedremo prima della mia partenza...»
«Ciao... - mormorò Filippo. - Irene!» la richiamò subito usando il suo nome per intero - Allora siamo a posto?» disse in un tono che poteva sembrare sia una domanda che un'affermazone.
Irene si limitò ad alzare una mano in segno di saluto, senza neanche voltarsi, come a sottolineare che non ci fosse alcun bisogno di ripeterlo. FIlippo rimase in giardino mentre lei se ne andava da quel disastro di festa, con la gola che bruciava e le lacrime che non resistevano più dentro gli occhi e quelle note tristi a rimbalzarle nella testa.


Ecco perché Irene aveva smesso di sorridere, perché sapeva quanto male potesse fare un sorriso.
Quando entrò in casa non accese la luce, sperava solo che il proprio arrivo e la propria presenza passassero inosservate, ma il suo dolore la tradì. Non la spinse ad urlare, a pestare i piedi per terra o sbattere le porte, non ce n'era bisogno. Erano i sensi della sorella che captavano la sua sofferenza, lei riusciva ad avvertirla anche senza vederla, senza che le fosse manifestata. Era sempre stato così e lo fu anche allora. Irene sentì una porta aprirsi, ogni luce era spenta, ma lei la trovò ugualmente, sicura, precisa e la abbracciò. Avvolta in quella morbidezza, in quel calore, anche la sofferenza si sentì considerata quanto pretendeva e si sciolse, soddisfatta, uscendo dai suoi occhi come pianto. Irene non fece alcun rumore mentre le lacrime continuavano a scivolare sul suo viso per gettarsi sulla spalla della sorella e la ragazza doveva chinarsi per raggiungerla e posarvi il capo e avvolgere completamente quel corpo amico, tenendolo stretto al proprio come a volerlo sistemare sul vuoto che sentiva di avere dentro.
Pianse finchè ebbe lacrime e per tutto il tempo sua sorella stette con lei, in silenzio. La cullò tra le sue braccia, finchè non percepì più rabbia né dolore nel suo leggero tremore, allora le alzò il viso dalla propria spalla prendendolo tra le sue manine paffute e con lo sguardo ormai abituato all'oscurità le cercò gli occhi. Le asciugò le lacrime e aprì la bocca in un sorriso, mostrando una serie di dentini con una fessura tra gli incisivi, i suoi occhietti tondi quasi scomparvero sotto la spinta di quel sorriso. Non ci fu bisogno di accendere alcuna luce artificiale, perché ora Irene era guidata da quella naturale sprigionata dal sorriso della sorella.




Un anno prima, 17 agosto, ore 02:14
- Kilo, ti sei mai innamorato?
- Sì
- E com'è stato?
- Non corrisposto
- Argh...
- Uno schifo




Il mio angolino:
Come baciare Spartaco secondo gli ultimi capitoli:
  1. adescarlo in uno stanzino puzzolente
  2. fargli bere qualcosa di alcolico...
Con questo capitolo ho il piacere di presentarvi il passato di Irene, ovvero uno dei primi brani che ho scritto di questa storia. Il capitolo è venuto fuori più lungo del solito e non ho voluto spezzarlo. Spero di aver accontentato così chi si lamentava per la brevità dei capitoli e vi avverto: potrebbe succedere ancora XD
FatSalad
   
 
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