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Autore: Koa__    27/09/2017    7 recensioni
Dal testo: Lui e Sherlock parlano molto, in realtà. Anche se alcuni argomenti sono tacitamente banditi, da quando si sono rivisti, ormai due settimane fa, non fanno che raccontarsi cose. Parlano dei casi. Di quelli divertenti, di quelli più pericolosi. Della storia finita male di Victor. Parlano del vecchio professore di anatomia di Cambridge e della sua alopecia, e quando lo fanno ridono di cuore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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III.
 


 
 I had a dream my life would be
So different from this hell I'm living.
[Les Misérables]
 



 
Piove, ma a Londra lo fa spesso. Lo fa da un momento all’altro e senza preavviso. La pioggia non s’annuncia,  arriva e sorprende. Un po’ come Sherlock Holmes, che invita a uscire alle due del mattino. A Londra piove mentre splende il sole, oppure splende il sole mentre piove? Victor s’è domandato spesso se sia più l’una o l’altra ipotesi, salvo poi non riuscire mai a darsi una risposta soddisfacente e concludere il discorso con un infame silenzio mentale. Ci sono molte cose che ricorda della cara e vecchia Inghilterra, ma il pessimo clima è decisamente una di quelle. Piove quando lasciano Portobello Road, nel pieno di una notte di dicembre. Piove mentre viaggiano sul taxi, immersi in un pacifico silenzio che ha il sapore dei vecchi ricordi. Lui e Sherlock, che sono seduti vicini. Senza parlare, con l’occhio che cade di tanto in tanto sulla figura dell’altro e tenta di carpirne il più possibile. Quant’è che non accadeva? Vent’anni o giù di lì. Da prima di Parigi, da prima di John Watson. Da prima di quel troppo tempo che li ha divisi. Pare non sia trascorso neanche un giorno da allora, eppure eccoli. Victor sorride al ricordo. Poi ride della propria stupidità. E quindi s’addolcisce al pensiero di averlo di nuovo accanto. Sorride mentre il ticchettio della pioggia colora il loro silenzio di un’atmosfera delicata e intanto guarda al di fuori, oltre i vetri appannati. Pensa a Londra che è caotica, nervosa e zuccherosa. Odiosa quando piove. Perché piove, ancora e senza smettere. Più forte di prima. Quasi con l’intensità travolgente un temporale estivo. Victor non la capisce, Londra. Fatica ad adattarsi, anche se crede sia per la stanza d’albergo e per il suo non avere una casa, né un qualcosa di concreto da fare per tutto il giorno. Ma a Sherlock piace, lo capisce da come gli brillano gli occhi. Gli stessi che s’immalinconiscono di una dolce tristezza mentre la osserva dal finestrino, con il mento appoggiato a un pugno chiuso. Un ghigno appena accennato gli stira le espressioni, quasi come se avesse appena ricordato un qualcosa di buffo. Intanto Victor lo osserva, guardandolo come forse non è mai riuscito a vederlo prima. In effetti scorge un universo di pensieri e parole rinchiuso dietro a un’espressione seria e compassata. Victor ama quell’universo. Il sentimento che lo prende alla bocca dello stomaco è il più strano che abbia provato sino a quel momento. Ha la netta sensazione di sapere già tutto di Sherlock e allo stesso tempo non ha idea di chi sia, non sa a che cosa stia pensando. Ma Sherlock è fatto così. Lo era anche a vent’anni. Sherlock è una magnifica contraddizione nascosta dietro a una faccia perennemente imbronciata. Sherlock è un rebus. È come un disegno che non riesce. Che inizia da una prospettiva pessima e prosegue, incurante, su quella medesima pessima strada. Sherlock, oh, fa vedere così tanto e allo stesso tempo talmente poco di sé, che sembra quasi possedere due differenti personalità. Adesso, per esempio, mentre viaggiano su di un taxi in una Londra trafficata, lo sta fissando di sbieco e con un’intensità tale che a Victor tremerebbero le ginocchia se soltanto fosse in piedi. No, Victor non ha davvero la minima idea di cosa possa passargli per la testa. E sarà anche un vigliacco, uno stupido ma le sue intenzioni scelgono la via di fuga. China il viso. Dannatamente incapace di sostenere il suo sguardo. Addirittura arrossisce, perché quegli occhi di cui ha tentato inutilmente di scorgerne il fondo, ora sono piantati su di lui e lo guardano con una determinazione, che nell’Holmes dei suoi ricordi, proprio non c’è mai stata.

Sì, è cambiato. Sherlock è diverso dai tempi dell’università e Victor se ne accorge anche dalla maniera in cui non dice niente. Per come se ne rimane in silenzio, da una parte. Senza mai accennare a una parola. Victor lo capisce da come lo guarda e anche da come non lo fa. Ricorda un altro Sherlock. Più giovane, più ingenuo nella maniera di concepire i rapporti con le persone. Ricorda uno Sherlock che fremeva dalla voglia di raccontare, di parlare, di farsi capire. Ricorda uno Sherlock che tentava, invano, di comprendere l’animo umano e che falliva miseramente nel tentativo di farsi accettare. Questo Sherlock Holmes, quello che si trova davanti in una notte dicembrina, del mondo, ne sa pure troppo. E si protegge. Lo fa schermando le espressioni del viso, mordendosi le labbra e trattenendo parole che vorrebbe dire. Lo fa rintanandosi in un palazzo mentale immenso e nel quale ha nascosto tutto il suo piccolo universo. Questo Sherlock si protegge dal resto mondo per timore che il suo cuore si spezzi di nuovo. Victor ne è certo perché, in questo, loro non sono mai stati troppo diversi.

«Vic, tu…» La sua voce sferza il silenzio. Lo squarcia come fosse una tela. Sherlock parla ma non chiede. Sussurra ed è come se gridasse. Non domanda, eppure il non detto è talmente chiaro che si sente come a fronte di un interrogatorio. Entrambi accennano a un qualcosa che han già capito.

Cosa siamo?

E Victor vorrebbe rispondergli. Parlare. Dirgli tutto quanto. L’amore che prova. Quello di adesso. Quello di allora. Vorrebbe perdersi nei ricordi dell’università che si mescolano a sentimenti strani. Ma tutto ciò che avrebbe da confessare riguarda una sfera talmente intima della propria esistenza, che non desidera condividere neanche un timido respiro. Quindi nega. Appena. Con un cenno del viso. Proprio non può dirglielo a che cosa pensa.
«Plus tard» sussurra mentre la pioggia s’infittisce e il ticchettio si fa più frenetico. Sherlock non risponde, occhieggia l’uomo alla guida e in un istante pare abbia capito. Poi cade in un pacifico mutismo.

Plus tard. Pensano entrambi, sospirando.
 

Victor non ha portato poi molto da Parigi. In valigia ha messo pochi abiti (neanche tutti), effetti personali, la copia di Les Miserables che Sherlock gli ha regalato anni prima, un lettore di musica che deve avere una decina d’anni e ovviamente il proprio album da disegno. Non ha l’attrezzatura da pittura. Le sue tele, quelle già finite e quelle no, la tavolozza e i pennelli... Tutte le sue cose le ha lasciate a Parigi. È riuscito a farsele spedire dalla propria manager, alla quale dovrà fare una statua un giorno o l’altro. Perché non ha davvero idea di come abbia fatto a convincere “lui” a dargliele. Ad ogni modo, ora sono in un deposito qui a Londra. Appena si trasferirà in una casa decente potrà tornare a dipingere. Non vede l’ora. Il suo lavoro gli sta già mancando come la terra sotto i piedi. La sola, seppur magra, consolazione è un vecchissimo blocco di fogli. Lo ha da anni e in effetti non lo ha mai utilizzato molto. Gliel’ha regalato suo padre dopo che s’è laureato e da allora si possono contare sulle punte dita le volte in cui l’ha sfruttato. La copertina odora ancora di pelle e non ha perso di lucentezza, molte delle pagine sono intonse e spesso Victor le trova uno sfacciato invito a riempirle. Quello è il suo album personale. Non lo ha mai fatto vedere a nessuno e infatti lui ne era assurdamente geloso, tanto che Victor ha perso il conto di quante volte è stato costretto a ripetergli che lì dentro c’erano solo schizzi. Pezzi di corpi senza volto. Occhi senza un’anima. Esercizi per distrarre la mente o anche solo per tenere le mani impegnate in qualcosa. Niente di rilevante o che valga la pena di mostrare. “Lui” non ci ha mai davvero creduto e tutte le volte che usciva fuori l’argomento finivano per litigare, ma questa è davvero un’altra storia e adesso non ci vuole davvero pensare.

Victor lo ha con sé, naturalmente. È stata una delle prime cose che ha ficcato in valigia, non poteva neanche concepire l’idea di andare via senza. Non se ne separerebbe mai e soprattutto non permetterebbe a nessuno di sfogliarlo. Perché sì, ha mentito. Lui aveva ragione e ciò che lì dentro è disegnato, ha sempre avuto un valore sentimentale. Lui doveva essersene accorto da come Victor osservava i disegni, dalla maniera in cui accarezzava il bordo delle pagine o i tratti di un viso appena abbozzato. Inutile mentire. Oramai non serve tacere o raccontarsi ulteriori bugie. C’è Sherlock, in quelle pagine. Pochi ritratti messi insieme nel corso degli anni. Niente di più che tentativi di ricordarne i tratti del volto. Le pieghe dei ricci dei capelli. L’infittirsi delle rughe della fronte mentre era su un problema particolarmente complesso da risolvere. La serietà dello sguardo mentre suonava. Ne ha disegnato la morbidezza del corpo e quelle forme longilinee. Ha disegnato le sue mani, nodose e lunghe. Dita affusolate, perfette per uno Stradivari. Ha tentato di immaginarselo a quarant’anni, chiedendosi quali differenze ci sarebbero state con l’immagine che di lui aveva stampata nella memoria. Ci ha provato, a dimenticarlo. Ha tentato con tutto se stesso. Ma come un nomade che sente il bisogno di tornare a casa, lui s’è ritrovato a rinvangare quel passato ormai lontano. Tante volte ha provato a convincersi che era soltanto un modo per non perderlo una seconda volta, una maniera come un’altra per non lasciare andare un pezzo della propria vita. Ma ora che glielo porge, che lo dà al suo Sherlock con mani tremanti e senza dir nulla, capisce che si tratta molto più che di semplici disegni. E che forse, da una qualche parte tra il chiaro e lo scuro, ci ha infilato anche tutto il suo amore. Tutto quello che provava e ha provato. Tutto l’affetto. La passione. Il dolce ricordo. La nostalgia. Il desiderio. La mancanza di un uomo che mai ha smesso del tutto di adorare.
«Ho provato a ricordarmi di te» dice ora Victor, chinando lo sguardo mentre le guance si tingono di rosso. Perché vorrebbe guardarlo negli occhi, ma proprio non ci riesce. Non ce la fa nemmeno a sondarne le reazioni mentre osserva i disegni. Quindi tiene il volto basso e gli occhi serrati. E intanto, uno dopo l’altro, tutti i sentimenti e i non detti che negli anni lo hanno tormentato, passano tra le dita di Sherlock Holmes. È come esser nudi.
«Non credo d’esserci riuscito» ammette, prima di decidersi a sollevare il viso «i tuoi occhi sono un bel problema, lo sai? Credo sia impossibile riuscire a disegnarli in maniera decente, occorrerebbe un costante studio ravvicinato.» Victor stira appena un sorriso, scherza e Sherlock afferra subito le sue intenzioni. È una maniera di sdrammatizzare, un modo come un altro per introdurre il discorso. Qualche istante più tardi, infatti, anche Sherlock fa lo stesso e un accenno di risata si affaccia appena, ma qualunque fossero le sue intenzioni subito si smorzano. Svaniscono e un’espressione seria torna prepotente, spazzando via ogni traccia di divertimento. Probabilmente è per questo che non se lo aspetta e che quando gli arriva vicino e gli accarezza una guancia, Victor smette di respirare. Si sente un perfetto idiota, un adolescente in piena crisi ormonale. Dev’essere rosso quanto i suoi capelli e tanto è sconvolto, che non si preoccupa nemmeno di nasconderlo.

«Quanto?» chiede. Senza aggiungere altro. Quasi Victor avesse il potere di capire ogni cosa solamente guardandolo. Victor non lo fa in effetti, ha di nuovo chinato lo sguardo e se anche lo sollevasse su di lui è sicuro che ci capirebbe ben poco. Quel pollice che con delicatezza gli accarezza lo zigomo è una brutale distrazione. E poi, Sherlock è così vicino! Victor si sente un po’ morire e un po’ rinascere. Di certo è confuso e balbettare parole senza senso, pare essere la sola cosa che è capace di fare.
«Io non… non…»
«Quanto ti ha trattato male? Voglio la verità, Vic. Tutta la verità perché ho capito quello che è successo, ma ho bisogno che tu me lo dica. Prima di tutto, ti ha tradito?» Victor annuisce e si fa coraggio. Prendere un bel respiro serve a poco e, in effetti, è quando Sherlock accentua un accenno di stretta a entrambe le sue mani, che una forza di gran vigore prende a scorrergli sotto pelle. Sherlock non fa nulla se non accarezzare le sue dita, ma è un gesto intimo e straordinariamente attento. Victor capitola e, pesantemente, si lascia cadere sulla sedia della piccola scrivania. La distanza che ora c’è fra loro, seppur minima, gli lascia una sensazione di vuoto. Ha freddo e ciò che è peggio è che sente di essere ancora un signor nessuno per lui. Di certo non sarebbe lecito il chiedergli un abbraccio. E, oh, se lo vorrebbe.

«Lui era molto possessivo» inizia così la sua confessione. Parla sulle labbra. In un mormorio lieve. Mentre Sherlock accorcia di poco il nulla che li divide e lo studia dall’alto verso il basso. «Sì, mi tradiva. Non so con quanti o per quanto tempo, ma ne sono più che sicuro perché non faceva nulla per nasconderlo. Anzi, mi sfidava. Una volta mi disse che Parigi è piena di bei ragazzi che fanno pompini meglio di me. E io che per anni me ne sono dato la colpa! Che stupido idiota. Mi dicevo che dovevo essere io il problema e che se cambiavo, se mi mostravo più gentile o accondiscendente, anche lui sarebbe cambiato. Mi sono detto che c’era una speranza e che potevamo salvare la nostra relazione. Io potevo riuscirci. Poi tutte le mie speranze, i miei sogni si sono infranti.
«Lui ti ha…»
«Picchiato? Sì. Violentemente. Mi ha tirato i capelli e colpito il viso molte volte.» Victor indurisce lo sguardo, serra la mascella. Il ricordo ancora brucia, così come si vergogna della propria stupidità. Se avesse accettato prima la fine di quella relazione, si sarebbe evitato l’inferno che ne è scaturito. Dirlo fa male. Ma stranamente, più parole vomita e meglio si sente. E quindi confessa, lo fa dopo aver sollevato il viso ed aver trovato dentro di sé il coraggio necessario. A sorprenderlo c’è lo sguardo Sherlock, che non trattiene la propria furia e la cui ira divampa come fosse un incendio. Victor trema. Non sa come reagire a fronte di tanta rabbia. Però prosegue, con la voce che si spezza e gli occhi che si riempiono di lacrime. Perché è sufficiente ricordare il terrore e la paura provati, per far riaffiorare tutto quanto.
«Avevo paura che mi spezzasse le dita e di non poter più disegnare.» Lo dice tremando e senza riuscire a trattenere le lacrime. Sherlock gli s’inchina di fronte, gli passa una mano tra i capelli e poi scende sul viso. Non parla, ma per Victor neanche è necessario che lo faccia. Capisce tutto. La dolcezza del tocco. L’impotenza frustrante che prova. Il disagio, la rabbia. Sherlock è un vulcano pronto a esplodere. «Lui era geloso di tutto. Anche della pittura, dei disegni a matita. Non gli ho mai fatto vedere il mio blocco, gli dicevo che erano esercizi e che non era niente di che. Lo so, erano bugie e ho sbagliato a mentire. Però non volevo che ti vedesse e che capisse che una parte di me era rimasta così ancorata al passato, da sentire il bisogno di disegnarti. Di mettere su della carta ciò che di te ricordavo. Mi sentivo colpevole perché mi pareva di tradirlo. Fino a che non ho capito che non ero io il problema.»
«Cos’hai fatto?» Victor vibra. Apre e chiude gli occhi. Sospira e trema. Ed è strano perché, anche se non si è mosso, lo sente ancora più vicino. Sherlock gli sfiora il viso e non la smette proprio di tenere gli occhi fissati su di lui. È proprio un’idiozia, ma si sente al sicuro e protetto. Sa che anche se lui sfondasse la porta, non potrebbe accadergli nulla di male. Non più.
«Volevo ribellarmi, non volevo che mi toccasse più e neanche per fare l’amore. Però sapevo che sarebbe stato inutile fronteggiarlo a viso aperto. Parlarci mi avrebbe solo portato a peggiore la situazione.»
«E così hai iniziato a progettare la tua fuga. Sagace, ma non me ne stupisco: non sei mai stato un idiota.» Victor sorride perché sa che Sherlock non dice cose del genere a chiunque. Anni fa riteneva uno stupido qualunque essere vivente entrasse nel suo raggio di azione. Lui faceva parte delle eccezioni, così gli diceva. Victor ci ha pensato molto, spesso si è domandato quanta verità ci fosse in certe uscite e quanto invece facesse parte di un po’ di teatrale scena.
«Già, la prima persona a cui l’ho detto è stata la nostra padrona di casa. Le ho spiegato com’erano le cose. L’ho avvisata che me ne sarei andato presto, le ho addirittura pagato la mia parte di affitto in anticipo e lei mi ha promesso che mi avrebbe aiutato in qualche modo. Poi è toccato a mio fratello e alla mia manager. Lei mi ha trovato un lavoro qui e mi ha detto che non avrebbe avuto problemi a trasferire a Londra la mia attività. Sono anni che prova a farmi tornare in Inghilterra, ero io a voler restare a Parigi. Comunque, abbiamo agito in silenzio ed evitando che lui capisse qualcosa. Sino a due settimane fa. Un mattino, mentre era via, ho fatto le valigie e… beh, non avrei mai creduto che la mia vita sarebbe stata un simile inferno. Eppure è così che è andata. Che ci vuoi fare? Almeno io non ho dovuto fingere la mia morte.»

Il silenzio scende lieve. Sherlock ancora se ne sta chinato tra le sue gambe. E lo guarda. Senza smettere un solo istante di toccarlo gli sfiora i capelli, gli tocca il viso. Non parla ma respira svelto. E fa trasparire tutto, forse più di quanto vorrebbe. Victor vede troppe cose nei suoi occhi, tanti sentimenti. Sfaccettature differenti di emozioni contrastanti. Non dovrebbero osare tanto, o forse sì? Victor non è certo di sapere cosa sia meglio per loro e quindi si lascia andare. Sherlock gli stringe i polsi. Accarezza il dorso della sua mano e poi intreccia le loro dita. Victor vorrebbe baciarlo e dire le tante altre cose che, non dette, ancora aleggiano fra loro. Nemmeno questo dovrebbe fare. Ma lo fa. Lì e in quel momento, con l’uomo che ama da tutta una vita chino davanti a lui. Parlano, finalmente e dopo decenni. A modo loro. In una maniera stupendamente strana.

«Hai una stanza nel mio Mind Palace» sussurra Sherlock, scostandogli una ciocca di capelli rossi caduta sugli occhi.
«Ti disegno da tutta la vita e non smetterei mai di farlo.»
«Ho suonato per te, anche mentre non c’eri. Anche quando te n’eri andato da anni. Ho composto per te. Ti ho parlato e lo faccio tuttora. Come un pazzo.»
«Ho letto Les Miserables.»
«Io ho visto il musical» ribatte Sherlock e allora entrambi scoppiano in una sonora risata «e l’ho detestato.»
«Non ho mai dimenticato il nostro bacio» mormora Victor. Sherlock nega con un vistoso cenno del capo, ride e lo fa proprio come un tempo. Nemmeno lui, vorrebbe dire. Ma tace perché non serve che lo faccia davvero. Perché ha una stanza nel mind palace. Perché, quel bacio, gliel’ha dato proprio lui. Perché si amavano allora e si amano adesso. Semplicemente.
«Lo sai anche tu che è un pessimo tempismo per… sì, tu con John e io e… non esiste momento peggiore per cominciare qualcosa.»
«Ed è per questo che è perfetto.»

Perfetto.

Quella parola gli rigira in testa a lungo e continuerà a farlo per delle ore. Sì, è perfetto e proprio perché non lo è affatto. Perché sono entrambi inadatti a una relazione. Perché son tutti e due dei pazzi lunatici. Disordinati. Perché hanno tante cose in comune ma tante altre invece no. Perché è troppo presto, o forse troppo tardi. Eppure non sembra importare a nessuno dei due. È tutto così giustamente imperfetto. Lo è il bacio che si danno. Leggero. Delicato. Che trattiene una passione appena accennata. Che trasuda di ricordi. E si emoziona per il nuovo. Perché è il momento peggiore per amarsi, e va dannatamente bene così.
 


Continua


 
 
Un grazie a coloro che stanno leggendo questo… bah, esperi
mento?
   
 
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