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Autore: Micchan018    28/09/2017    0 recensioni
Emanuele e Giulia non potrebbero essere più diversi. Hanno stili di vita diversi, passioni diverse, amicizie diverse, caratteri diversi.
Hanno però una cosa in comune: un passato da dimenticare, e la voglia di riscatto.
E' questo che li fa avvicinare e che, dopo il loro primo incontro nel locale più squallido che si possa immaginare, li attira l'uno verso l'altra con una forza che nessuno dei due avrebbe potuto immaginare.
Questa potrebbe sembrare la classica storia del cattivo ragazzo che s'innamora della brava ragazza e cambia per lei.
In realtà è la storia di come, a volte, l'amore per una persona tanto diversa da te può cambiarti al punto da non riuscire più a riconoscere te stesso.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Lanciai il cellulare sul divano, senza preoccuparmi del fatto che potesse rompersi, e mi passai le mani tra i capelli.
«Iolanda, sei la più grande cogliona dell'universo!» sbraitai, camminando nervosamente per la stanza.
Lei stava seduta al tavolo della cucina, ridendo e sorseggiando tranquillamente il suo the al lampone.
«Perchè?»
«Come perché?! Adesso questo si aspetta che esca con lui.»
Iole prese un lungo sorso di the, per poi posare la tazza sul tavolo e rivolgermi un sorriso serafico. «E tu escici, no?»
La guardai sbalordita, poi scattai verso il tavolo e posai entrambe le mani sulla superficie di vetro, abbassandomi in modo da poterla guardare dritta negli occhi.
«Forse ti sono sfuggiti due piccolissimi dettagli.»
«E sarebbero?» La sua aria divertita e strafottente non faceva che irritarmi ancora di più.
«Punto primo, sei stata tu ad accettare il suo invito, non io. Punto secondo, io non ci voglio uscire.»
Lei sospirò, come se fosse stata una madre che aveva a che fare con un bambino molto stupido.
«Giulia, tu vuoi uscirci, ma te la stai facendo sotto.»
Sentii la rabbia crescere come un'onda, e cercai di controllarmi. Calma, Giulia, è pur sempre la tua migliore amica.
«Di cosa avrei paura, sentiamo. Qual'è la tua grande teoria.»
Lei mi fece cenno di sedermi, e io la accontentai esasperata. Quando Iolanda si comportava così mi faceva venire voglia di seppellirla sotto chilometri di cemento.
«Tu hai paura perché tre mesi fa eri fidanzata ufficialmente, perché adesso dovresti essere a Varese a provare il tuo vestito da sposa, non qui a sclerare perché un bel ragazzo vuole uscire con te, e perché, beh, è un bel ragazzo. Davvero un gran bel ragazzo. Un po' arrogante forse, ma credo che sia compreso nel DNA dei gran bei ragazzi. Ti piace, o meglio ti intriga, ma hai paura perché l'ultima volta che sei stata single avevi diciotto anni e non ti ricordi più come si fa.»
Rimasi a bocca aperta, mentre il mio inconscio mi ricordava per quale motivo Iolanda fosse la mia migliore amica. Per quanto mi seccasse ammetterlo, spesso sapeva capirmi molto meglio di quanto non sapessi fare io.
Lei mi guardava con aria soddisfatta, aspettando che trovassi un modo per replicare.
«Ok, forse hai ragione» ammisi «ma rimane il fatto che sono passati solo tre mesi. Io...io devo ancora guarire.»
La mia migliore amica mi rivolse uno sguardo carico di dolcezza, e allungò una mano sul tavolo per sfiorare la mia.
«Lo so tesoro. So che è dura. »
Alzai lo sguardo, e sapevo benissimo cosa dicevano i miei occhi. Urlavano "aiuto, non ci capisco niente."
«Che dovrei fare, secondo te?»
Lei si alzò di colpo, con un grande sorriso. «Devi trovare qualcosa di carino da indossare, e truccarti decentemente. Vieni.» 
Mi fece cenno di seguirla, e mi alzai controvoglia e le andai dietro mentre partiva verso camera mia.
Aprì di scatto le ante del mio armadio, mentre io mi sedevo sul letto con le spalle incurvate e l'aria poco convinta. 
Prima che potessi protestare in alcun modo, aveva già rovesciato sul copriletto accanto a me metà dei miei abiti.
«Iolanda, credo di essere in grado di vestirmi da sola.»
«No, non lo sei. Di solito sì, ma questo è un primo appuntamento e tu sei un po' arrugginita.»
Mentre lei scrutava la pila di abiti, scartando cose e salvandone altre, sentii il cellulare suonare nell'altra stanza. Mi alzai, mentre la mia amica era ancora concentrata sui vestiti, e andai a recuperarlo dal divano su cui l'avevo lanciato. C'era un messaggio, e di chi poteva essere, se non di Emanuele?
Sono le tre meno dieci, pensi di potermi dire dove devo aspettarti?
«Vuole sapere dove incontrarvi, vero?» gridò Iole. La raggiunsi sbuffando, tuffandomi nuovamente sul letto.
«Sì. Io sono abbastanza nuova qui, non conosco molti locali...»
«Infatti nessuno ha parlato di locali. Dagli appuntamento in un posto neutrale, la stazione, una piazza, il locale poi lo sceglierete insieme.»
Osservai sorpresa il volto di Iole, mentre con un sorriso afferrava la pila di vestiti e la rimetteva confusamente nell'armadio, chiudendo le ante. In quel momento, sembrava una specie di guru degli appuntamenti.
«Ok, mi fido...» borbottai, tornando a fissare lo schermo del cellulare.
Possiamo incontrarci alla stazione degli autobus.
«Alzati» disse Iolanda. Vidi che in mano aveva un paio di jeans grigio chiaro, e un crop-top bianco.
«Dovrei uscire così al primo appuntamento?» domandai, osservando gli abiti con fare dubbioso.
«E come vorresti uscire?»
«Che ne so, non sarebbe meglio qualcosa di più romantico?»
Lei alzò gli occhi al cielo, facendomi cenno di togliere i vestiti che avevo ancora addosso dal pranzo.
«Hai ventidue anni, tesoro. Inoltre, un ragazzo così non lo conquisterai col romanticismo.»
«E chi ti dice che voglio conquistarlo?»
Lei non rispose, si limitò a lanciarsi sui miei trucchi mentre io mi cambiavo.
Quando ebbi finito di vestirmi e di indossare un paio di ankle boots neri con dei tacchi larghi e scandalosamente alti, Iolanda mi costrinse a sottostare a una sessione infinita di trucco e parrucco. Quando finalmente ebbe finito, erano le quattro meno venti.
Lei incrociò le braccia, scrutandomi con aria soddisfatta.
«Non c'è niente da fare, sono la migliore.»
«Sarai anche la migliore» sbuffai «ma sono in ritardo.»
Presi un giacchino di pelle nero dall'armadio e lo indossai, per poi afferrare la borsa e schizzare verso la porta.
«Oh Iole, grazie mille, sei stata così gentile!» mi scimmiottò lei. Io sorrisi, poi tornai indietro e le stampai un bacio sulla guancia.
«Grazie, Iò.»
«Prego. Divertiti, mi raccomando.»
Mi sorrise, e forse il suo sorriso fu l'unica cosa che mi diede il coraggio necessario ad uscire dalla porta ed incamminarmi verso la stazione degli autobus.

Quando mi sedetti sulla panchina della pensillina A, erano le quattro e dieci. Ero in ritardo, ma a quanto sembrava lo era anche Emanuele. 
La stazione era deserta, le tre pensiline erano vuote e l'unico autobus solitario parcheggiato a poca distanza da me era spento. Il cielo era plumbeo, e tutto contribuiva ad aumentare il mio nervosismo. Continuavo a picchiettare in terra coi tacchi, muovendomi sulla panchina come se fossi stata seduta sulle spine. 
Emanuele non accennava ad arrivare, e non era più online da parecchio. Forse ha deciso di darmi buca, magari sarebbe meglio così.
Proprio quando formulai questo pensiero, sentii una mano picchiettarmi sulla spalla. Mi voltai di scatto, e quando vidi che era lui non seppi se sentirmi sollevata, o ancora più spaventata. Mi sorrideva, e si capiva che stava aspettando che dicessi qualcosa.
Mi ricordai le parole di Iolanda mentre armeggiava con i miei ombretti. Cerca di mostrarti sicura di te, non fargli capire neanche per un secondo che te la stai facendo sotto. Altrimenti prende il controllo lui, e poi è un casino.
Sorrisi, sperando di sembrare convincente, e dissi la prima cosa che mi venne in mente.
«Sei in ritardo.» Cercai di mantenere la voce ferma, ma sapevo che era un tentativo ridicolo.
«Lo so» disse lui con noncuranza. Sembrava che niente al mondo fosse in grado di turbarlo. «Allora, dove vuoi andare?»
Mi alzai in piedi, e distolsi lo sguardo. Me ne pentii un secondo dopo, sicuramente aveva intuito il mio nervosismo.
«A bere qualcosa, direi. Mi sembra l'idea migliore.» Indicai il cielo grigio sopra di noi, con le nuvole che preannunciavano una pioggia torrenziale.
Lui mi sorrise, e tirò fuori sigaretta e accendino dalla tasca dei jeans.
«Vieni» disse «conosco il posto ideale.»
Si incamminò attraverso il piazzale deserto, e io lo seguii cercando di tenere il passo. Stava due o tre passi avanti a me, e avevo la sensazione che mi stesse guardando, cercando di non farsi notare. Pensa a qualcosa da dire Giulia, forza. I silenzi imbarazzanti sono una pessima idea.
«Comunque, scusa per il ritardo. Mio fratello ha voluto a tutti i costi che gli prestassi la moto per non so quale motivo, sono dovuto venire a piedi» disse lui, togliendomi il peso di dover pensare a un argomento di conversazione.
«Hai una moto?» domandai, attaccandomi a quel dettaglio come a un'ancora di salvezza.
Lui annuì, gettando la sigaretta in un tombino.
«Una Kawasaki. Un giorno ti porto a fare un giro, se ti va.»
Io sorrisi. Le moto mi piacevano un sacco. Bel ragazzo e moto, iniziava a guadagnare fin troppi punti.
«Beh, vedremo. Se oggi ti comporti bene, potrei anche concederti di farmi fare un giro in moto.»
Lui si voltò e mi sorrise, un sorriso che sapeva di sfida; poi indicò la vetrina di un bar a pochi passi da noi.
«Può andare?» chiese.
«Se fanno da bere, va più che bene.»
Mi sembrò di sentirlo ridacchiare, mentre apriva la porta del bar e scivolava all'interno. Aspettò che lo seguissi, prima di richiuderla. Il locale era carino, con un ampio bancone in legno e una serie di tavolini che ricoprivano il perimetro formando una specie di ferro di cavallo. Ogni tavolo aveva dei divanetti in pelle bordeaux al posto delle sedie, e al soffitto erano appesi dei grossi lampadari color ottone. Le uniche altre fonti di luce erano la pesante porta a vetri e un paio di finestre, il che contribuiva a creare un'atmosfera di riservatezza che aveva un che di romantico.
Ci accomodammo ad un tavolo, uno di fronte all'altra, e fummo raggiunti da una cameriera in meno di un secondo. Fece per porgerci due menù, ma Emanuele la fermò con un gesto della mano.
«No grazie, non servono. Può prepararci due spritz aperol?» 
La cameriera annuì, e sparì senza dire una parola. Io lo guardai con un mezzo sorriso.
«Non è un po' presto per l'aperitivo?»
Lui indicò la maglietta che indossava. «Non è mai presto per gli apertivi.» Everything ends except for parties, tutto finisce tranne le feste. 
«Mi sembra una filosofia di vita un po' pericolosa» commentai, togliendomi la giacca di pelle e posandola accanto a me.
«Può darsi che lo sia, ma abbiamo una vita sola, quindi perché non godercela?»
«Mh...» posai il gomito sul tavolo, adagiando dolcemente il viso sul palmo aperto della mano «quindi tu sei uno di quei tipi da "carpe diem"?»
Lui rise, e mi guardava dritta negli occhi. Cercai di nascondere il brivido che mi attraversò da capo a piedi.
«Io sono un tipo da "non perdere mai tempo", e mi sembra di avertelo già dimostrato.»
«Sì, ma io avrei usato parole diverse.»
«Ad esempio?»
«Impaziente.»
Fece una smorfia, poi si allungò, rilassandosi e incrociando le braccia sul petto.
«Allora, Giulia» i suoi occhi mi scrutavano come se volesse leggermi dentro, come se volesse capire tutto di me con un solo sguardo «cosa ti porta in questo buco di città?»
Io mi irrigidii. Avrei dovuto raccontargli la storia del mio matrimonio fallito, di come ero scappata per non doverlo più guardare negli occhi, ma sapevo di non averne la forza. Cercai di nascondere l'imbarazzo, mentre gli sorridevo e facevo un gesto noncurante con la mano.
«Iolanda si è trasferita qui, e ho deciso di seguirla. Siamo amiche da tanti anni, e poi era da un po' che volevo lasciare Varese.»
Lui continuava a guardarmi, senza dire una parola.
«Che c'è?» domandai, e questa volta non riuscii ad impedire che il nervosismo trapelasse dalla mia voce.
«Perchè ho la sensazione che tu non mi stia dicendo la verità?»
Non feci in tempo a rispondere, perché la cameriera si ripresentò al nostro tavolo e porse un bicchiere a me e uno a Emanuele. La rigraziammo, e lei si dileguò con un sorriso. Presi la cannuccia tra le dita, e cominciai a giocare con il giacchio, spingendolo in fondo al bicchiere e osservandolo mentre tornava in superficie.
Emanuele prese un sorso, poi mi sorrise. «E va bene» disse «comincio io.»
Io alzai un sopracciglio. «In che senso?»
Lui incrociò le braccia sul tavolo, sporgendosi in avanti. «Io sono nato qui. Vivevo con mia madre, mio padre e mio fratello William» prese un lungo sorso dal suo bicchiere, poi tornò a guardarmi negli occhi. C'era qualcosa di strano nel suo sguardo, una sorta di malinconia. «Un giorno poi, sei anni fa, mia madre e mio padre sono morti in un incidente stradale. Un camion ha perso il controllo in autostrada e loro sono rimasti coinvolti. Io e mio fratello eravamo distrutti, ma abbiamo reagito in modi diversi. Lui è rimasto calmo, ha cercato di andare avanti con la sua vita nonostante il dolore. Io invece mi sono chiuso in me stesso. Non parlavo con nessuno, non volevo vedere nessuno, andavo a scuola due o tre volte a settimane e la maggior parte delle volte entravo in ritardo.»
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo viso, dall'espressione calma ma che nascondeva le sue vere emozioni: un dolore profondo e non ancora superato.
«A scuola c'era questa mia compagna di classe, si chiamava Arianna. Non mi si era mai filata, ma un bel giorno decise che doveva a ogni costo riuscire a farmi dire qualcosa. Continuò così per diversi giorni, finchè finalmente riuscì ad avere una risposta. Non so perchè lo avesse fatto, penso che semplicemente fosse il tipo di persona che, quando vede qualcuno soffrire, non può stare con le mani in mano. Fatto sta che funzionò, ricominciai ad aprirmi e in breve tempo diventammo amici, poi migliori amici, e alla fine ci innamorammo. Siamo stati insieme per due anni...io ero pazzo di lei. Era la prima volta che mi innamoravo, e lei è stata la prima in molte cose. Ero arrivato al punto di vivere e respirare soltanto per lei. Finché un giorno lei ha deciso di lasciarmi. Dal nulla, senza neanche spiegarmi il motivo. L'ho scoperto da solo, qualche mese dopo, quando l'ho vista in stazione, valigie in mano, mentre baciava il mio migliore amico. Non pensavo di poter colpire qualcuno così forte, specialmente lui che per me era come un fratello, e non pensavo di poter piangere così tanto. Si frequentavano da mesi, e stavano per trasferirsi assieme a Milano, dove lui avrebbe frequentato la Bocconi. Volevano tenermelo nascosto, così lei aveva mollato tutto per andare via assieme a lui. Quello stesso giorno sono tornato a casa, ho riempito due valigie e un trolley, e me ne sono andato. Ho passato quattro anni a Giulianova, dai miei nonni paterni, e sono diventato una persona diversa. L'altro giorno ho trovato una foto di Arianna e me in un vecchio diario...ho capito che il dolore era passato, e ho deciso di tornare da William, nella mia vera casa.»
Terminò il suo racconto con un sorriso, e io non riuscii a capacitarmene. Ero stata lasciata all'altare tre mesi prima, eppure in quel momento il mio dolore sembrava niente a confronto con quello di Emanuele. Lo guardavo, studiando ogni dettaglio del suo viso, e iniziai a capire che in lui c'era molto di più del ragazzo testardo e insistente che mi aveva abbordata in un bar la sera prima. 
«Allora, un gatto ti ha mangiato la lingua?» chiese con noncuranza totale.
«N-no, è...» balbettai, distogliendo lo sguardo «...mi dispiace davvero tanto.»
Lui rise, passandosi una mano tra i capelli. «Non devi dispiacerti, ormai sono passati anni. Non so neanche che fine abbiano fatto quei due, e non mi interessa saperlo. Preferisco sapere, invece, la tua storia. Perchè sappi che non mi freghi con la storiella dell'amica che si è trasferita qui e bla bla bla. Io sono stato sincero, è il tuo turno.»
Mi morsi il labbro inferiore, e abbassai lo sguardo sul tavolo. Dei nostri drink era rimasto solo il ghiaccio sciolto e l'alone sul tavolo, così guardai Emanuele con un sorriso di sfida.
«Tu procurami un altro drink, e io ti racconto tutto.»       

   
 
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