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Autore: yonoi    04/10/2017    6 recensioni
Estate 1920: Hansi Wallemberg, cinque anni aggrappati a una grossa cornice col ritratto del padre decorato al valore, arriva dal suo paese di montagna a casa di Iolanda e Arrigo Drusiani. Sarà il loro piccolo affido per questa estate. Arrigo Drusiani ha combattuto nella Grande Guerra, sua moglie Iolanda è esperta nell’arte di riparare le cose. Con i Drusiani, Hansi stabilirà quel rapporto di affetto di cui ha così intensamente bisogno: partito per il fronte, suo padre non è più tornato, e sua madre, che non ha mai smesso di attenderlo, trascorre le giornate sulla soglia di casa.
Col tempo, si prefigurano per Hansi lunghi inverni in collegio, e in seguito l’Accademia militare: qui, si lega sempre più ad un coetaneo che suscita in lui una forte ammirazione, fino ad abbracciarne i valori e ad arruolarsi nelle SS. Sarà l’incontro - fugace e irrepetibile - con il vero amore della sua vita, a provocare in Hans un cambiamento sofferto, eppure definitivo.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2. Nei territori intimi della sua nostalgia
Quella sera, già tardi, quando Hansi Wallemberg si destò finalmente a casa dei Drusiani, lo fece lentamente, senza muoversi e con la cautela necessaria per far sì che nessuno, in casa, se ne accorgesse: voleva avere il tempo per guardarsi intorno ed esplorare il territorio, confidando nella propria capacità di intuire molte cose dalla prima impressione.
         Si trovò sprofondato in un letto a baldacchino grande come la piazza principale del suo paese. La stanza era immersa in un’oscurità silenziosa e remota, a tratti interrotta da una calura di cicale tagliata in spicchi di luce dalle persiane chiuse: dietro alle persiane, si agitava il verde di quel giardino onnipresente. Le siepi dei gelsomini, gli oleandri taglienti, gli alti pini marittimi circondavano la casa con il loro respiro denso.
         Sopra di lui il soffitto di panneggi e di polvere del letto a baldacchino, cortine di velluto che ad Hansi ricordarono gli addobbi nella chiesa di padre Grünewald, viola per la Quaresima e rosso insanguinato per le feste dei martiri. Per l’immaginazione estremamente viva di Hansi, quegli addobbi creavano angoli misteriosi, con la complicità delle candele accese, delle volute attorcigliate degli incensi: pareva di avvertire, impigliato in quegli anfratti, un fruscio d’ali simile a uccelli catturati, un fremito di angeli.
         L’arredamento della stanza da letto dei Drusiani seguiva lo stesso stile lugubre e sovraccarico: un grande armadio a muro, dello stesso legno scuro delle cassepanche di casa sua - Hansi preferì non pensare a certe casse da morto intraviste nella bottega del falegname Goller, che stavano diritte e ordinate sulla parete come guardie d’onore - e un comò con la specchiera maculata dal tempo e dall’umidità. Sopra al comò e a un centrino inamidato e dritto anche lui sull’attenti, il primo di una serie di orologi bizzarri, sparsi qua e là per casa, che scandivano il tempo ciascuno per conto proprio, con una mirabile discordanza di orari: per cui uno suonava sempre al meno un quarto, un altro dopo la mezza, un altro era indietro di almeno quattro ore, un altro avanti di tre. Una volta acquisita dimestichezza con le singole imprecisioni, l’ora esatta si ricavava agevolmente, e l’unico fastidio per chi ancora non ci aveva fatto l’abitudine, era la coda di suonerie che si agitava una di seguito all’altra.
         Proprio in quel momento, l’orologio che troneggiava sul comò della stanza da letto segnò l’ora precisa in cui Hansi era arrivato: le tre del pomeriggio. Col rintocco partì una musichetta metallica, e da una porticina sbucò fuori una coppia di damerini in parrucca, lei con la crinolina, lui con un mozzicone di codino tenuto da un nastro di velluto. Mentre i due ballerini volteggiavano un valzer, prima di scomparire risucchiati di nuovo nel ventre dell’orologio, la pendola dell’ingresso mise in moto i suoi circuiti ritardatari, e scandì le sette in punto col solito rumore di corde strattonate e ingranaggi confusi.
         Seguì un’altra serie di suonerie che Hansi non era riuscito a sentire al suo arrivo, perché ovattate dal portone dell’ingresso: il risultato era un inseguimento di squilli e campanelli, di corde e contrappesi, e valzer d’ingranaggi che si perdevano per corridoi apparentemente infiniti. A mettere fine al tutto, lo strepito convulso dell’orologio a cucù, che arrivava buon ultimo, da un angolo recondito che forse era la cucina.
         Come richiamate da quel clamore che in realtà proveniva da ogni angolo della casa, Hansi si trovò davanti due facce stupite, che lo fissavano tenendosi vicine, per alleviare lo smarrimento di fronte alla novità: una era la donna che l’aveva accolto al suo arrivo, col grembiule e le dita dolci, i capelli sollevati sulle albicocche delle orecchie, le sopracciglia arcuate perché così erano tutte le donne della città, ma anche per lo stupore che in quel momento spalancava gli occhi della Iolanda.     
         Poi c’era, accanto a lei, un uomo in uniforme, con gli stessi occhi dalle profondità tristi che Hansi aveva già visto sul volto di suo padre e di altri come lui, il giorno in cui era andato con sua madre a vederli partire per il fronte, sul treno decorato di canzoni e di fiori.
         Il bambino fu impressionato dalla sua aria disarmata, al punto da indovinarne gli incubi nascosti e le pene segrete: in quell’attimo di assoluta limpidezza che segue al risveglio, riuscì a intercettare la corrente sotterranea che si agitava nell’animo di Arrigo Drusiani, tenente di fanteria durante la Grande Guerra, che a due anni dal congedo non riusciva a prender sonno più di un’ora di seguito, e anche in quell’ora era tormentato da incubi angosciosi - dalla guerra che gli era entrata nella carne a tal punto che di notte gli usciva col sudore, insieme con le urla, l’odore aspro di polvere e ancora la paura.
         Abituato ai volti grezzi, sbozzati alla meglio della gente del villaggio, Hansi fu affascinato dal volto taciturno di Arrigo Drusiani, dai suoi lineamenti pensierosi e gentili, dagli occhi neri e morbidi, come Hansi non ne aveva mai visti.
         Arrigo, dal canto suo, era intenerito dalla piccolezza di quel bambino che più volte, da quando era rientrato dal suo turno di servizio, s’era fermato ad osservare quasi in punta di piedi, mentre dormiva reso più fragile dal sonno, eppure irrigidito da una tensione che non cedeva al riposo.
         -“È veramente piccolo”- aveva sussurrato inquieto, alla Iolanda -“forse non mangia abbastanza”-
         -“L’hanno mandato qua apposta. Lo faremo mangiare, giocheremo con lui. Racconteremo storie. E poi ci vorrà tempo, quello che è necessario”-
         Sprofondato nel baldacchino monumentale, col materasso alto sul quale anche agli adulti toccava arrampicarsi, Hansi appariva solo un mucchietto d’ossa avvolto negli stracci degli abiti. Un mucchietto d’ossa con gli occhi, adesso che finalmente si era ridestato da quel sonno di sasso, e il suo sguardo era di nuovo grande come tutta la stanza: si raggomitolò ulteriormente, nel tentativo di rendersi invisibile, sotto alla coperta che la donna di città gli aveva sistemato, rincalzandolo ai fianchi quando già riposava, perché non prendesse freddo malgrado il caldo tormentoso del pomeriggio. Da sotto a quel guscio, gli tornarono in mente tutti i motivi per cui non doveva fidarsi - l’estraneità del luogo, della lingua, dei volti, la lontananza incommensurabile da casa.
         Decise che la coperta non era una protezione sufficiente: così scivolò pian piano fino alla sponda opposta, e Arrigo e la Iolanda videro un serpentone di flanella sgusciare, e poi saltare e scomparire sotto al letto. C’era parecchio spazio là sotto, oltre ai gatti di polvere e a una frescura deteriorata, che molto probabilmente saliva dalla cantina: era qualcosa di molto simile a una trincea inespugnabile, o almeno così la immaginava Hansi. Dei padroni di casa, emergevano solo le piccole pantofole eleganti di lei - con i tacchetti alti e un ciuffo di piume tra le dita, praticamente delle scarpette da ballo - e gli scarponi stanchi dell’uomo in uniforme. Là sotto non spuntavano né sorrisi né facce, e solo per questo Hansi si sentiva al sicuro: c’era però, in quei volti intravisti di sfuggita, qualcosa che lo attraeva, un pungolo di curiosità irresistibile. D’un tratto, Hansi ebbe la netta sensazione che l’uomo in uniforme e la donna di città sarebbero rimasti a lungo nella sua vita, e che quindi valeva la pena di osservarli, e cominciare a far loro spazio nella memoria.
         Si allungò un poco verso la fessura di luce tra il letto e il pavimento, e buttò fuori un occhio in perlustrazione.
         Lo incuriosivano le sopracciglia della Iolanda, un sottile arco appuntito che ad Hansi parve tracciato con una penna aguzza, appena tinta d’inchiostro. Non andava ancora a scuola, Hansi Wallemberg, ma la penna e il calamaio gli erano familiari, e già sapeva la pazienza necessaria a tracciare le lettere senza inciampare in sgorbi e macchie senza rimedio: sui banchi della piccola aula della canonica, aveva visto più volte la conca per l’inchiostro, gli scarabocchi fatti per sbaglio o per rabbia dai ragazzi più grandi. Due passi più in là, nella sacrestia immersa nella foschia degli incensi, la penna e il calamaio erano in legno antico, eredità dei parroci di quel luogo sperduto: servivano ad aggiornare i registri delle nascite e delle morti, a segnare le offerte per le messe in suffragio. La prima stilografica, unica nel paese e in tutta la valle, Hansi l’aveva vista nella mano dell’herr doktor Gasser, che giorno e notte trottava nel polverone dissestato delle sterrate con un vecchio calesse, un cappello tirolese unto dalle intemperie, l’orologio al panciotto e una borsa con dentro strani arnesi e il quaderno delle ricette. Veniva nelle case e subito si faceva silenzio, le donne preparavano un catino d’acqua tiepida per permettere all’herr doktor di sciacquarsi le mani dopo la visita. Ma il momento culminante, quello che maggiormente impressionava Hansi, veniva quando l’herr doktor Gasser sedeva al tavolo di famiglia, e con tutta la sua stanchezza, che poteva sembrare anche solennità, cavava fuori l’ultimo arnese del mestiere: la penna stilografica, per scrivere la ricetta. Prima di andarsene, già che c’era, dava un’occhiata alle bestie, tirava il bianco degli occhi alle vacche, apriva la bocca ai cavalli, auscultava il belato flebile delle pecore. Gli era sufficiente guardare in faccia il paziente, bestia o cristiano che fosse, e scambiar poche parole per far diagnosi. Tutto ciò richiedeva una grande perizia, ma agli occhi ingenui di Hansi la professione medica pareva semplicissima: per cui aveva già deciso che anche lui, da grande, sarebbe diventato un herr doktor. Magari non avrebbe portato quel ridicolo cappello tirolese, ma di sicuro avrebbe posseduto anche lui una stilografica Waterman.
         Tutto questo accadeva prima che scoppiasse la guerra, e che suo padre fosse richiamato nell’esercito: ora quello che Hansi desiderava di più al mondo era un fucile vero, mica un pezzo di legno come quelli con cui i mocciosi del paese si davano battaglia, imitando il fischio radente delle pallottole con urla da selvaggi. Il fucile che piaceva ad Hansi sparava stando in silenzio, senza nessun bisogno di fargli il verso. 
         Altro oggetto del desiderio, gli stivali alti e lucidi come quelli che erano toccati in sorte a Richard Wallemberg, non scelti su misura ma cavati da un mucchio di calzature casuali al momento di arruolarlo: e quello era stato l’unico momento fortunato del soldato semplice Wallemberg, perché ad altri coscritti erano stati assegnati scarponi troppo grandi, oppure striminziti e con le suole già bucate da altri. La fortuna di Wallemberg padre era stata di breve durata, e al momento attuale era molto probabile che fucile e stivali, già vagheggiati a lungo nei sogni di Hansi, fossero già passati in eredità a qualcun altro.       
         Ma questo Hansi non lo sapeva, e avrebbe fatto finta di non saperlo per lungo tempo.  
         Restava comunque il fatto che sopracciglia come quelle della donna di città, tracciate con l’inchiostro di china o con la stilografica, al paese non s’erano mai viste, almeno fino ad allora: ciò da un lato accentuava il senso della distanza, dall’altro metteva voglia di studiarle da vicino.
         Dalla sua postazione strategica, Hansi notò un altro particolare: la donna di città teneva in mano un libro, di piccole dimensioni ma pesante e compatto, una sorta di mattoncino fatto di pagine. Dentro a quel mattoncino frugava e si affannava, cercando qualche cosa che evidentemente non riusciva a trovare: sfogliava quelle pagine trasparenti e sottili con una fretta e furia che quelle si dolevano, emettendo lamenti e scrocchi di carta straccia. L’uomo in uniforme la guardava rovistare e voltare le pagine come se le strappasse, mentre le sopracciglia di lei si lanciavano sempre un poco più in alto, le guance si riempivano di fossette arrossate, persino i ricci stretti nelle onde dei pettini si arrotolavano sempre più su se stessi, e le davano un’aria divertita e impacciata. Si divertiva anche l’uomo in uniforme: fu proprio lui, a un tratto, a levare lo sguardo per rivolgere ad Hansi un sorriso rassicurante, colmo di sottintesi. Hansi vide quel sorriso riempire tutta la stanza, al posto della paura.
         Finalmente, la Iolanda pescò una parola dall’alta marea del dizionario italiano-tedesco: -“Zu fressen! - andare a mangiare!”-
         Hansi era deliziato dal modo in cui la donna straniera ce la metteva tutta, e dai suoi tentativi di comunicare con lui in quel modo maldestro. Perché fressen si usava, al paese, per nutrire le bestie, mentre per i cristiani si adoperava essen: termine che evocava la tavola imbandita, la tovaglia di bucato e il sedere composti, coi gomiti di fuori. Con la coda dell’occhio dell’immaginazione, si vide con la testa infilata nella greppia come le mucche nella stalla di suo padre, e si coprì la bocca con entrambe le mani per non farsi beccare a ridere in flagrante.
         Per quanto soffocata, la risata di Hansi scappò da sotto al letto, e sortì nella coppia Drusiani l’effetto di un mortaretto scoppiato sotto alle scarpe: alla Iolanda si fermarono persino i ciuffi sulla punta delle pantofoline color cipria. Restò immobile col libro spalancato davanti, le sopracciglia sul punto di volare dalla finestra per la sorpresa. Arrigo, che il tedesco lo conosceva un poco dai suoi tempi di guerra, rise insieme ad Hansi:
         -“Certo che se tu pensi di parlargli così, siamo davvero a posto”- e come se fosse la cosa più naturale del mondo, gli scarponi di Arrigo varcarono la soglia: percorsero i pochi passi fino al baldacchino trasformato in trincea, poi il loro proprietario piegò le ginocchia e alla fine apparvero anche i suoi occhi, divertiti e sempre un po’ tristi.
         Come passando sotto a un reticolato, il tenente Drusiani s’infilò sotto al letto, facendo ruzzolare qua e là i gatti di polvere, scompaginando il mondo a qualche piccolo ragno terrorizzato. Hansi fece appena in tempo a stupirsi, che l’uomo in uniforme gli rivolse la parola nella lingua della sua nascita, la prima che aveva udito quand’era venuto al mondo, quella che si era chinata su di lui sorridendo quando ancora i suoi occhi non vedevano che ombre: quella che possedeva lo sguardo semplice e lineare di sua madre, con le sopracciglia di paglia tenera; quella che nel suo cuore era ancora ricolma della voce di Richard Wallemberg.
         -“Sei il benvenuto, Hansi. Non avere paura. Io sono Arrigo, lei è la Iolanda. Starai con noi per un po’. Hai fame? Vieni a mangiare…”-
         Le conoscenze linguistiche del tenente Drusiani, malgrado i lunghi mesi trascorsi in trincea ad un tiro di schioppo - è proprio il caso di dirlo - dai contingenti austriaci, non andavano oltre lo stretto indispensabile. E in realtà, essendo gli Austriaci il nemico per eccellenza, con cui comunicare tutt’al più a cannonate, secondo l’opinione dei Comandi superiori Arrigo non avrebbe mai dovuto imparare neanche quelle poche parole ridotte all’osso. Di fatto, il tenente Drusiani dovette attendere la fine della guerra per imparare la lingua tedesca sul campo: perché nei giorni che seguirono, una volta superato il senso di soggezione che provava nei confronti dell’uomo in uniforme, Hansi Wallemberg cominciò a tempestarlo di domande, e pareva davvero una di quelle mitragliatrici automatiche che gli Austriaci piazzavano sopra alle loro alture, per crepitare sopra a ogni foglia che si muoveva.
         Di indole taciturna, quando si trattava della guerra e del fronte Hansi emergeva dai meandri della sua solitudine, e voleva sapere tutto: tutto quello che era accaduto, e tutto quello che non gli era mai stato raccontato. E ascoltava, Hansi Wallemberg, con tutto se stesso, completamente risucchiato dalle storie e degli effetti speciali della sua immaginazione: soprattutto, aveva l’impressione di ritrovare, nei racconti dell’italiano, le tracce di suo padre, di cui nessuno al paese era in grado di dire nulla.
         Fu in quel periodo che Hansi dimenticò una volta per tutte il suo desiderio di diventare un herr doktor: il cappello tirolese, così come lo ricordava, gli sembrò ancor più ridicolo, e la penna stilografica, il senso di potere che nascevano dal silenzio e dall’umile rispetto dei compaesani gli parevano, a un tratto, una misera cosa. La priorità del momento era diventare un soldato, anche un soldato semplicissimo ma con un fucile vero, e non con proiettili immaginari dei quali bisognava imitare la voce. Poi ci avrebbe pensato il suo incredibile coraggio a fargli vivere le stesse avventure di Arrigo, e già che c’era a conquistare il mondo intero. Il paradosso era che i racconti di Arrigo erano il più possibile depurati da ogni idea di grandezza, perché la guerra aveva sortito nel suo spirito l’effetto di spegnere gli ideali, e sostituirli con gli incubi.
         Quella sera, tuttavia, ben prima che i racconti trovassero il loro tempo, Hansi accettò semplicemente l’invito dell’uomo in uniforme a uscire dalla tana sotto al letto a baldacchino, per sedere a tavola nella luminosa cucina della Iolanda. Era l’ora di cena e la cucina era accogliente, colma di quella luce che filtrava dal crepuscolo nel giardino. Hansi ci arrivò stretto per mano ad Arrigo, dal quale sembrava non volersi più separare.
         Il rumore di sottofondo delle stoviglie, il tintinnio dei bicchieri sulla tovaglia, le sedie avvicinate trascinandole al tavolo, ricordavano ad Hansi le sere di casa sua, quando ancora in famiglia ci si trovava per cenare tutti insieme, con addosso l’odore dei prati e del fieno, e il silenzio della stanchezza. E anche questo era prima che suo padre partisse per chissà dove, con il fucile carico e gli stivali lustri, e che sua madre cominciasse ad attenderlo, seduta inutilmente sulla soglia di casa.
         Da una grande finestra, il giardino che ovunque circondava la casa come un’isola in mezzo al mare pareva quasi entrare, alzando i pini magri come alberi maestri, le foglie come vele finalmente spiegate alla brezza serale, dopo le ore trascorse a penzolare nella calura.
         Nonostante le ore trascorse a stomaco vuoto, e tamponate alla meglio da certe gallette umide di suor Vincenzina, Hansi non toccò cibo. Seduto educatamente a tavola, si limitava a guardarsi intorno come se non capisse neppure dov’era. Contemplava la sua porzione con aria afflitta come se fosse al cinematografo, e nel piatto si proiettasse qualche drammone a fosche tinte. Gli inviti della Iolanda in forma di sorrisi, tradotti in parole da Arrigo, non riuscirono a smuoverlo da quello stato di sogno.
         In quel momento, complice quell’immagine di famiglia riunita a tavola, Hansi s’era smarrito nella nostalgia più profonda di casa sua, degli odori e delle abitudini: soltanto in quel momento si rendeva conto della distanza - nello spazio e nel tempo - che ormai lo separava dalla cucina di sua madre. Fu così per lungo tempo: anche quando, dopo lo spaesamento dei primi giorni, riuscì lentamente a prendere confidenza, sempre all’ora dei pasti ritornava il momento critico dei ricordi: quel ritirarsi nei territori intimi della sua nostalgia, che gli serrava l’anima e, in stretta prossimità, gli chiudeva lo stomaco.
         Per quella prima sera, i coniugi Drusiani decisero di non dar peso a quello che, più che un rifiuto dettato da infantile ostinazione, pareva solamente un sintomo di stanchezza. Imputarono l’inappetenza alla fatica del viaggio, alle troppe emozioni, alla lontananza da casa. Decisero che due giorni di viaggio accidentato non potevano cancellarsi con il riposo di qualche ora. Per questo era opportuno che il bambino recuperasse: smaltito il sonno, l’appetito sarebbe seguito naturalmente.
         Una volta stabilito che la necessità più urgente di Hansi era il riposo, iniziarono i preparativi del caso: per non farlo sentire troppo solo, decisero di sistemare un letto tutto per lui nella stanza col baldacchino. Arrigo si ricordò di possedere una brandina pieghevole, e si prese la briga di cercarla in cantina, tra le sue carabattole della guerra mondiale. Hansi, che lo seguiva come un’ombra nervosa, si limitò a sovrintendere in silenzio all’allestimento, abbracciato come al solito al ritratto del padre. Terminate le operazioni di montaggio e di spolvero, acconsentì ad acquartierarsi insieme all’ultima reliquia di Richard Wallemberg, accettò il bacio di buonanotte della Iolanda, e non protestò quando si spensero le luci.
         Attese in tutta calma, finché non udì Arrigo e la Iolanda prepararsi per la notte. Osservò la Iolanda liberare i suoi lunghi capelli dai pettini, dalle forcine innumerevoli, e nella lunga treccia che si andava sciogliendo, ritrovò i bagliori dei minerali grezzi che affioravano dai costoni delle montagne, e risentì il tepore di umidità dei boschi.
         Vide Arrigo chinarsi sulla piccola branda, per guardarlo dormire. E risentì qualcosa che già aveva attirato la sua attenzione quando l’uomo in uniforme si era disteso accanto a lui nella trincea immaginaria, sotto al baldacchino: la traccia di un odore che evocava un ricordo lontano, qualcosa che doveva richiamare a fatica dagli angoli più riposti della memoria.
         All’improvviso, ecco l’immagine che cercava: Hansi ha circa due anni, e due braccia in piena luce lo sollevano in alto. Un volteggio nell’aria, tenuto saldamente da quelle braccia solide e da una risata allegra, divertita, serena. Richard Wallemberg amava giocare così con suo figlio, farlo volare come un piccolo aeroplano, e poi stringerlo forte. E il gioco, in realtà, era una scusa per poterlo abbracciare, perché il piccolo Hansi si considerava già grande a sufficienza per scacciare gli abbracci. Richard Wallemberg, allora, lo faceva volare e poi riposare sulla sua spalla appuntita e un po’ scomoda, che aveva quell’odore difficile da cogliere, da recuperare altrove: solo molti anni dopo, Hansi capì che si trattava di una lozione, forse una saponetta, e quanto gli sarebbe piaciuto ritrovarla.
         Di quel ricordo, il bambino conservava un’ultima impressione: il piccolo Hansi di due anni aveva aperto gli occhi, e dalla spalla su cui si appoggiava s’era imbattuto in una siepe luminosa e appuntita, i capelli del padre tagliuzzati a casaccio dal barbiere militare, minuti come scintille. In controluce sul balcone di casa, poco prima di partire per non fare ritorno, Richard Wallemberg appariva avvolto da un riverbero soffuso ed irreale, come se già fosse cosa di un altro mondo. Circondato da una pioggia di schegge luminose, ancor prima di essere abbattuto in azione.
         Dall’altezza dei suoi pochi mesi su una spalla, Hansi era rimasto affascinato da quel bagliore ch’era in realtà dissolvenza, e con le piccole mani s’era messo a tirare i capelli di suo padre. E più tirava, più da quella siepe ispida nasceva una risata.
         Quella sera Hansi Wallemberg, il cui bisogno di affetto era tale da vincere persino la paura infantile dell’ignoto, riconobbe l’odore di suo padre nella carne di Arrigo Drusiani. E ritrovò la strada dei boschi tra i capelli impervi della Iolanda, che erano ruvidi come la corteccia degli abeti, lungo i sentieri dove l’unico fruscio era quello dei suoi passi. Hansi ricordò il senso di timore che provava avventurandosi nel bosco, dove una quiete soprannaturale lo avvolgeva, come salita a un tratto dalle profondità dalla terra. Sopra di lui, i rami intrecciavano il cielo, lasciavano cadere la luce come polvere. Al crepuscolo, invece, il bosco si trasformava nel regno misterioso dei gufi dagli occhi gialli, coi loro voli bassi e i richiami paurosi.
         La paura del buio e del troppo silenzio, Hansi la superò proprio quella sera, la prima in una città distante ben due giorni di viaggio da casa sua. A metà della notte, quando l’oscurità è più fitta e la paura anche, abbandonò la branda e il ritratto in cornice per andare a metter radici nel letto a baldacchino, accanto alla Iolanda e ad Arrigo Drusiani, là dove lo guidavano le tracce dei suoi ricordi: i viottoli del bosco, l’odore di suo padre. 
         E così lo trovarono al mattino tra loro, coperto dalle trecce sciolte della Iolanda, col viso abbandonato sulla spalla di Arrigo. Arrigo e la Iolanda non si dissero niente, destandosi quasi insieme, col bambino nel mezzo: e intrecciando le dita sopra di lui rimasero a contemplarlo a lungo, di nuovo provando la netta sensazione che Hansi fosse nato proprio in quella casa, e da un giorno soltanto.
  
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