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Autore: yonoi    30/09/2017    6 recensioni
Estate 1920: Hansi Wallemberg, cinque anni aggrappati a una grossa cornice col ritratto del padre decorato al valore, arriva dal suo paese di montagna a casa di Iolanda e Arrigo Drusiani. Sarà il loro piccolo affido per questa estate. Arrigo Drusiani ha combattuto nella Grande Guerra, sua moglie Iolanda è esperta nell’arte di riparare le cose. Con i Drusiani, Hansi stabilirà quel rapporto di affetto di cui ha così intensamente bisogno: partito per il fronte, suo padre non è più tornato, e sua madre, che non ha mai smesso di attenderlo, trascorre le giornate sulla soglia di casa.
Col tempo, si prefigurano per Hansi lunghi inverni in collegio, e in seguito l’Accademia militare: qui, si lega sempre più ad un coetaneo che suscita in lui una forte ammirazione, fino ad abbracciarne i valori e ad arruolarsi nelle SS. Sarà l’incontro - fugace e irrepetibile - con il vero amore della sua vita, a provocare in Hans un cambiamento sofferto, eppure definitivo.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. Come un abbraccio per chi arriva da lontano
 
Estate 1920

 
Il giorno in cui Hansi Wallemberg giunse alla piccola casa ariosa che l’avrebbe ospitato per la prima estate priva di angosce della sua vita, la grossa pendola in legno antico della Iolanda aveva appena esaurito i rintocchi delle tre. Era un arnese monumentale dell’altro secolo, che segnava le ore con un rumore di ferraglia sconclusionata, ogni volta sul punto di sfasciarsi in un mucchio di segatura fine, sminuzzata dai tarli.   
         Era un’estate d’afa che spegneva ogni voce, anche i rintocchi e il guazzabuglio degli ingranaggi, e persino il rumore del campanello alla porta: il silenzio di quel pomeriggio denso, annegato di luce, lo circondò immediatamente come un sasso caduto in acqua, senza lasciare traccia.
         Da quel fiotto di luce a picco sulla strada, Hansi e suor Vincenzina, una ragazza alta e piantata come una torre di lentiggini rosse, che l’aveva accompagnato durante tutto il viaggio in treno dalla Germania, s’erano ritrovati sotto la volta di un ingresso incombente, che sapeva di vecchia cantina e di polvere, e soprattutto buio.
         Pallida ombra di un bambino di cinque anni, in piedi sulla soglia col sudore incollato che iniziava a raffreddarsi nella penombra, Hansi tese l’orecchio verso una porta che, dal suo metro scarso d’altezza, sembrava destinata a restare chiusa per sempre. Era una porta in legno ritinta da più mani di una vernice scura: e ogni mano l’aveva resa ancora più tetra, e pesante a tal punto che ad Hansi parve impossibile che il campanello suonato da suor Vincenzina buttandoci sopra tutto il peso della stanchezza, potesse richiamare qualcuno dall’interno. Suonare un’altra volta era fuori discussione, sia perché Hansi Wallemberg al campanello relegato lassù in alto non ci arrivava affatto, sia perché immaginava, al di là, solamente altro freddo.
         In quel tempo affondato nel silenzio più completo, nell’attesa che qualcuno venisse ad aprire la porta, Hansi si strinse più fortemente a un grosso ritratto in cornice, dal vetro annerito di ditate e lunghi sguardi, che teneva con sé come una protezione.
         Avvertiva il bisogno di aggrapparsi a qualcosa: perché sapeva bene, e lo sapeva con la certezza inesorabile con cui le cose si sanno senza bisogno che nessuno te le spieghi, che per suor Vincenzina il viaggio terminava su quella soglia al limite tra la luce ed il buio: lei che per tutto il viaggio s’era tenuto accanto quel bimbetto ostinato, badando ad acchiapparlo lesta per la collottola se solo muoveva un passo, a quel punto avrebbe mollato la presa, lasciandolo ruzzolare solo sulle sue gambe. Una volta che quella porta nella penombra si fosse spalancata, aperta da qualcuno di certo sconosciuto e sicuramente ostile, soltanto a lui sarebbe toccato proseguire, entrare in una casa che non era la sua, restarci addirittura per un’intera estate.
         Un’estate soltanto, aveva assicurato la suora durante il viaggio: ma nei battiti dell’anima inquieta di Hansi Wallemberg, quel tempo di un’estate si allargava sempre più a dismisura, tanta era la paura di dover rimanere in quel luogo per sempre.
         Solamente al pensiero, Hansi già rimpiangeva la stretta con cui la suora l’aveva acchiappato in più occasioni per la giacchetta, strattonandogli un braccio quando aveva più paura che gli sfuggisse, e poi per la collottola totalmente indifesa: perché i capelli di Hansi erano talmente sottili e chiari, una peluria appena, che la presa di ferro della brava sorella arrivava direttamente alla carne e ai nervi, e lo immobilizzava con gli occhi spalancati come un coniglio in trappola.
          Hansi Wallemberg era partito dalla Germania quasi due giorni prima, un treno di bambini destinati a diverse città ugualmente ignote, nell’ambito di un piano di aiuti della Croce Rossa a favore dei Paesi più disastrati dalla guerra. Insieme a lui, altri trenta bambini spaventati erano scesi alla stazione di Bologna Centrale, radunati da un drappello di crocerossine svolazzanti. Con gli occhi abbagliati dal sole improvviso, dopo le ore lunghe dentro ai vagoni, la colonia dei bimbi si era radunata nell’atrio della Stazione, addossandosi l’uno all’altro per proteggersi. I più vispi si guardavano intorno incuriositi, le sorelle maggiori sistemavano i panni ai fratelli più piccoli, asciugavano nasi, aggiustavano trecce e inseguivano berretti volati nella calca.  
         La Stazione Centrale era sembrata ad Hansi un enorme casolare di polvere, abbandonato tra le file liquide dei binari, sotto a un sole assoluto, in un silenzio totale.  
         Nella penombra dell’atrio, alcune coppie e famiglie erano già in attesa. Per Hansi e un gruppo di treccine intimidite si trattò invece d’esser consegnati a domicilio, e affrontare la caligine muta della città alle tre del pomeriggio.
         Con la giacchetta nera incollata alla schiena, lo stomaco impastato dalla nausea del viaggio, per mano a suor Vincenzina che sudava a larghe macchie, Hansi aveva attraversato la città calcinata dalla calura, da un’umidità che si appiccicava addosso e rendeva i contorni dell’orizzonte palpitanti e ricurvi. Non un’anima viva, sotto ai portici di mattoni rossi e gialli che ingrandivano i passi, e davano l’impressione di essere inseguiti: per quelle strade in pietra spazzate dalla solitudine tra le case, così diverse dai viottoli del paese dov’era cresciuto fino ad allora, e dove ogni sentiero non era mai solitario, ma sempre accompagnato dal sussurro nascosto di un torrente o di un bosco.
         Fu in quel momento che, per la prima volta, Hansi sperimentò quel senso di abbandono che lo accompagnerà sempre, come una seconda anima più profonda: ed era la certezza d’essere solo al mondo, indifeso di fronte alla complessità dell’esistenza, e che questo fosse, in realtà, il destino di ognuno.
         Di nuovo, suor Vincenzina si attaccò al campanello: rispose, questa volta, il pigolio di un orologio a cucù ritardatario, e ancora uno strepito di ingranaggi disordinati, un cigolio di rotelle che arrancavano dietro allo scorrere del tempo.
         Seguì un nuovo intervallo lunghissimo di silenzio. E poi, da quella porta pitturata di scuro, appena percettibile poi sempre più distinto, un rumore di passi ruzzolati ed inciampi, una risata allegra: per una strana impressione che non riuscirà mai a spiegarsi, Hansi si sentì abbracciato dalla Iolanda ancor prima che questa si affacciasse sulla soglia, accompagnata da un altro schiamazzo squinternato di orologio in ritardo.
         Preso alla sprovvista, Hansi riparò dietro alla grossa cornice di quel ritratto che portava sempre con sé e che, insieme alla tensione, gli aveva stancato le braccia per tutto il viaggio. Dal suo rifugio, sollevando appena uno sguardo, Hansi riportò una prima impressione assai curiosa di quella che sarebbe diventata la mutti Iolanda, la sua mamma italiana.
         Nella cornice luminosa della porta, per prima cosa lo raggiunse il tepore di un impasto a riposo, che lievitava quieto sotto a uno strofinaccio.
         Sorridendo, la Iolanda si allungò sulla porta, piccole mani di nervi che si asciugava stropicciando nel grembiule, un abitino impolverato di vaniglia, una traccia di noce moscata dietro all’orecchio: insieme a lei scapparono fuori tutti gli odori, l’amarognolo del lievito, il fresco della farina, l’attaccaticcio di marmellata di albicocche, dal barattolo aperto sul tavolo di cucina. La teglia già imburrata, il forno che si andava lentamente scaldando, erano il preludio a una delle crostate memorabili della Iolanda: lei ne aveva sotto alle dita, perché le piaceva rubare qualche pezzetto di pasta ancora cruda, come fanno i bambini per sentire i cristalli di zucchero disfarsi, scricchiolando sotto i denti.
         Sembravano albicocche anche gli spicchi delicati delle sue orecchie, che spandevano arancio nel riverbero denso di luce del pomeriggio. Per il resto era piccola, il riflesso in controluce se la mangiava tutta: ne rimaneva solo quel tepore accogliente, come un abbraccio per chi arriva da lontano.
         In quel momento le sopracciglia erano arcuate, un po’ per la sorpresa e un poco per la moda delle donne di città.
         Dalla sua postazione circospetta, Hansi sgranò gli occhi: la figura di lei gli ricordava certi bastoncini di zucchero sui banchetti delle fiere luminose del suo paese, quando ancora suo padre lo portava sulle spalle, e a lui pareva di padroneggiare il mondo intero dall’altezza delle montagne.
         La voce della donna somigliava a un liquore, qualcosa che scendeva fino in fondo  alle orecchie e vi restava a lungo: anche se le parole non avevano inizio, per Hansi, né una fine, e anche se la lingua era quella cantilena già sentita degli stranieri, che durante il viaggio gli era sembrata così allarmante, sempre gesticolata a voce così alta da far l’effetto di una minaccia.
         Ora, in quella luce che la circondava tutta nel vano della porta, lasciando intravedere una cucina densa di sapori e fermenti, e un giardino verde simile al suo paese, nella voce della donna che sorrideva piegandosi su di lui, quegli accenti sembravano più comprensibili. Hansi ebbe l’impressione di riuscire a capire addirittura il senso esatto delle parole:
         -“Benvenuto, willkommen, piccolo Hans. Entrate, accomodatevi”-
         Hansi restò a fissarla, sbalordito da dietro la pesante cornice che lo proteggeva sempre. Suor Vincenzina in retroguardia gli chiudeva la strada, mentre dinanzi a lui era il garbo incantevole della donna di città: abbagliato, Hansi Wallemberg si trovò dentro casa, appollaiato sul divano del salotto senza neanche sapere come c’era arrivato.
         Da un vassoio di legno, appoggiato su un tavolo dell’identica tinta minacciosa della porta, la donna di città serviva qualche cosa di luminoso e di fresco: dentro a grossi bicchieri punteggiati di goccioline di freddo, con una grazia innata versava ai suoi ospiti limonata da una caraffa, e la sua voce liquida in una domanda:
         -“Avete fatto buon viaggio?”-  
         Sprofondata nella frescura del divano, suor Vincenzina tornò a prendere spazio:
         -“Ti prego, non parlarmene”- la sua voce risentiva di tutto il peso del viaggio e infatti era sassosa, ancora con i tacchi impigliati nell’acciottolato della strada -“due giorni chiusi in treno, con tutti quei bambini, è stato più il tempo che abbiamo passato fermi, che quello che abbiamo viaggiato. Saranno ormai due anni che è finita la guerra e ancora, dappertutto, rotaie e ponti a pezzi. Veramente, ho pensato di non riuscire a farcela”-
         -“Lui è il piccolo Hans?”- ignorando le lamentele della buona sorella, la Iolanda allungò il bicchiere pieno ad Hansi, avvolgendolo col suo sorriso e con lo sguardo. Il viso di lei era un piccolo cuore nella penombra, con occhi che occupavano tutto quanto lo spazio: perché la lolanda amava guardare in profondità, attraverso le sue mani che toccavano il mondo, preparavano il cibo e indagavano il significato delle cose mescolando ingredienti, lasciando riposare, aggiungendo qua e là un pizzico di qualcosa, cavando via la buccia e le tensioni inutili, e forgiando frammenti di vita accogliente. In quel momento la Iolanda percepiva fortemente il turbamento di Hansi, e non le premeva altro.
         Suor Vincenzina, nel frattempo, proseguiva:
         -“… lui è il vostro piccolo affido per questa estate. Qui ci sono tutti i documenti del caso. Hansi starà con voi fino ai primi di ottobre, dopo di che è previsto il suo rientro in famiglia”- Esaurita dal viaggio, suor Vincenzina alternava ogni frase a uno sbadiglio, e gli sbadigli ai brividi per il sudore che si asciugava in macchie di freddo:
         -“Hansi viene dalla montagna, un paesetto che a vederlo sembra una cartolina, eppure con la guerra si è ridotto a un villaggio fantasma di vecchi, mutilati e mezzi matti: quasi nessuno è riuscito a tornare dal fronte, e chi è tornato ha perso una gamba, un braccio, mezza faccia”- E qui suor Vincenzina, per decenza o per scrupolo, si decise ad abbassare la voce in un sussurro: non fosse mai che il bambino, che pure di italiano non ne sapeva nulla, afferrasse qualcosa, per magia o per intuito. Prima di continuare si aggiustò sul divano, più vicina all’orecchio attento della Iolanda: non prima di avere allungato ad Hansi un’occhiata, che ottenne l’unico effetto di farlo interessare ancora di più a quello che si andava dicendo: 
         - “Ad oggi, il padre di Hansi risulta tra i dispersi, anche se lui è convinto che possa tornare a casa da un momento all’altro. È anche vero che molti son riusciti a tornare quando ormai nessuno se l’aspettava più. Per questo, Hansi non voleva saperne di partire, abbiamo dovuto costringerlo per il suo bene - e qui, la buona suora ritenne opportuno ribadire il concetto alzando il dito indice, contro ogni obiezione -“in realtà, lui voleva rimanere al paese per aspettare il padre, e non lasciare sola sua madre”- l’indice di abbassò, tornò in grembo come disarmato d’un tratto.
         -“Un motivo ben futile”- osservò la Iolanda, a sua volta indirizzando un’occhiata complice al mucchietto di abiti e cornice al valore che le sedeva di fronte.
         Mentre suor Vincenzina parlava, il bambino scrutava i volti, coglieva le emozioni dietro ai toni di voce, collegava veloce i gesti e le espressioni: tentava una sorta di traduzione simultanea, afferrando in realtà molto di più di quanto si potesse immaginare.
         All’inizio si era sentito disarmato: il fascino raggiante della donna straniera gli era venuto incontro, e lui aveva pensato che poteva fidarsi, che nulla di male poteva venirgli dalla bellezza.
         Ora, mentre la suora continuava a parlare, e parlava di lui senza neanche guardarlo, solamente levandogli il bicchiere dalla mano perché non lo rompesse, Hansi sentì avvampare sulla faccia il dispetto: d’un tratto si convinse che se la suora e la straniera parlavano così tanto, questo voleva dire che in quella casa lui doveva rimanerci non soltanto un’estate, ma per sempre.
         Per sempre, e Hansi sentì qualcosa cadere e andare in pezzi, e non era il bicchiere scintillante di gelo della donna straniera, ma un cedimento improvviso, da qualche parte in fondo alla spina dorsale. Per sempre, mentre le dita delle sue mani impallidivano e diventavano fredde, e la frescura della penombra e della bibita non c’entravano per niente. Devo tornare a casa, se non ci torno adesso non mi lasceranno più andare. Devo essere a casa quando arriverà papà, lui s’era raccomandato di aver cura della mamma e io l’ho lasciata sola, e nessuno ha voluto capire o stare a sentire.
         Mentre Hansi Wallemberg inseguiva i suoi pensieri, suor Vincenzina andava avanti per conto suo: -“Da quando ha saputo che il marito è disperso, la madre di Hansi s’è ammalata per la tristezza. All’inizio stava ancora dietro alle bestie, all’orto e al bambino. Solamente la sera si sedeva sull’uscio, come quando aspettava il marito dal pascolo. Ma poi il tempo è passato senza che lui tornasse, e anche il tempo trascorso sull’uscio si è allungato, oramai passa il giorno e la notte sempre là. E’ così in tutto il paese: i reduci li trovi a bere dal mattino alla sera, la birreria è l’unico posto che fa il tutto esaurito, a parte il cimitero, perché ultimamente ce n’è tanti che s’ammazzano, li trovi appesi qua e là, o si sparano addosso per storie di vicinato. O perché sentono nella testa degli ordini, che so io, delle voci…”-
         La suora raccontava, e dalla sua posizione strategica sul divano, Hansi Wallemberg si aggirava di soppiatto con lo sguardo, in cerca di possibili vie di fuga. Il salottino buono si stringeva attorno al tavolino di legno scuro, con i bicchieri freddi, la caraffa lucente e una fila di biscotti disciplinati e fragili, rinchiusi in una scatola scoperchiata per l’occasione dalla Iolanda. Dietro al divano e a due poltroncine foderate, con i centrini all’uncinetto sulle spalle, le pareti alte e bianche parevano alzarsi sempre più, all’infinito: tutt’intorno la luce del pomeriggio estivo, una luce senz’ombre, senza nessuna piega dove andare a nascondersi.
         Tra le due poltroncine, presidiate con garbo dalla padrona di casa, e con piglio da sentinella da suor Vincenzina, una porta finestra si apriva su quel giardino intravisto all’ingresso, e che sembrava far capolino dappertutto. Ad Hansi, la sola vista del verde trasmetteva da sempre tranquillità e sicurezza: ma in quel momento, il bambino era più interessato a scoprire se da là si poteva fuggire, e correre fino a casa nel minor tempo possibile. Gli ostacoli erano tanti: si trattava anzitutto di sottrarsi alla presa di suor Vincenzina, perché la brava suora era immersa nel divano e in tutti i suoi discorsi, ma sempre vigile e lesta ad acchiapparlo per la collottola. Se provi a fermarmi io mordo, io picchio tutti quanti, anche la donna straniera, pensava Hansi, cercando di farsi coraggio con l’astio. Ma lo sapeva bene: anche se fosse riuscito a scappare in quel giardino così simile ai boschi del suo paese, questo non significava essere già a casa. Ci saranno cancelli, si disarmava Hansi, forse una recinzione, e chilometri aguzzi di filo spinato - e ai suoi occhi persino quel giardino immerso in un quieto dormiveglia assumeva i contorni tetri di una prigione.
         Un’altra porta s’intravedeva dal salotto, socchiusa sugli odori dolci della cucina: da uno spiraglio si spandeva una pozza di luce, dello stesso arancione di quella marmellata che attendeva la lenta crescita della pasta sotto allo strofinaccio. Nel silenzio di quella luce, la cucina appariva talmente confortevole, un richiamo irresistibile per le ossa stanche e affamate di Hansi Wallemberg. Scappando da quella parte, però, era sicuro di inoltrarsi sempre più dentro alla casa, e magari trovarsi prigioniero per sempre, vittima di una fetta di crostata stregata.
         L’unica via d’uscita era quindi la porta paurosa dell’ingresso, quella buia e verniciata in fondo a un corridoio altrettanto sinistro. Ma il problema era sempre quello: anche se fosse riuscito a sfuggire alla presa di suor Vincenzina, e a disarmare tutti i chiavistelli del caso, una volta per strada Hansi Wallemberg non avrebbe saputo dove andare.   
         “Io non la so, la strada per ritornare a casa”, ragionava tra sé Hansi, disposto a tutto tranne che arrendersi, “però se punto i piedi con tutte le mie forze, e se comincio a mordere, a dar calci ma forte, allora capiranno, e la donna straniera smetterà di sorridere e non mi vorrà più. E torneremo indietro, e forse già domani arriveremo al paese”. Hansi già si congratulava con se stesso, per il suo perfetto piano di guerra. Si asserragliò dietro al baluardo del ritratto, preparandosi a resistere fino all’estremo.
         La Iolanda, dal canto suo, continuava a sorridere. Proprio in quel momento, e quasi intercettando i pensieri di Hansi, notò che il ragazzino, esausto e scolorito nella giacchetta del viaggio, non badava a nient’altro che a restare aggrappato a quella vecchia cornice: dentro c’era una foto, un ritratto che lui non lasciava guardare e neppure avvicinare. Dalla cornice smozzicata dal tanto andare in giro pendeva un nastro consunto, e una pesante decorazione a forma di croce. Quando Hansi si accorse delle occhiate incuriosite della Iolanda, strinse ancor più le braccia, concentrando tutta la rabbia in uno sguardo basso, da bestiola feroce.
          -“Porta sempre con sé il ritratto del padre. Anche in treno, non c’è stato modo di farglielo posare, nemmeno per un istante”- dimentica della stanchezza, suor Vincenzina si sfogava raccontando le peripezie del viaggio: la partenza da quel paese remoto della Germania e l’impresa di staccare Hansi dalla banchina, a pugni, calci e lacrime, sferrati dal ragazzino e ripartiti equamente tra lei e padre Grünewald, il parroco del villaggio, che aveva avuto la bontà o la pena di occuparsi del caso.
         Puntare i piedi e mordere qualunque cosa gli capitasse sotto i denti, non era servito ad evitare ad Hansi Wallemberg lo scorno della partenza: imbarcato di peso, non appena era riuscito a mettere i piedi a terra, aveva somministrato uno spintone unanime a tutti i bambini e le suore presenti, e si era messo a correre a capofitto per gli scompartimenti, mentre il treno iniziava a scrollarsi e a prendere la rincorsa della partenza; suor Vincenzina aveva cominciato a sudare da quel momento in poi, per il terrore che Hansi aprisse una portiera, si lanciasse di sotto mentre lei lo inseguiva per le carrozze ingombre di bambini e bagagli, altre crocerossine impegnate a sedare il contagio dei pianti, ancora le proteste dei signori viaggiatori di prima classe, travolti nella fuga verso un’improbabile via d’uscita.
         Solo una volta giunto all’estremo limite del convoglio, ai sacchi di carbone e alla locomotiva lanciata in velocità, Hansi si era arreso all’ineluttabilità della sua situazione, lasciandosi catturare - non senza morderlo - da un grosso macchinista col sorriso da orco: tra le risate degli addetti alle macchine, era stato riconsegnato alla suora trafelata e scomposta dalla corsa e dall’angoscia. 
         Una volta rientrato nello scompartimento, mentre suor Vincenzina recuperava il fiato e il velo di traverso, si era rassegnato all’ordine di sedere composto, per poi chiudersi in un silenzio assoluto. A suor Vincenzina, quel silenzio era parso molto più preoccupante della rabbia violenta che l’aveva travolto prima della partenza, perché era un silenzio buio, come un muro levato da Hansi intorno a sé, per non farsi raggiungere.
         Anche in quel momento, mentre suor Vincenzina terminava la sua arringa, Hansi esibiva una perfetta indifferenza, ma in realtà raccoglieva le forze necessarie per puntare i piedi e costringere la straniera e la suora a rispedirlo in Germania. Più il tempo passava, e più quel salottino gli sembrava un luogo infido, e sempre più lontana la sua vera casa, quella vicina al bosco, dove c’era sua madre e dove si parlava una lingua che si capiva: quest’altra casa, invece, seppellita nel dedalo di piazzette e di vie di una città estranea, sempre di più pareva una spelonca paurosa, popolata di insidie proprio come le caverne dei draghi delle fiabe. 
         Eppure, a un certo punto, fu la curiosità ad avere la meglio: ciò che era molto strano, e che fece sgranare ad Hansi i suoi occhi vigilanti, in direzione dello spiraglio socchiuso della cucina, era che proprio come nelle caverne dei draghi, da quella soglia usciva fumo. Una spirale densa serpeggiava lentamente nel salottino, sgattaiolando insieme a un odore di bruciaticcio. Una spira soltanto, poi divennero due, sempre più attorcigliate, e salirono fino a formare una nebbia, una caligine condensata e preoccupante.
         La Iolanda se ne accorse guardando Hansi negli occhi: un po’ turbata dai racconti della suora - tutte cose che, peraltro, già sapeva a memoria - s’era chinata verso di lui per tranquillizzarlo, e per tranquillizzare se stessa provando ad allungargli una prima carezza: e Hansi l’aveva interpellata con un’occhiata stupefatta, lanciando alle sue spalle un punto interrogativo carico di sgomento.   
         Voltandosi, a quel punto si era sbigottita anche la Iolanda, sentendo il puzzo e il fumo venirle in mezzo ai piedi, e anche suor Vincenzina aveva perso a un tratto il filo del discorso:
         -“Iolanda, che succede?”-
         Subito, la Iolanda aveva spalancato la porta della cucina, e si era precipitata a cavar via dal forno, acceso per la torta, una teglia ormai carbonizzata di pane vecchio: l’aveva messa ad ammorbidirsi mano a mano che il forno si scaldava, e ora, a parte quella cortina vaporosa, restavano soltanto poche croste annerite.
         Facendo capolino prudente sulla soglia, Hansi l’aveva vista sparire in mezzo al fumo, e poi la scena s’era schiarita nuovamente mentre la donna apriva ridendo le finestre, spalancava altre porte, cavava via dal forno certi tozzi anneriti, e di nuovo non la finiva più di ridere. Mentre suor Vincenzina era rimasta sbalordita sulla porta, incerta se aspettare che la nebbia svaporasse per riprendere il filo delle sue traversie, Hansi aveva seguito la Iolanda in cucina: anche adesso, ad attrarlo, era qualcosa di inspiegabile.
         Di cosa si trattasse, non avrebbe saputo dirlo.
         Nell’anima di Hansi, che a cinque anni era - e sarebbe rimasto sempre - un fardello di sensazioni in umanità, c’era il timore di rimanere imprigionato in quella casa estranea, ma c’era soprattutto, da sempre, una spinta a difendere quanti aveva vicino, si trattasse del vitellino da macello trascinato al mercato, del gattino trovato dentro ad una pozzanghera, oppure della fine signora di città, vittima assai probabile delle fauci di un drago: anche se la signora, col suo abitino di vaniglia e i bicchieri di ghiaccio, il sorriso gentile e i biscottini in scatole di metallo tagliente, non lo convinceva del tutto.
         Fu quell’impulso a proteggere la vita in tutte le sue forme, per averla sentita tremare tra le dita come le piccole cavallette dei prati, le farfalle che pizzicavano sul palmo per poi disfarsi in polvere, fu il desiderio di custodire quel mistero di meraviglia a spingere Hansi Wallemberg nella cucina della Iolanda: col suo ritratto sempre ingombrante tra le braccia, il cavaliere Hansi arrivò fino al drago - e alla bocca spalancata del forno - dove una dama simile a un bastoncino di zucchero tossiva, ridacchiava, cacciava via il fumo con uno strofinaccio. Non sentì neanche la voce della suora sulla soglia, che stava approfittando della sua distrazione per salutare e andarsene:
         -“Buone cose, Iolanda. Allora, io vado!”-
         Quando Hansi se ne accorse, per puntare i piedi e resistere, mordere e calciare forte, era già troppo tardi. Una volta diradato il fumo e lo scompiglio restò davanti a lui soltanto la Iolanda col suo odore di zucchero. Di nuovo l’aria limpida e tersa della cucina, e quella lingua dagli accenti musicali, che tanto lo aveva innervosito durante il viaggio e che ora capiva, anche senza bisogno d’intendere le parole, perché la donna semplicemente lo invitava a non avere paura, con tutta la dolcezza di un solo sussurro: non avere paura né dei draghi che vivono nascosti dentro al forno, né della porta verniciata di scuro, né di alcun'altra cosa.
         E poi, improvvisamente, un po’ per il trasporto, la confusione o forse per entrambe le cose, lo strofinaccio scivolò improvvisamente di mano alla Iolanda, cadendo umido e in pieno sul ritratto a cui Hansi si aggrappava come un naufrago. La caduta improvvisa lo sorprese, non fece neppure in tempo a tirarsi indietro. La Iolanda si tuffò a recuperarlo ma poi ebbe un’idea, e cominciò a passarlo, leggero, sopra al vetro: lo straccio si annerì subito, da tanto che quel vetro non veniva toccato, e sotto al nero apparve, più distinto e marcato, il volto di Richard Wallemberg, come se stesse prendendo vita in quel momento, e fosse sul punto di saltar fuori dalla cornice. Tra lo sguardo stupito della Iolanda e quello incantato di Hansi, che contemplava il volto chiaro e netto del padre e quasi gli parlava, tant’era fresco e pareva fotografato adesso, passò un sorriso fragile. Poi Hansi ricordò che quel ritratto apparteneva a lui solo, e che nessuno aveva il diritto di passarci sopra neanche un occhio: lo strappò via di scatto, ma quando la Iolanda di nuovo gli sorrise, e lo prese per mano per accoglierlo nelle stanze della sua casa, Hansi Wallemberg non oppose resistenza.
         Non si fidava completamente, della donna di città. Tuttavia fu decisa, dentro di lui, una tregua: tra il timore del luogo, la rabbia nei confronti di suor Vicenzina e delle sue mani che acchiappavano i coppini come tenaglie, e quel bisogno di tenerezza invincibile che lui faceva sempre finta che non ci fosse. E che invece era era così grande, e talmente pressante, che un solo gesto affettuoso avrebbe convinto Hansi a seguire chiunque in capo al mondo.
         Pochi minuti dopo, Hansi dormiva di schianto nella penombra della camera da letto dei Drusiani, sempre aggrappato al suo ritratto rinvigorito: un sonno interminabile, vegliato sulla soglia dalla Iolanda e Arrigo Drusiani, da poco rincasato dopo il turno di servizio in  Questura, e subito costretto a muoversi in punta di piedi.
         -“C’è il bambino, silenzio!”- gli aveva intimato la Iolanda, mentre lui si trovava ancora sulla soglia. E Arrigo Drusiani, ridotto al silenzio ancor prima di mettere piede in casa, s’era lasciato accompagnare fino alla penombra della camera da letto: ed era rimasto a lungo, assieme alla Iolanda, a guardare il bambino riposare, stupito e intenerito come se Hansi fosse nato in quel momento.
 
  
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