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Autore: EffyLou    14/10/2017    1 recensioni
ATTENZIONE: storia interrotta. La nuova versione, riscritta e corretta, si intitola Stella d'Oriente.
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Ha venti anni quando incontra per la prima volta quegli occhi, lo sguardo fiero del re di Macedonia, il condottiero che non perdona; ha venti anni quando lo sposa, simboleggiando un ponte di collegamento tra la cultura greca e quella persiana. Fin da subito non sembra uno splendente inizio, e con il tempo sarà sempre peggio: il suo destino è subire, assistere allo scorrere degli eventi senza alcun controllo sulla propria vita, e proseguire lungo lo sventurato cammino ombreggiato da violenza, prigionia e morte.
Una fanciulla appena adolescente, forgiata da guerre e complotti, dalla gelosia, dal rapporto turbolento e passionale col marito. Una vita drammatica e incredibile costantemente illuminata da una luce violenta, al fianco della figura più straordinaria che l'umanità abbia mai conosciuto.
Rossane, la moglie di Alessandro il Grande. Il fiore di Persia.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie Antiche'
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۱۴ . Chahar-dah
 
 
Alessandro fece costruire dodici enormi altari in legno in onore agli dèi che l’avevano accompagnato in India, e li allineò lungo la sponda dell’Ifasi, lasciandoli a guardare instancabilmente l’altra sponda del fiume. Suggestiva la visione dei loro volti scuri che sbucavano tra le fronde degli alberi, i loro corpi che sparivano nel fogliame dei banyan.

Dispose il viaggio di ritorno verso l’Idaspe. Qui mandò un’ambasceria a riconfermare i loro ruoli di rajah ad Abisare, Poro e Ambhi, facendo loro dono di alcune concubine macedoni: sicuramente un bene di un certo valore, in quanto completamente diverse dalle donne indiane, con i loro capelli biondi o rossi, la pelle di porcellana e gli occhi chiari.
In cambio, i tre sovrani fornirono al sovrano la manodopera necessaria per la costruzione delle navi, per percorrere il corso dei fiumi.
Con l’ammiraglio Nearco dispose che avrebbero percorso l’Idaspe fino alla confluenza con l’Acensine, e l’Acensine fino alla confluenza con l’Indo.
Non aveva persuaso i suoi uomini a proseguire la marcia oltre l’Ifasi, ma in un modo o nell’altro volva raggiungere l’Oceano e verificare se esistesse una rotta navale che collegasse l’India al Golfo Persico e all’Egitto. Uno dei suoi obbiettivi l’avrebbe raggiunto comunque.

Durante la costruzione della flotta, che fu preparata in tempi brevi, sostarono ad Alessandria Nicea.
Qui morì il generale Ceno, valoroso veterano che alla battaglia contro Poro diede un importante contributo per l’esito dello scontro. I medici indiani non avevano abbastanza conoscenze mediche per guarire una tale malattia, e il medico macedone Filippo non disponeva di risorse necessarie né nelle dispense mediche dell’esercito né poteva contare sui rifornimenti degli indiani. Tentarono comunque di salvarlo, ma senza successo. Alessandro tributò per lui gloriosi funerali che durarono tre giorni.

Quando terminarono i preparativi, cominciarono la discesa dell’Idaspe. L’esercito venne tripartito: una parte comandata da Cratero, percorreva la riva destra del fiume; le altre due, sulla riva sinistra, erano comandate rispettivamente da Efestione e Tolomeo. Il resto seguiva Alessandro lungo il corso del fiume.
La marcia fungeva da perlustrazione puntigliosa, una sorta di rastrellamento via fiume e via terra, per sottomettere pacificamente o meno tutte le popolazioni che incontravano.
Alla confluenza con l’Acensine, l’esercito si riunì.
Qui vennero inoltre raggiunti dai supporti europei: ventimila soldati greci e macedoni ben addestrati, medicinali e attrezzature mediche, armi e armature nuove, abiti puliti.
L’ammiraglio Nearco diede ordine di far costruire ulteriori navi per il carico dell’esercito. L’accampamento venne montato sulla riva occidentale dell’Acensine.

Le piogge monsoniche avevano smesso di tormentarli e i soldati erano di ottimo umore. Scherzavano tra loro, ridevano, bevevano, si intrattenevano con le concubine. La vittima preferita dei diadochi era senz’altro il povero segretario Eumene. Impettito nella sua corazza, pur non essendo un soldato, si aggirava nell’accampamento e teneva tutto cotto controllo.
Con le belle giornate, qualcuno di soldati si buttava nell’Acensine. E guai se Eumene si avvicinava, veniva spinto in acqua oppure lo inzuppavano dalla testa ai piedi tendendogli agguati.
Il segretario a volte andava a lamentarsi con Alessandro, tutto fradicio, ma il re si limitava a scoppiare a ridere e canzonarlo dicendogli che sembrava un polletto bagnato. «Dai, signor segretario generale, non te la prendere! Sono ragazzacci. Con questa bell’armatura, potresti anche bacchettarli.»
«Ti ci metti pure tu?»
E Alessandro continuava a ridere.
Rossane, dal canto suo, aveva scoperto che la nave proprio non faceva per lei. I primi giorni di navigazione era stata così male che Alessandro le propose di unirsi ad una delle truppe a terra. Lei si era accodata a Cratero, approfittandone per prendere altre lezioni di spada.
Non riusciva a stare sulla nave: nausea, vertigini, persino se stava sdraiata. La flotta aveva attraversato un punto di rapide, vicini alla confluenza con l’Acensine, e Rossane fu davvero lieta di non trovarsi a bordo in quel momento.
Con il passare dei giorni, pensava sempre di più a Babilonia. Le sembrava di star tornando alla vita che faceva ad Al-Khanoum, tra gli sfarzi e i lussi. Anche se, stavolta, sarebbero triplicati: la capitale battriana era un’umile cittadina di montagna, fondamentalmente, non aveva niente a che fare con la sfavillante Babilonia.
Rossane la sognava. Sognava le porte di Ishtar, con i suoi colori cobalto e i bassorilievi in oro dei leoni e i buoi alati; sognava le ziqqurat, in particolare l’Etemenanki, edificata dallo stesso Hammurabi; immaginava i meravigliosi giardini pensili, i loro colori, e di come sarebbe stato meraviglioso camminarci.
Li disegnava, disegnava ciò che immaginava sperando che la realtà superasse l’aspettativa.

Quella sera Alessandro la osservava intenta a tracciare su una pergamena la sua fantasia. La guardava rapito, seduto vicino a lei, mentre la regina riportava su carta la sua visione dei giardini pensili.
«Sono un po’ diversi da così. – le sorrise. – Amerai Babilonia.»
«Sono meglio o peggio di come li immagino?» gli domandò, lanciandogli un’occhiata.
«Molto meglio. – le incastrò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. – Si dice che la regina Amytis, proveniente dalla verdeggiante e montuosa Media, fosse così triste per la nostalgia della sua terra, che Nabucodonosor volle replicare a modo suo quei monti, per renderla di nuovo felice.»
Rossane lo guardò con attenzione, smettendo di disegnare. «Tu per me lo faresti? Anche io vengo da una zona di montagna.»
«Io per te creerei un’intera catena montuosa con terra e sassi, alberi e fiori.» le baciò la guancia.
Rossane arrossì, facendolo sorridere compiaciuto. «Ci fermeremo a Susa, prima di andare a Babilonia? C’è mia sorella Amu, vorrei salutarla.»
«Certo che sì, te l’avevo promesso.»
«Poi sai… mi piacerebbe visitare tutte le capitali dell’impero un giorno. Soprattutto Persepoli. L’ho sognata a lungo, dicono sia anche più bella di Babilonia. È una città-simbolo per il mio popolo, tra l’altro lì sono anche conservati i più antichi testi Zoroastriani! È la meta che ogni persiano sogna di raggiungere.»
Alessandro s’irrigidì, allontanandosi appena da lei, la mascella contratta e le narici dilatate.
«In Battria non vi giunse notizia? Persepoli è stata distrutta.»
L’espressione di Rossane mutò di colpo. Da sognante divenne sgomenta, poi terribilmente triste.
I suoi grandi occhi nocciola erano spalancati, sconvolti. «Come…»
In effetti, in Battria la notizia arrivò. Ma Rossane non lo sapeva. Cresciuta nella sua cupola di vetro, le notizie che non riguardavano la Sogdiana non le conosceva neppure.
«Io l’ho distrutta. – ammise con distacco, nonostante il cuore appesantito dai sensi di colpa. – Ho lasciato che il mio esercito la saccheggiasse, stuprasse e uccidesse i suoi abitanti, ho lasciato che la città venisse data alle fiamme. Dopo aver traferito il tesoro e i documenti dal palazzo di Dario I a Ecbatana, ho lasciato che una prostituta desse fuoco anche a quello.»
C’era l’orrore, lo sgomento, il rifiuto, la confusione, negli occhi di sua moglie.
Rossane non riusciva a credere che quell’uomo, così generoso e cordiale, avesse dato alle fiamme la perla iranica. Non riusciva a credere che suo marito avesse distrutto Persepoli. I magi lo ritenevano l’incarnazione di Arimane, per via del suo elmo a forma di testa di leone, la sua chioma leonina, il suo soprannome di Leone di Macedonia. Ogni cosa era collegata al leone, e l’animale era anche una delle forme del malvagio Arimane.
Rossane sembrava comprendere il perché di quel paragone. Alessandro era capace di grandi bontà, e di grandi cattiverie dettate dall’ira. Aveva una natura pacifica e violenta, accomodante e drastica.
Chiuse gli occhi sopraffatta dall’orrore, e si lasciò andare ad un grido rabbioso che sembrò scuotere la tenda, finché non lo soffocò tra le mani.

Efestione, Cratero, e gli altri diadochi accorsero fuori la tenda per controllare che tutto andasse bene, ma quando sentirono la voce di Rossane, rabbiosa e spezzata dal pianto, non mossero un muscolo.

«Hai distrutto tutto! Hai cancellato una città rituale, un simbolo, e la sacralità di un culto!»
«Ti devo spiegare.» provò a dire, colto alla sprovvista da quella reazione esplosiva.
Lei scattò in piedi, allontanandosi per raggiungere l’altro lato della tenda.
«No! Sei un barbaro! Osate appellarvi a noi in questo modo sprezzante: ma hai visto la nostra ricchezza, la nostra maestria nell'ingegneria e nell'architettura, la nostra cultura, la nostra antichità. L'hai vista, l'hai vissuta, ne hai goduto appieno e poi ci hai sputato sopra! Osi profanare i simboli della mia gente, distruggere le città dell'impero che hai conquistato! E i barbari saremmo noi?»
«Voi persiani avete bruciato l’acropoli di Atene, avete invaso la Macedonia! Avete commesso crimini indicibili contro la mia gente!»
Rossane lo guardò come se stesse per lanciare in aria ogni cosa, era fuori di sé. Alessandro non l'aveva mai vista così in collera. La sua era un'ira funesta e distruttiva, che tanto gli ricordava la sua. Ma lei, al contrario suo, non era collerica. Era difficile far arrabbiare Rossane, ma quando succedeva… era un’esplosione, un’eruzione vulcanica.
«Non ti azzardare! Non ti permettere, Alessandro! È successo centocinquant’anni fa! Tu che decanti il rispetto per il nostro popolo e la nostra storia, per la nostra cultura; tu che decanti una politica cosmopolita... hai osato distruggere la perla del mondo! Dov'era il tuo rispetto mentre ordinavi ai tuoi soldati di stuprare, saccheggiare e dilaniare Persepoli? Dov'era la tua ammirazioni mentre permettesti ad una puttana di bruciare il magnifico palazzo di Dario? Era solo il suo tesoro che ti interessava? Il tuo ostentato buonismo e comprensione verso gli altri popoli, degni di un grande attore e bugiardo quale sei. Dov'era tutto questo mentre distruggevi i nostri testi sacri?»
«Sono il tuo re! Non azzardarti a parlarmi in questo modo, Rossane!»
Gli occhi di Rossane erano brucianti, pugnali che squarciavano il cuore. Leggeva nel suo sguardo la delusione, l'orrore, l'amarezza, la rabbia cieca. Il loro equilibrio precario... troppo bello per essere vero.
Ma ad Alessandro in quel momento non importava niente. La sua ira gli aveva contratto i muscoli, stava facendo appello a tutta la sua pazienza e buona volontà per non punire Rossane come meritava.
«Un re non avrebbe mai distrutto una delle capitali del suo stesso impero! Se vuoi una donna che ti adula anche quando commetti ignobili crimini, tornatene da quella puttana che ha incendiato il palazzo del mio re.»
Gli tornarono in mente le parole che disse Ossiarte quando la chiese in sposa: “Ha il dono di far uscire dalle grazie di Ahura Mazda chiunque. Non la darei in sposa neanche al mio peggior nemico”. Ma con lui, oltre alla disobbedienza, non aveva mai mostrato una vena tanto impunita. Quando si adirava, come in quel momento, Rossane era implacabile. Credeva di conoscerla abbastanza, ma fino a quel momento non aveva assaggiato la furia della sua regina.
Alessandro si ritrovò a sentirsi piccolo di fronte a quell'ira travolgente, a quegli occhi fiammeggianti. Ma ancor di più, sentì i sensi di colpa impadronirsi del suo cuore, acuti più che mai, per aver distrutto Persepoli, testi sacri Zoroastriani, e con essi il sogno di sua moglie di vedere una delle capitali dell'impero. Aveva distrutto una città-simbolo che l’aveva accolto senza resistenza alcuna, che era già sua di diritto. Aveva dato alle fiamme una città sacra del suo stesso impero, vittima dei fumi dell’alcool e del desiderio di vendetta risvegliato dal vino, per un torto subìto centocinquant’anni prima.
Non ne andava fiero. Si vergognava terribilmente di quel gesto così totalmente privo di rispetto, sotto ogni punto di vista, di una cultura antica come quella persiana, di una tale sacralità, di una così tanta maestria architettonica.
Ma in quel momento Rossane metteva a dura prova persino la sua vergogna, persino il suo latente desiderio di chiederle perdono in ginocchio.
«Rossane, cerca di capire le mie azioni. – cercò di calmarsi e dare un senso a ciò che aveva commesso. ─ Ho sacrificato Persepoli sull'altare della lega panellenica, ho eliminato la tentazione di Dario III di tornare.»
Lei lo fissò sgranando gli occhi lentamente, ed emise un altro grido rabbioso che sembrò scuotere la terra.
«Non hai scusanti! Perché l’hai fatto, Alessandro? Perché? – singhiozzò. – Era tua, era una delle capitali del tuo impero. Non dovevi dimostrare niente. Dovevi solo placare il tuo desiderio di vendetta per qualcosa accaduto centocinquant’anni fa… Hai distrutto tutto, ci hai sputato sopra in ogni modo possibile. Tu non hai idea di quanto Persepoli fosse importante per noi. Hai distrutto i nostri testi sacri, i nostri templi… Sacrificato Persepoli ai greci. Perché?»
Ingoiò il groppo della vergogna, strinse i pugni e sollevò il mento. «Non sono tenuto a risponderti. Sono il re.»
«Come, scusa? – aggrottò le sopracciglia, basita. – Non sei tenuto a rispondermi?» sillabò.
Lanciò un altro grido rabbioso, a denti stretti e più basso rispetto ai precedenti, colta di nuovo dalla furia cieca. Gli tirò contro un cuscino, prontamente schivato. «Demone yauna! Barbaro senza rispetto!»
Ne volò un altro, stavolta colpì Alessandro in pieno petto.
Non fu perché sentì dolore. Alzò lo sguardo su Rossane, i suoi occhi erano fiammeggianti. Il tipo di sguardo che i suoi uomini temevano più di ogni altra cosa al mondo. Più dell’India, degli elefanti, del non ritorno a casa, della morte.
La regina ricambiò quello sguardo con altrettanta forza nonostante avesse gli occhi pieni di lacrime. Era delusa, amareggiata, infuriata. Un turbine di emozioni che erano esplose in modo violento: erano troppe e troppo forti. L'uomo a cui aveva aperto e donato il suo cuore era l'artefice della distruzione di Persepoli. Alle porte della mente bussò il ricordo dell'ultima sera ad Al-Khanoum, quando insultò suo padre di fronte a Pirsar e uno dei suoi generali.
La delusione, la rabbia, il disgusto. Erano uguali a quelli provati quella sera. Era esplosa allo stesso modo. Davanti non aveva suo padre, stavolta, ma il leone di Macedonia. Lo stesso uomo che aveva bussato alle porte della Rocca di Arimazes per trucidarli tutti e che era rimasto poi innamorato di lei.
Nelle grandi falcate di Alessandro che accorciava le distanze tra loro, rivide i passi di suo padre quella sera nello studio; nella sua mano da guerriero, dura e forte, rivide quella inanellata di Ossiarte. Ma lo schiaffo che lui le diede non aveva niente a che vedere con quello che le stampò in viso suo padre. Era più forte, più sprezzante.  Gli occhi gelidi non tradivano alcuna emozione.
Rossane si quietò e, come presa da un'improvvisa mancanza di forze, si lasciò cadere in ginocchio per terra. La testa china, lo sguardo perso. Davanti a lei c'erano gli stivali di Alessandro, li vide allontanarsi ed uscire.
Nessuno entrò nella tenda della regina.
 
 
Alessandro, tornato alla sua tenda, rovesciò un paio di mense incurante di ciò che c’era sopra, e lanciò un grido di frustrazione. Si lasciò cadere seduto sul letto, prendendosi il viso fra le mani. Non sapeva bene come sentirsi: aveva appena assaggiato la devastante ondata rabbiosa di Rossane.
Si era sentito piccolo, come al cospetto di un giudice implacabile, come travolto da una mandria imbufalita. Era stata imperdonabile, irriverente e spregiudicata. Come aveva osato quella donna rivolgersi a lui in quel modo? Al suo re!
Rossane era capace di pronunciare grandi dolcezze, di sollevare gli animi più abbattuti; ma era anche in grado di distruggere quegli animi, ponendoli di fronte ai loro errori in modo così brutale e senza vie di fuga.
Si passò le mani tra i capelli, il cuore colmo di rabbia, vergogna, sensi di colpa, frustrazione. Lei gli aveva mancato di rispetto, ma sapeva che aveva la sua parte di ragione, se non totale. Comunque, con quell’atteggiamento, era passata dalla parte del torto a prescindere.
Efestione chiese di entrare nella tenda del re, lo fecero passare. Trovò l’amico con il volto deformato dalle emozioni e dalla gravità della litigata appena conclusa.
«Se può consolarti. – cominciò l’amico. – Eravamo tutti fuori la tenda di Rossane, ci siamo cagati sotto. Certo che potevi prenderne una più mite, sai tipo… Barsine.»
Alessandro alzò lo sguardo su Efestione. «Barsine…»
«Proprio lei. Mite, colta, bellissima, nobile, la madre di tuoi figlio Eracle. Giusto per dirti alcuni motivi per i quali avresti dovuto sposare lei invece della montanara.»
«Dove vuoi arrivare?»
«Ascolta, Alessandro. – si sedette vicino a lui, stringendogli la spalla con la mano. – Hai visto com’è Rossane. Credi sia una buona moglie? Nemmeno un figlio ti ha dato ancora, probabilmente è pure sterile. Sbrigati a prenderne un’altra e accantona lei. Non voglio essere cattivo ma purtroppo si tratta di priorità. Un re deve avere una moglie mite, con un peso politico, e capace di dargli un erede. Barsine era nobile e aveva un peso politico più rilevante di quello di una principessa delle montagne, era la moglie di Memnone di Rodi, bellissima, intelligentissima, colta ed educata secondo il costume greco e persiano. E, più importante, madre di tuo figlio Eracle, dato alla luce giusto un mese prima che sposassi Rossane. Perché non hai preso in moglie Barsine? Era perfetta, la regina ideale. Certo, l’ideale sarebbe stata una donna macedone, ma era un ottimo partito per essere una barbara. Aveva tutte le carte in regola, e tutti noi scommettevamo che avresti sposato lei dopo la nascita di Eracle.»
Alessandro guardò Efestione come se non lo riconoscesse. «Tu sei amico di Rossane. Perché dici questo? Che hai contro di lei?»
«Non mi fraintendere, io le voglio bene. È impavida, e credo che sia l’unica degna di te. – ingoiò un groppo. – Ma, oggettivamente... Non adempie ai doveri di una regina, e lo sai. Potevi prenderla come concubina e sposare Barsine. Perché proprio Rossane? La Sogdiana ormai era tua, anche la Battria, il matrimonio politico era futile. O se proprio volevi, avresti dovuto sposare anche le principesse di altre satrapie. Avevi tante papabili spose: Barsine tra tutte, Statira che è la figlia di Dario… Ne avevi di belle barbare da sposare, e con un peso politico. Rossane non è come loro.»
«Esatto, è questo il punto: non è come loro. Sembra che tu non sappia cosa sia l’amore, Efestione.» sorrise incerto.
L’amico sospirò dal naso, inarcando le sopracciglia. «Addirittura di questo stiamo parlando?»
«Forse un giorno prenderò altre mogli, certo. – sussurrò. – Ma non rinuncerò a lei, né la sostituirò o abbandonerò, anche se è così feroce, politicamente irrilevante o addirittura sterile come credi. Dopotutto… lei è Rossane.»







 
* * * *

POSSO SPIEGARE, credo.

ALLORA 
Persepoli era una città meravigliosa, la più bella di Persia. Nella sua architettura c'erano moltissimi simboli religiosi, era una città rituale in cui si svolgevano le più importanti celebrazioni dedicate ad Ahura Mazda, erano qui conservati tantissimi testi sacri zoroastriani.
La situazione è stata un po' come Roma quando fu saccheggiata dai barbari. Una situazione drammaticissima, sigh.
(e Persepoli, a mio parere, era molto più magnifica di Roma. Non credete, da brava romana guai a chi mi tocca Roma, ma come ho detto... secondo me Persepoli non si batteva in bellezza).

Io adoro la figura di Alessandro Magno, ma a Persepoli ha commesso un crimine ignobile e praticamente immotivato. 
La reazione di Rossane, per quanto esagerata sia, è un po' quella che hanno avuto tutti i persiani quando giunse la notizia di Persepoli distrutta, oltre al terrore per il macedone. Solo che Rossane... è Rossane(?), reagisce a modo suo quando si tratta di questioni che intaccano l'impero (il tradimento di suo padre nei confronti del Re, la distruzione di Persepoli) o di situazioni che la umiliano, come vedremo più avanti. Reagisce male.
Poi trovandosi di fronte all'artefice della distruzione della città, che guardacaso è suo marito e l'uomo che lei ha tanto faticato ad accettare... tutto ciò non ha giovato a farle mantenere la calma.
Ho voluto ricordare il prologo di questa storia, con il paragone della sera ad Al-Khanoum, perché Rossane è esplosa allo stesso modo. 

Ma dal momento che nel 12esimo capitolo si è chiarita con Alessandro, nessun litigio è irrisovibile: ora il loro rapporto ha basi solide, nonostante le delusioni e le arrabbiature.

Per l'ultima parte, non odiate Efestione. Cercate di inquadrare il suo discorso nel contesto dell'epoca.

Spero di non avervi deluso con questo capitolo, spero di non essermi fatta troppo odiare - solo due capitoli fa 'sti due erano pappa e ciccia, alla fine.
Fatemi sapere cosa ne pensate se vi va, io cercherò di aggiornare in tempi decenti. Non ho più capitoli pronti, sigh.

Alla prossima ♥

   
 
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