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Autore: Adeia Di Elferas    15/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Lorenzo il Popolano stava sfogliando i registri con gesti seccati, scuotendo la testa a ogni pagina con maggior forza, borbottando tra sé qualche frase di rammarico.

La villa di Cafaggiolo era immersa in un sole freddo, ma abbastanza luminoso. Lui e Semiramide avevano deciso di tornare lì per qualche giorno, lasciando il palazzo che avevano in città, per sfuggire alla confusione che ancora vigeva a Firenze.

Lorenzo andava un giorno sì e uno no alle riunioni della Signoria e quando era alla villa si metteva a controllare gli affari di famiglia, trascurati in modo imperdonabile mentre era all'estero.

“E voi non avete fatto nulla per fermarlo?” chiese il Medici con un filo di voce, mentre il dito passava su un ammanco di trecento ducati, usati, a quanto dicevano le ricevute, per comprare delle stoffe recapitate direttamente a Forlì.

Uno degli amministratori, il più anziano, portavoce degli altri, guardò un momento i suoi colleghi e poi si schiarì la gola e rispose: “Non pensavamo di averne l'autorità. Voi stesso ci avete detto che tanto voi quanto vostro fratello avevate libero accesso alle casse di famiglia. Quando ci sono arrivati gli ordini, noi abbiamo semplicemente spedito le cambiali.”

Il Popolano si passò una mano sulla fronte, trovandola imperlata di sudore freddo. Quando Simone Ridolfi gli aveva scritto per dirgli che aveva accettato una carica come Governatore di Imola, Lorenzo si era convinto che il cugino l'avesse fatto solo perché ormai certo che Giovanni non avesse più bisogno di una balia.

E invece, ora che si trovava davanti alla realtà raccontata dalle carte, doveva ricredersi grandemente: Simone aveva lasciato perdere Giovanni solo perché aveva capito che ormai era irrecuperabile.

Il Medici trovò altre piccole richieste di denaro, quasi tutte spese per tessuti preziosi e per un paio di armi di pregio.

Stava già per chiudere il pesante registro, quando, svogliatamente, ripercorse a ritroso ancora un po' di cifre e per poco non sentì il cuore fermarsi nel petto.

“Diecimila ducati?!” sbottò, picchiando con forza la mano chiusa a pugno sulla scrivania.

I suoi amministratori sussultarono e subito dopo uno di loro provò a dire: “Si è trattato di una spesa che vostro fratello ha detto necessaria per...”

“Ed era solo una parte!” esclamò Lorenzo, vedendo altri piccoli prelievi poco sotto: “Ma che... Ma come..! Quella maledetta donna! Una meretrice assetata di soldi, ecco cos'è! Ma come accidenti ha fatto Giovanni a farsi fregare così?!”

La sua voce, insolitamente a un volume molto alto, aveva attirato l'attenzione di Semiramide, che stava ricamando nella stanza accanto.

Tenendo ancora in mano il suo lavoro di ricamo, la donna arrivò nello studio e guardò il marito, i cui occhi tondi erano talmente spalancati da sembrare in procinto di cascare già dall'orbita.

“Cos'è successo?” chiese Semiramide, arrivandogli accanto e guardando i registri.

“È successo che tuo cognato – disse Lorenzo, prendendo moralmente le distanze dal fratello – ha deciso di spolpare le casse della nostra famiglia per fare lo splendido con un'assassina!”

La moglie del Medici controllò un momento i resoconti delle spese e comprese molto bene la furia del marito.

Sospirando, guardò gli amministratori e disse con aria di rimprovero: “Diecimila ducati. È il doppio di quel che si dice che gli Orsini stiano spendendo per riavere le loro terre dal papa.”

“Noi abbiamo solo fatto che quel ci era stato detto dalle signorie vostre.” si schermì uno dei funzionari, abbassando il capo.

“Sì, ma quando avete capito che mio fratello aveva perso la testa, potevate anche..!” cominciò a gridare Lorenzo, ma la moglie gli aveva messo una mano sulla spalla, stringendo quel tanto che bastava per fargli capire di tacere.

“Potete andare, ora. Vi aspetto dopodomani per visionare i conti delle vigne assieme a me.” fece Semiramide, con un sorriso un po' tirato.

Gli amministratori lasciarono lo studio, mesti e insicuri, e solo quando la donna sentì che prendevano i cavalli e udì chiaramente lo scalpicciare di zoccoli oltre la finestra, si rivolse al marito: “Mai far capire agli altri quanto una cosa ti stia mettendo in difficoltà.”

Lorenzo sporse in fuori il labbro, accentuando la sue espressione perennemente imbronciata e chiuse con un tonfo il registro: “Ma Giovanni ha esagerato.”

“E allora? Tienitelo per te.” disse Semiramide, facendolo alzare e scrutando nei suoi occhi: “I nostri amministratori sono stati a bravi a non far rubare le cose più preziose da casa nostra, ma quanto possiamo realmente fidarci di loro? Solo della famiglia, Lorenzo, solo di noi ci possiamo fidare.”

L'uomo annuì lentamente, sapendo bene che quella che sua moglie, un'Appiani, stava esponendo era niente meno che la filosofia di vita dei Medici.

“Con ciò, è vero che Giovanni ha esagerato – riprese la donna, appoggiando alla scrivania il suo ricamo e cominciando a tormentarsi le mani l'una nell'altra – se andrà avanti così, potrebbe anche mandarci in bancarotta. Spendere così tanti soldi per ricomprare dei gioielli...”

“E io che credevo che Simone potesse fare qualcosa...” sussurrò Lorenzo, abbattuto: “Ma di tutte le donne che ci sono al mondo, perché doveva farsi abbindolare proprio da quella meretrice?”

“Scrivi subito a Giovanni.” decise all'improvviso Semiramide: “In fondo se siamo a tornati a Firenze è perché lui ci ha detto di farlo per proteggere gli interesse della nostra famiglia, no? Ecco, digli che ora che siamo qui, anche lui deve fare la sua parte.”

Il Popolano si morse l'interno della guancia e ripensò alle parole che suo fratello gli aveva scritto per convincerlo a tornare a Firenze. In quelle poche righe, Giovanni non aveva fatto cenno né alle spese fatte in quell'anno, né alla sua situazione come ambasciatore, tanto meno alla Tigre di Forlì.

Forse poteva ancora recuperarlo, facendo leva sul suo senso di appartenenza alla famiglia e sul suo amore per Firenze.

“Va bene. Dai, aiutami a scrivere qualcosa che possa convincerlo.” concluse Lorenzo, prendendo la moglie per mano invitandola a sedersi accanto a lui alla scrivania.

 

Il figlio del papa attendeva con impazienza nel salone decorato del palazzo del padre. Più guardava affreschi e stucchi, però, più si sentiva chiuso in una gabbia fatta d'oro e marmo.

Quella mattina Sua Santità era uscito presto. Da quel che aveva capito Cesare, doveva essere andato al palazzo dei Riario per vedere i progressi di un certo Michelangelo che, pur vivendo a casa di Jacopo Galli, era solito frequentare la casa del Cardinale Sansoni Riario.

“Oh, finalmente siete arrivato...” sospirò di sollievo Cesare, quando vide arrivare il Cardinale di Santa Maria in Trastevere.

L'uomo congedò il paggio che l'aveva scortato e poi, togliendo una mano dal manicotto di pelliccia, la offrì al figlio del papa affinché baciasse l'anello cardinalizio.

Aveva ricevuto il cappello rosso da un anno scarso, eppure si comportava come se la Chiesa fosse di sua proprietà.

Cesare, però, inghiottì il boccone e, di buonagrazia, si inchinò e diede il bacio di rito senza aspettarsi il medesimo trattamento.

“Allora di cosa si tratta?” chiese Juan Lòpez, facendo scorrere gli occhi spenti sul volto largo e un po' piatto del Borja.

“Voglio parlarvi di una questione molto importante e di estrema delicatezza.” spiegò Cesare, facendolo accomodare.

“Sono tutt'orecchie.” assicurò l'altro, con i suoi quarantadue anni portati malissimo che lo facevano sembrare un povero vecchio dai gesti nervosi e dall'espressione assonnata.

Il figlio del papa gli spiegò con dovizia di particolari quello che aveva in mente e a ogni parola lo sguardo di Lòpez pareva accendersi un po' di più, tanto che alla fine il pesante torpore che lo avvolgeva era del tutto svanito e l'uomo stava proteso in avanti, i gomiti piantati nelle ginocchia e le sopracciglia sollevate.

“Mio padre non vuole lanciare la scomunica a Savonarola, ma io sono certo che sia il momento di farlo.” concluse Cesare, raddrizzando le spalle.

“Falsificare una scomunica non è affare da poco.” fece notare Juan, vedendo per la prima volta qualcosa di più, nel giovane Borja.

L'aveva sempre stimato solo alla stregua di un pupazzo da vestire di seta e gioielli, da esporre alle feste, un figlio di cui il papa a volte arrivava a vergognarsi, che non sapeva come impiegare, impacciato ai ricevimenti e livido di invidia per il fratello maggiore.

Quello che però Lòpez si trovava davanti in quel momento non era un ragazzo viziato e goffo, ma un uomo con le idee molto chiare e disposto a rischiare molto per guadagnare moltissimo.

“Per quello ho cercato voi e nessun altro.” disse Cesare, le labbra che si sollevavano appena a mostrare i denti bianchissimi: “So che conoscete le persone giuste per queste cose.”

Il Cardinale lisciò il manicotto di pelo che portava in grembo e cominciò a ragionare su quella proposta. Im effetti, conosceva un falsario eccellente che non avrebbe avuto problemi ad aiutarlo.

“In più – soggiunse Cesare – so che voi potreste creare un documento eccellente perché nessuno è più esperto di voi in diritto della Chiesa. Sono certo che troverete anche più capi d'accusa di quelli che ho fornito io.”

L'altro non trattenne un sorriso compiaciuto nel sentirsi adulare a quel modo e concluse: “Posso iniziare a muovermi.” poi ondeggiò il capo a destra e sinistra per un po', come se stesse facendo dei calcoli moto complessi: “Ma non credo di potervi dare un documento decente prima di un paio di mesi.”

“Sono certo che farete un ottimo lavoro.” fece il Borja, alzandosi e stringendo la mano al Cardinale, che aveva lasciato la poltrona calda e soffice con un po' di riluttanza: “E state certo che saprò come ripagarvi.”

 

“Ti andrebbe di andare alla Casina stasera?” chiese Giovanni, con un tono mesto che allarmò Caterina.

Era quasi sera e la Contessa aveva appena finito di seguire una sessione di addestramento durante la quale aveva valutato con attenzione anche i progressi di Galeazzo, restandone molto ben impressionata.

Non appena era rientrata nei corridoi della rocca, il Popolano le era arrivato accanto e le aveva fatto quella improvvisa proposta.

“Tutto bene?” chiese la donna, cercando gli occhi chiari del Medici, che però restavano piantati in terra.

“Ma sì... Ho solo voglia di stare un po' con te. Da soli.” rispose Giovanni, sottolineando le due ultime parole proprio mentre un paio di soldati passava loro accanto.

“Va bene. Dico al castellano che questa notte non sarò a Ravaldino e poi possiamo anche andare, se vuoi.” accettò la Sforza.

Nella luce calante della sera, i due presero i cavalli e uscirono. Attraversarono la riserva senza inconvenienti, benché tra le piante ci fosse ancora un po' di nebbia, e infine arrivarono alla Casina.

La Tigre accese il fuoco nel piccolo camino e Giovanni si diede da fare con le candele. Quando l'ambiente fu abbastanza illuminato, la donna guardò l'ambasciatore con fare interrogativo.

Il Medici era stato in silenzio per tutto il viaggio e anche adesso non sembrava in vena di parlare.

Caterina aveva capito che doveva esserci qualcosa di grosso. Il suo primo pensiero andò a Firenze e quando finalmente il Popolano parlò, la Contessa capì di aver avuto ragione.

“Mi ha scritto mio fratello – sussurrò Giovanni, a malapena udibile – vuole che io torni a Firenze.”

“E perché?” chiese Caterina, sentendo la gola seccarsi.

Il fiorentino soffiò e poi rispose: “Dopo il Falò delle Vanità, è convinto che Roma non resterà più con le mani in mano e che farà qualcosa di concreto per ridimensionare Savonarola. Secondo Lorenzo, questa sarà la nostra migliore occasione per rovesciarlo e vuole avermi al suo fianco per dare il colpo di grazia al domenicano e restituire ai Medici la Signoria. Dice che sarebbe meglio agire subito.”

“Lo pensi anche tu?” domandò la Sforza, appoggiandosi con una mano alla cornice del camino.

“Di certo si tratta di un'occasione preziosa.” confermò lui, a malincuore.

“E allora vai.” fece con secchezza la donna, voltandogli le spalle e cominciando a sistemare meglio i ciocchi di legno nel camino con il ferro, benché non ce ne fosse alcun bisogno: “Tu ami la tua Firenze e in fondo non hai nulla che ti trattenga qui, no?”

“Ci sei tu.” bisbigliò Giovanni, stringendo i pugni lungo i fianchi.

“Ma noi due non siamo legati da nulla – ribatté la Tigre, rinfacciandogli le stesse parole che lui stesso le aveva rivolto qualche tempo addietro – da nulla di ufficiale, almeno.”

“Ma...” provò a dire l'uomo.

Caterina lo mise a tacere, restando di spalle: “Tanto immagino che tu sappia già cosa scrivere a tuo fratello, no? Me ne hai voluto parlare solo sperando che io ti dicessi di partire. Così non ti saresti sentito troppo male, pensando che avevi il mio appoggio e che non mi lasciavi qui...”

'Da sola' concluse la donna, nel segreto della sua mente.

“Io gli ho già spedito la mia risposta, in realtà.” rivelò il Popolano: “Ho fatto partire il messaggero oggi, nel primo pomeriggio.”

La Leonessa sentì le gambe tremare per un momento.

Forse quello sarebbe stato un addio? Davvero Giovanni era capace di essere tanto crudele da decidere di tornarsene a Firenze senza nemmeno prima consultarla? Perché le aveva voluto parlare proprio lì, nel luogo in cui si erano amati la prima volta?

Stava quasi per cedere a un momento di profondo sconforto, quando sentì la presenza del Medici alle sue spalle. L'uomo l'abbracciò con forza, mentre Caterina provava a resistergli, in collera con lui, ma allo stesso tempo desiderosa di sentire le sue braccia su di sé e il petto di lui contro la sua schiena.

“Gli ho scritto per dirgli che resterò qui.” le sussurrò il fiorentino, le labbra premute contro il suo orecchio: “Gli ho scritto che non posso lasciare la donna che amo.”

 

La strada dissestata fece traballare la carrozza tanto da far venire la nausea a Violante Bentivoglio.

Pandolfo, invece, dormiva della grossa, seduto davanti a lei. Aveva la bocca mezza aperta e i lunghi capelli neri gli coprivano parte del volto. Se non avesse russato tanto forte, avrebbe potuto sembrare morto.

E invece morto non era.

Violante ricordò in un lampo l'agguato a cui il marito era scampato solo un paio di giorni prima. A suo parere, era stato proprio quell'incidente a convincerlo a partire.

A Rimini si era instaurato un governo militare ad interim, guidato dai veneziani che stavano rimettendo in riga la popolazione, arrestando e impiccando i fomentatori della rivolta.

Pandolfo in un primo momento era parso deciso a restare, in modo da render chiaro a tutti che i Serenissimi erano lì solo per lui, come se fossero alle sue dipendenze e non il contrario.

Ma poi, una mattina, mentre era fuori con alcuni cacciatori, aveva subito un'imboscata.

Un manipolo di balestrieri aveva atteso nel sottobosco e poi aveva attaccato, senza però riuscire a ucciderlo.

Violante aveva sentito il marito parlare di un certo Tiberti e poi della Tigre di Forlì. Tutto quanto, però, sembrava ancora immerso nell'incertezza, tanto che il Malatesta si era rifiutato di coinvolgere i veneziani in un'eventuale spedizione punitiva ai danni dei due colpevoli.

Dopo aver discusso con i suoi proviggionati, anzi, aveva deciso di partire per Venezia, con la scusa di lamentarsi per lo scarso appannaggio che il Doge gli aveva concesso e per i ritardi nel pagamento.

Una scusa assurda e pretenziosa, soprattutto ora che i soldati veneziani gli avevano salvato lo Stato e la vita.

“Che diamine..!” grugnì il Pandolfaccio, svegliandosi di colpo quando la ruota del carro prese un sasso così grosso da far sbandare un po' il veicolo.

Violante si strinse nelle spalle, avvolgendosi ancor più nel mantello, e gli sussurrò: “Dormi. A Venezia manca ancora molto. Tra un po' ci fermeremo per la notte.”

In altri momenti il Malatesta le avrebbe come minimo detto di starsene zitta, ma tutto sommato riconosceva di essere ancora vivo anche grazie a lei, che lo aveva convinto, il giorno dell'agguato, a uscire a caccia con al seguito anche delle guardie. Proprio uno di quegli uomini, facendogli scudo con il proprio corpo, l'aveva salvato.

Così, con uno sbuffo, si risistemò sul sedile e si riaddormentò.

 

La luce dell'alba filtrava timida dall'unica finestra della Casina. La nebbia si era diradata e quel giorno si preannunciava limpido.

Dopo che Giovanni aveva detto di aver scritto al fratello che sarebbe rimasto a Forlì per non lasciare Caterina, i due non avevano più profferito parola e avevano lasciato che i loro gesti parlassero al loro posto.

Tuttavia, anche dopo essersi amati a lungo e con passione, nessuno dei due si era acquietato a sufficienza per addormentarsi. Retaggio dei rispettivi tormenti interiori che li avevano tenuti svegli per lunghissime notti quando ancora non condividevano i tramonti e le albe, né la Contessa né l'ambasciatore erano più avvezzi a dormire molto e bastava a loro poco per passare una notte intera senza chiudere occhio.

“Giovanni..?” fece la Tigre, con un filo di voce.

Il Medici respirava in modo ritmico e tranquillo, con tanta leggerezza che per la donna era difficile capire se fosse sveglio o meno. Era abbracciata a lui, la testa sul suo petto, e il braccio che l'uomo teneva sulle sue spalle era abbandonato con una dolcezza che poteva benissimo lasciare intendere che stesse dormendo.

“Sì?” disse invece subito l'uomo, che, del tutto insonne, da un bel po' si era messo a fissare la luce del sole che nasceva.

“Vuoi sposarmi?” chiese Caterina, senza preavviso.

Giovanni reagì a scoppio ritardato. Dopo un primo momento di forte stordimento, si tirò un po' su, puntellandosi contro il cuscino e cercando di guardare la Sforza in viso.

“Sei seria?” domandò il fiorentino, non riuscendo a trovare gli occhi di lei, perché la donna si era aggrappata a lui con tanta forza da impedirglielo.

La Tigre non rispose, stringendolo però ancora con maggior prepotenza, come a rivendicare una sua proprietà.

Il Popolano capì che quello equivaleva a una conferma.

Mettendosi una mano sul petto, poco lontano da punto su cui la Contessa premeva la propria guancia, il Medici bisbigliò: “Mio Dio... Mi sembra che mi scoppi il cuore di gioia...”

In effetti Caterina sentiva il cuore dell'uomo battere a una velocità incredibile e con una forza assordante.

Staccandosi finalmente un po' da lui, lo sguardò in viso e ne studiò i lineamenti. Sotto i primi raggi del pallido sole di marzo, il volto del fiorentino sembrava scolpito nel marmo. I suoi occhi di un verde pressoché trasparente brillavano di vita. Il suo naso dritto e le sue labbra piene fremevano di eccitazione e le sue guance, coperte da un sottile strato di barba, erano arrossite con decisione.

“Sarebbe un sì?” chiese la Sforza.

“Sì.” confermò Giovanni e, prima di lasciarle il tempo di aggiungere altro, cominciò a baciarla.

La Tigre, per quella volta, lasciò che fosse il suo uomo a condurre il gioco e assecondò ogni sua iniziativa fino a quando, con il sole che ormai entrava con arroganza dalla finestra, si trovarono entrambi sfiniti e abbracciati, inebriati l'uno dall'altra.

“Perché vuoi sposarmi?” chiese il Popolano, mentre la Sforza gli scostava un ciuffo di corti riccioli castani che il sudore gli aveva incollato alla fronte.

La donna diede un rapido bacio sulle delicate labbra dell'uomo che stava ancora sopra di lei e rispose: “Per il tuo nome. Per la tua posizione. Per i tuoi soldi. Per la protezione che potrai offrire a me e ai miei figli...”

Giovanni accettava i baci che ogni tanto le gli dava, tra una frase e l'altra, ma le lanciava anche qualche occhiatina indecisa, come se davvero si stesse chiedendo se la Tigre parlava per scherzo o sul serio.

“Perché sei anche un bell'uomo. E poi perché sto bene solo quando sono con te.” concluse la Contessa: “Tu mi stai dando la pace in una vita fatta di guerre.”

A quel punto il Medici affondò il viso nei suoi lunghi capelli biondi e bianchi e inspirò con forza l'odore della sua pelle.

“Ah, e quando saremo sposati...” iniziò a dire Caterina, interrompendosi subito.

“Sì?” la incoraggiò l'uomo, mettendosi sul fianco, accanto a lei, e passandole una mano sulla spalla e poi sul braccio, fino ad arrivare a intrecciare le dita con le sue.

“Io non voglio più stare attenta. A niente. Io sono stanca di stare attenta.” disse in fretta la Tigre.

Giovanni annuì in silenzio, anche se era certo che la sicurezza che la donna stava ostentando in quel momento si sarebbe quanto meno stemperata una volta usciti dalla Casina.

“E poi sono anche stanca di evitare di avere figli.” aggiunse la Tigre, distogliendo lo sguardo.

“Intendi dire che..?” fece il fiorentino, che aveva scartato già da tempo l'ipotesi di avere un figlio da lei, visto come Caterina stessa gli avesse fatto capire che i sette che aveva già dato alla luce fossero più che sufficienti per lei.

“Non dico di cercare un figlio a tutti i costi, sia chiaro – specificò la Leonessa – ma sono stanca di evitarlo. Se un figlio arriverà, arriverà e basta.”

Colto da un entusiasmo travolgente, il Medici si rituffò su di lei, con un sorriso che non svaniva nemmeno quando le baciava la pelle liscia del collo e del seno, scendendo sempre più in basso.

“Però sappi una cosa – fece la donna, fermandolo un momento e sollevandogli il mento in modo che la guardasse – io mi conosco e non augurerei a nessuno di avermi come madre.”

Se avremo un figlio – ribatté il Popolano, calcando la mano sul 'se', sapendo quanto quel dubitativo fosse importante per la Sforza – sono sicuro che sarai una buona madre per lui. Mi fido di te. E poi ci sarò anche io. Forse.”

L'ultima aggiunta, sfuggita dalle labbra del Medici senza che lui lo volesse davvero, aveva fatto sì che entrambi sentissero con un brivido lo spettro della malattia di Giovanni aleggiare sul loro letto, occhieggiando malevolo verso di loro.

“Pensaci, che bello che sarebbe...” disse allora Caterina, con un sorriso tranquillo, decisa a stemperare quell'improvvisa tensione: “Un Medici con il sangue degli Sforza...”

 
   
 
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