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Autore: Roscoe24    15/10/2017    4 recensioni
“Ahi,” si lamentò, toccandosi la fronte. Ci sarebbe spuntato un bel bernoccolo, se lo sentiva.
“Oh santi numi!” sentì esclamare e poi di nuovo il botto metallico dello sportello che veniva chiuso. Alec aveva ancora le mani sulla fronte, quindi non poteva vedere chi fosse il suo interlocutore. La verità era che si stava vergognando così tanto di essersi comportato come un tale imbranato che non aveva il coraggio di togliersi le mani dal viso.
“Ehi, là sotto. Tutto bene?” lo sconosciuto appoggiò le mani sui polsi di Alec, il quale percepì il tocco caldo contro la sua pelle. Curioso, si liberò la faccia.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’idilliaco weekend di Alec fu spazzato via dalla brutalità della realtà e del lunedì mattina, accompagnato dall’insistenza di una sveglia che, prima o poi, avrebbe davvero scaraventato contro il muro. Quando aprì gli occhi gli sembrò di essere uscito da un sogno durato troppo poco: l’atmosfera creatasi in quei due giorni che aveva passato insieme a Magnus, si stava disintegrando come vetro sotto al peso della cruda realtà, ricordandogli che, per quanto fosse stato bene in quei giorni, i suoi comportamenti a scuola dovevano tornare ad essere controllati per una serie di motivi che cominciava ad odiare, ma dei quali aveva ancora paura per liberarsene definitivamente. Primo: se fosse stato tanto esplicito come lo era stato il giorno prima a Central Park sarebbe stato impossibile equivocare il suo orientamento sessuale e di conseguenza sarebbe stato il primo studente a fare coming out. Da qui, il secondo motivo: se fosse venuta fuori la verità, era sicuro che Imogen Herondale avrebbe impiegato una cosa come tre secondi e mezzo per informare i suoi genitori della scioccante e oltremodo inaccettabile situazione.
In poche parole, il mondo era tornato ad essere ingiusto, ma almeno sembrava meno schifoso. Ed Alec sospettava fortemente che il motivo di tale impressione fosse proprio Magnus, che faceva sembrare ogni cosa migliore. Chissà solo se era disposto a tenere segreto il loro rapporto, per adesso. Aveva paura di chiedergli troppo.
“Alec, riesco a sentire gli ingranaggi del tuo cervello muoversi da qui.”
Jace alla sua sinistra, si era voltato in costa per riuscire a guardarlo meglio.
“Stai fissando il soffitto da almeno cinque minuti,” continuò il biondo, “ti ho salutato e non mi hai risposto, come se non mi avessi nemmeno sentito. Vuoi dirmi cosa c’è?”
Alec si lasciò andare ad un sospiro pesante, afflitto. “È lunedì.” Disse, come se Jace avesse potuto capire ogni cosa. Ma, per quanto, di solito, le loro menti viaggiassero sullo stesso binario, quella mattina Jace dovette chiedere qualche spiegazione in più per riuscire a capire l’umore del fratello.
“E quindi?”
Alec voltò la testa di lato, per riuscire a guardare Jace. Erano così diversi, pensò. Opposti, non solo caratterialmente, ma anche fisicamente. Jace era biondo, luminoso come il giorno, Alec era moro, ombroso come la notte.
Erano il sole e la luna ma, contrariamente a quanto succede ai corpi celesti, che non stanno mai in cielo nello stesso momento, Jace e Alec non avrebbero potuto vivere separati. Non potevano fare a meno uno dell’altro, troppo uniti nel profondo per essere in grado di rinunciare uno all’altro.
Ciò che li univa andava al di là di qualsiasi legame di sangue. Era forte, calcificato nelle loro anime.
Alec ripensò momentaneamente alla storia che aveva raccontato a Magnus, quella su come si era procurato la cicatrice, e con la mente vagò al pomeriggio passato in ospedale per mettere i punti. Maryse guardava con apprensione il figlio mentre, con la schiena nuda rivolta verso il dottore, si faceva visitare da quest’ultimo. Alec ricordava le mani calde dell’uomo sulla sua pelle, così in contrasto con la temperatura fredda degli strumenti metallici che usava per visitarlo. Ricordava bene lo sguardo angosciato impresso nelle iridi scure – e di norma indecifrabili – della madre, ma ancora meglio ricordava l’espressione preoccupata e terrorizzata di Jace. Era spaventato all’idea che potesse succedergli qualcosa e Alec sapeva che si sentiva in colpa, anche se colpa sua non era. Era stato lui ad accettare quella sfida.
‘Dobbiamo mettere dei punti, signora. Ma non è niente di grave.’
A quelle parole, Maryse si era lasciata andare ad un sospiro liberatorio, rilassato.
‘Quando può metterglieli?’
‘Anche subito, signora. Può aspettare fuori, se vuole.’
‘No, preferisco rimanere, se posso.’
‘Certo. E tu, piccolo?’

Il dottore aveva guardato Jace, rimasto in silenzio a fissare Alec fino a quel momento.
‘Rimango anche io, signore. Alec starà bene?’
‘Alec starà benissimo. Gli rimarrà solo una cicatrice.’

Jace aveva annuito e si era avvicinato al fratello. Non si erano detti nulla, non si erano nemmeno toccati. Jace era semplicemente rimasto al fianco di Alec mentre il medico gli faceva passare un ago da un lembo di pelle all’altro, chiudendo la ferita. In quel momento, entrambi capirono che quello sarebbe stato il loro posto per tutta la loro vita: uno di fianco all’altro. Insieme, per sostenersi, per coprirsi le spalle.
“Alec, sono consapevole della mia ultraterrena bellezza, ma potresti smettere di fissarmi? Inizi a spaventarmi, sicuro di stare bene?”
“Sto bene… sono solo preoccupato.”
“Per cosa?” Jace tornò serio.
“La quotidianità. Questi giorni con Magnus sono stati bellissimi, ma so che a scuola non posso comportarmi come ho fatto in questo weekend.”
“Perché le voci girerebbero e quell’arpia della Herondale spiffererebbe tutto a mamma e papà.”
“Esatto.”
“Che palle. La odio.” Jace sbuffò, frustrato.
“Mi preoccupa anche un’altra cosa,” cominciò Alec, in un sussurro. Non era abituato ad essere così eloquente riguardo le sue questioni, tendeva sempre ad ascoltare gli altri, piuttosto che parlare di sé, ma Jace gli aveva chiesto se avesse cominciato a parlare anche con lui, coinvolgendolo di più, ed era quello che Alec voleva fare.
Jace si sistemò meglio sul fianco, un braccio sotto al cuscino, “Cosa?”
“Dovrei tenere segreto il rapporto con Magnus, ma ho paura di chiedergli troppo…”
“Alec,” cominciò Jace, un sorriso rilassato ad aprirgli il viso, “Quel ragazzo farebbe di tutto, per te. Se gli chiederai di aspettare, lui lo farà.”
“Ma non è giusto nei suoi confronti.”
“Nemmeno forzarti a fare qualcosa che non vuoi fare è giusto.” Ribatté. “Parlargli. Sono sicuro che arriverete ad un compromesso.”
“Tu dici?”
“Dico. Sono piuttosto sicuro che sono poche le cose che Magnus non farebbe pur di continuare a vederti.”
“Vuoi dire che lo conosci meglio di me?” scherzò Alec.
Jace rise: “Anche se fossi interessato, dubito che l’interesse sarebbe reciproco. Quel ragazzo è completamente immune al mio fascino stratosferico.”
Alec si lasciò andare ad una risata, “Un caso unico, insomma.”
“Esatto! Come pensi possa sentirsi il mio ego?”
“A pezzi, immagino!”
Jace si girò a pancia in su, una mano sopra ad essa per cercare di placare la risata. “Sul serio, Alec. Gli piaci da morire, si vede da come ti guarda. Troverete una soluzione, ne sono sicuro.”
“Lo spero, davvero.”

*

Alec era in preda all’ansia. Non sapeva come doveva gestire la cosa, in fondo avevano passato solo un weekend insieme, giusto? Che diritto aveva di avanzare delle pretese, o di pensare che quello che avevano passato sarebbe stato il preludio di una possibile relazione?
Sicuramente le cose che si erano detti faceva pensare che qualcosa di serio poteva nascere.
Quello che tu hai detto.
Gli suggerì malefica la sua coscienza, facendogli tornare a galla l’insicurezza. Era vero. Solo lui aveva parlato delle cose che più lo terrorizzavano, ma ciò non voleva dire che Magnus aveva dato segni di disinteresse a costruire qualcosa con lui. Avevano parlato di tante cose, alcune più serie di altre ed era nato qualcosa, tra di loro, qualcosa a cui Alec non sapeva dare un nome. Era decisamente troppo presto per cercare di etichettare quello che lui e Magnus avevano, ma non era troppo presto per sapere lui cosa ne pensasse, giusto?
Gli sudavano terribilmente le mani e nemmeno passarle una cosa come dodici volte sul tessuto dei jeans lo aiutava a calmarsi. Continuava a guardare fuori dal finestrino, seduto sull’autobus, nell’attesa di veder comparire la sua fermata e di conseguenza la figura di Magnus, a cui aveva mandato un messaggio dopo la chiacchierata con Jace.
Gli aveva scritto che doveva parlargli e Magnus si era trovato d’accordo.
Quando vide la sua fermata e con essa anche la figura sgargiante di Magnus, iniziò a sudare freddo, in preda ad un crudele panico che gli attanagliava le viscere. Strinse le mani a pugno e chiuse gli occhi, strizzandoli più forte che poté.
Quando sentì l’autobus fermarsi, una mano appoggiata sulla spalla glieli fece aprire.
“Devi stare tranquillo, fratello.”
Jace.
Alec apprezzava davvero il suo tentativo di rassicurarlo, ma temeva sul serio che avrebbe rovinato tutto, che avrebbe mandato all’aria l’unica cosa bella che aveva da tempo immemore e avrebbe distrutto qualcosa che forse era destinato ad essere speciale.
Deglutì, gesto che risultò alquanto inutile: la sua gola era terra bruciata dal sole, un deserto colmo di cactus.
Seguì Jace e Iz fuori dall’autobus e, mentre loro si avviavano verso Clary e Simon, Alec rimase impietrito qualche istante, imbambolato a guardare Magnus che l’aveva già adocchiato. Era bello. Dio, se era bello. Era qualcosa di magico, di meraviglioso. Gli si avvicinò, attratto dalla sua aura come la luna è attratta dalla terra, gravitando insieme ad essa intorno al sole.
Non riusciva a controllare il suo corpo, si stava avvicinando senza che il suo cervello gli mandasse l’impulso di farlo, era come se fosse stato guidato dai movimenti involontari dei suoi battiti cardiaci: il suo cuore reclamava la vicinanza di Magnus e lui, istintivamente, obbediva.
“Buongiorno, fragolina.”
Alec rimase qualche secondo a fissarlo, a perdersi nell’ambra delle sue iridi, quel colore così caldo e confortante che associava alla stessa sensazione di benessere che gli dava il fuoco acceso nel camino d’inverno.
“Buongiorno.”
Avrebbe voluto baciarlo. Avrebbe davvero voluto farlo, ma c’erano occhi che avrebbero visto e voci che avrebbero parlato. Se era arrivato a capire che non gli importava di cosa potessero pensare gli amici dei suoi genitori su di lui, convinto che non avessero il diritto di possedere la sua felicità, non era ancora riuscito a superare lo scoglio di quello che potessero pensare sua madre e suo padre. Per quanto potesse non concordare con le loro idee, una parte di lui ancora non voleva ferirli, non voleva deluderli.
“Alexander, stai bene?”
“S-si,” si scosse dai suoi pensieri, “Volevo solo… parlarti.”
“Ti ascolto.”
“Io.. io..” Alec sentì il viso andare in fiamme e la lingua arricciarsi su stessa, come se non avesse la minima intenzione di collaborare. Non era mai stato bravo in queste cose. Anzi, non aveva mai fatto certe cose. Qual era il modo giusto di dire a qualcuno che vuoi continuare a frequentarlo, ma senza essere troppo espliciti in pubblico?
“Tu?” lo incoraggiò l’altro.
“Non possiamo farci vedere, Magnus.”
Bravo, Alec, complimenti. Per nulla brutale, davvero. Avrebbe voluto darsi uno schiaffo da solo.
“Lo so, Alexander. Credi che non ti abbia ascoltato, ieri pomeriggio?”
Alec rimase colpito da quella risposta e dal fatto che Magnus non sembrava per nulla arrabbiato con lui o scocciato per quella richiesta. Il ragazzo lo stava semplicemente capendo e assecondando. Alec lo apprezzava davvero tantissimo. “Non è per te, voglio che tu lo sappia, questo. E voglio anche che tu sappia che…” deglutì, di nuovo a vuoto. Tra la gola e la lingua, l’interno della sua cavità orale sembrava fatta di cartavetra, “che non voglio rinunciare a questo…” indicò prima se stesso poi Magnus, non sapendo che nome dare alla cosa nata tra di loro.
Magnus, con grande sorpresa di Alec, si distese in un sorriso tenero, “Nemmeno io voglio rinunciarci, Alexander. E so che hai ancora bisogno di tempo. Non voglio forzarti a fare nulla, intesi?”
“Grazie.” Alec si lasciò andare ad un sospiro liberatorio e gli sorrise, grato.
“Non devi ringraziarmi, fragolina.”
“Hai trovato un nome nuovo?”
Magnus sorrise compiaciuto: “Ti piace?”
“Non mi pronuncerò, Magnus.”
“Stai rendendo la scelta estremamente difficile, lo sai, zuccherino?”
“Potresti cominciare a chiamarmi semplicemente Alec.”
“No. A questa richiesta mi oppongo fermamente.”
“Perché, che ha Alec che non va?”
“Niente, solo che tutti  ti chiamano Alec e io non voglio essere tutti.
Alec sorrise, facendo comparire due fossette sulle guance arrossate.
“Non sei tutti, Magnus.”
“Con questa risposta ti sei guadagnato un bacio, fragolina.” Magnus fece un passo verso Alec, il viso abbastanza vicino a quello del ragazzo perché solo lui potesse sentire quello che stava per dirgli, ma non così tanto da far sembrare la loro vicinanza sospettosa. “Non vedo l’ora di averti tutto per me per poter dartene uno come si deve.”
Alec arrossì e si umettò le labbra, come se quel gesto gli portasse alla memoria il sapore di Magnus.
“Potremmo stare fuori a pranzo.” Suggerì, gli occhi che non riuscivano a scollarsi dalla bocca del ragazzo orientale.
“Si può fare, vasetto di miele.”
Alec spostò gli occhi su quelli di Magnus, accigliato: “Vasetto di miele è terribile.”
“Dovevo fare in modo che staccassi gli occhi dalla mia bocca, pasticcino, o non sarei riuscito a mantenere la promessa.” Spiegò piccato, “E poi non è vero. Tu sei dolce, il miele è dolce. È perfetto!”
“Nient’affatto!”
“Sei un guastafeste!”
Alec sbuffò dal naso: “Muoviti, andiamo. O arriveremo tardi!”
“Come vuoi, paparino.”
Magnus pronunciò quella parola con la voce arrochita, un suono simile alle fusa di un gatto, gli occhi felini e lo sguardo scaltro, poi, non facevano altro che aumentare quella sensazione in Alec, che nel frattempo era arrossito così intensamente da aver scoperto una nuova tonalità di viola.
“Magari comincerò a chiamarti così!”
“NO!” esclamò Alec, il viso bollente.
Magnus esplose in una risata a cui Alec rispose con un’occhiataccia e, insieme, si incamminarono verso l’entrata della scuola.

*

In uno spazio vicino agli spalti deserti del campo da football, l’aria frizzante di ottobre accarezzava i loro visi. Alec osservava Magnus che teneva gli occhi chiusi e si godeva la sensazione del sole sulla pelle. Era simile al caramello liquido, la pelle di Magnus, liscia e priva di imperfezioni, fossero esse un neo o un punto nero. Gli sembrava di guardare la tela perfetta di un quadro bellissimo, senza tempo, destinato a non mutare mai. Chissà se Magnus sarebbe mai stato vittima del tempo o avrebbe avuto l’aspetto di un diciottenne anche a quarant’anni. L’assurdità di quel pensiero lo fece sorridere, reputandosi uno sciocco: certo che Magnus sarebbe invecchiato, anche se sicuramente l’avrebbe fatto  più che bene. I suoi capelli, di certo, non sarebbero caduti. Alec aveva la forte convinzione che Magnus si impegnasse a fondo per prendersi cura di loro. I suoi sospetti erano accentuati dal fatto che lui li avesse toccati, quei capelli, ed era umanamente impossibile che fossero così morbidi di natura, sicuramente dovevano essere il frutto di qualche trattamento speciale.
“Sei silenzioso, orsacchiotto.” Magnus teneva ancora gli occhi chiusi, la testa lasciata cadere un poco all’indietro (Alec provò a non indugiare troppo sulla gola oscenamente esposta di Magnus, relegando in un angolo remoto del suo cervello la voglia di lasciarci un morso leggero), mentre le mani erano appoggiate alle ginocchia delle gambe incrociate all’indiana. Sembrava stesse meditando. La tunica viola che indossava, poi, portata sopra a degli strettissimi pantaloni dello stesso colore, non faceva altro che aumentare quell’impressione. Alec si concesse una lunga e attenta occhiata al profondo scollo a V dell’indumento, che faceva intravedere, oltre ad almeno quattro collane di diversa lunghezza, anche le clavicole di Magnus, prima di parlare.
“Sono impegnato.”
“A fare cosa, sfogliatina?”
“A guardarti.”
Magnus aprì solo un occhio, assumendo quell’espressione che ad Alec ricordò un gatto acciambellato la cui attenzione viene attirata da un rumore particolarmente interessante.
“E ti piace ciò che vedi?”
“Hai davvero bisogno di una risposta?”
“Beh, sì.”
Alec rise e si sporse verso Magnus quel tanto necessario affinché la propria bocca sfiorasse la sua guancia. “Mi piace tantissimo,” gli sussurrò, lasciando una serie di piccoli baci prima sulla guancia e poi lungo tutto la linea della mascella. Trovando, a questo punto, impossibile combattere quella voglia che poco prima aveva represso, scese con un movimento lento, controllato e abbastanza sicuro (cosa di cui si stupì fortemente) fino a che non raggiunse il collo del ragazzo, mordicchiando, tra un bacio e l’altro, lembi di pelle. Magnus fu coperto ovunque da un’ondata di piacevoli brividi e, guidato dall’istinto, immerse una mano tra i capelli di Alec, mentre appoggiava l’altra sotto al suo mento, guidandolo ad alzare il viso. Alec lo guardava con gli occhi languidi, le iridi che saettavano andando a cercare quelle di Magnus, che erano ben felici di ricambiare quello sguardo abbagliante.
“Ti devo un bacio,” soffiò Magnus, stupendosi di come la sua voce uscì strozzata dall’emozione. Alec deglutì ed annuì, lentamente, avvicinandosi ancora di più. Le loro labbra che si sfioravano appena. Magnus capì che Alec voleva essere baciato, così azzerò la distanza tra loro, facendo scontrare le loro bocche in quel bacio che entrambi avevano agognato da quando quella mattina si erano visti alla fermata dell’autobus.
“Credo tu abbia abbondantemente pagato il tuo debito.”
Magnus rise, “Direi di sì.”
Alec ricambiò con un sorriso, facendo ricomparire quelle fossette sulle guance che, Magnus lo aveva appena deciso, erano diventate una delle sue caratteristiche preferite di Alec. Lo rendevano adorabile in una maniera che sfiorava l’impossibile.
“Ho una proposta da farti,” disse di getto il maggiore.
“Ti ascolto.”
“Mi hanno dato un compito, per il corso di fotografia. Vuoi accompagnarmi a fare queste foto?”
“Certo! Mi incuriosisce l’idea di vederti nel tuo campo.”
“Il mio campo… non è proprio il mio campo, Alexander. Sto imparando.”
“Dubitare di te stesso non ti si addice, Magnus. Sai benissimo di essere bravo. Vuoi solo sentirtelo dire.”
“Hai ragione, non posso negarlo.” Magnus fece svolazzare una mano anellata, facendo tintinnare i braccialetti al polso e ridere Alec.
“Quando devi cominciare?”
“Abbiamo una settimana di tempo. Mi piacerebbe cominciare subito, per avere più varianti, più soggetti…”
“D’accordo. Possiamo fare domani pomeriggio.”
“Va bene, zuccherino.”
Alec scosse la testa e gli lasciò un bacio a stampo che Magnus fu ben felice di ricevere.

*

La giornata di Alec, tutto sommato, era stata piacevole. Dopo l’iniziale ansia provata la mattina, aver chiarito le cose con Magnus aveva fatto si che fosse in grado di godersi il resto del giorno. Dopo pranzo, erano tornati ognuno nella sua classe e si erano visti dopo le lezioni per studiare. Avevano optato per la biblioteca, in modo da riuscire a concentrarsi meglio senza essere troppo distratti l’uno dall’altro, ma Magnus, a quanto pareva adorava distrarlo.
Alec riusciva ancora a sentire la sensazione calda della mano di Magnus che, nascosta sotto al banco, si posava sulla sua coscia.
‘Magnus,’ Alec aveva sussurrato, imponendosi di tenere gli occhi fissi sulla pagina di storia che stava studiando. Aveva letto l’attacco di Sarajevo almeno cinque volte prima di capire che se Magnus avesse continuato a tenere lì la sua mano, la Prima Guerra Mondiale non l’avrebbe mai imparata.
‘Che c’è, trottolino?’
‘La mano…’
‘Che ha che non va, la mia mano?’
‘Mi distrae.’
‘Ma davvero?’

Magnus, appurò Alec in quell’istante, era profondamente malvagio. Infatti, quella specie di mezzo demone che stava al suo fianco e si divertiva a torturarlo, aveva cominciato a muovere lentamente il palmo aperto per tutta la lunghezza della sua coscia, facendo rabbrividire Alec, che aveva smesso di respirare. Si passò la lingua sulle labbra, perché improvvisamente in quella biblioteca sembrava avesse preso residenza il fuoco infernale, tanto che faceva caldo, e lui sentiva la bocca secca. Gesto che fu praticamente e profondamente inutile: la sete che sentiva non sarebbe certo stata placata dall’acqua e il calore che gli faceva ribollire il sangue nelle vene non era certo dovuto alla temperatura della stanza. Tutto ciò che lo scombussolava era Magnus.
Magnus e quella sua mano dalle dita lunghe, affusolate e anellate. Deglutì, al pensiero di un possibile contrasto di temperatura tra il calore della pelle del ragazzo e il freddo del metallo degli anelli contro la propria pelle, e rabbrividì di nuovo.
Poi Magnus decise di avere pietà di lui e smise di accarezzarlo in quel modo.
‘Se non togli la mano, siamo punto e accapo, Magnus.’
‘Non posso toccarti, quindi?’
‘Non se vuoi che impari qualcosa.’
‘Posso insegnarti tutto quello che vuoi, passerottino.’
La voce roca di Magnus lo portò ad alzare gli occhi su di lui, a cercare quello sguardo che bramava su di se più di quanto si sarebbe mai immaginato. Era uno sguardo, quello, che lo faceva sentire desiderato e desiderabile, qualcosa che non aveva mai provato in vita sua. Qualcosa che solo Magnus era in grado di fargli provare.
‘Intendevo imparare qualcosa attinente al programma scolastico,’  Gli tremò la voce, risultando poco convincibile anche alle proprie orecchie. Magnus gli rivolse un sorriso malandrino e tolse la mano.
‘Pignolo!’
‘Tentatore…’
 sorrise Alec, alzando solo un angolo della bocca e incatenando gli occhi a quelli di Magnus per qualche istante prima di riabbassargli sul suo libro di storia. Magnus, vicino a lui, gli pizzicò un fianco e tornò a studiare chimica.
“Alec, tuo padre ti ha fatto una domanda!” la voce di sua madre lo riportò alla realtà. Era seduto a cena con la sua famiglia e la sua mente aveva vagato fino a ripercorrere i momenti con Magnus. Quindi portò la sua attenzione sul padre, che lo guardava con i suoi scuri occhi indagatori. Alec si chiese da dove provenisse il colore dei propri occhi, considerando che entrambi i suoi genitori li avevano neri. Isabelle li aveva ereditati sicuramente da Maryse, dal momento che avevano la stessa forma, oltre che lo stesso colore.
“Scusa, papà. Puoi ripetere?”
Robert, la postura rigida e le spalle costantemente tese, sbuffò. Stava a capotavola, Maryse stava alla sua destra, a sinistra della madre c’era Max e Alec stava vicino al fratellino, dall’altro capo del tavolo proprio di fronte a Robert. Izzy vicino a lui e Jace tra la sorella e il padre.
“Volevo sapere il motivo per cui ti sei allontanato, ieri mattina.” Congiunse le mani tra di loro, appoggiandole in grembo. “I tuoi fratelli erano con noi, perché tu non sei rimasto?”
Alec sostenne lo sguardo indagatore del padre. Non voleva dimostrarsi intimorito da quella specie di squallida indagine – perché era di questo che si trattava, dal momento che Robert Lightwood non faceva mai domande solo per parlare, ma per carpire informazioni. A quanto pare, l’insolito comportamento del maggiore dei suoi figli, di norma così ubbidiente e mansueto da non allontanarsi dal nucleo familiare per cercare di mantenere il più possibile quell’apparenza di famiglia devota e perfetta, l’aveva fatto insospettire.
“Ho ricevuto un messaggio e ho trovato più educato allontanarmi, piuttosto che rimanere dov’ero e dare l’impressione di non essere interessato alla conversazione, o alle persone coinvolte in quella conversazione.”
Alec si batté mentalmente il cinque da solo: era stato calmo, aveva spiegato le sue motivazioni con tranquillità senza balbettare o mostrarsi in qualche modo intimorito dal padre. Era soddisfatto di se stesso.
Robert lo studiò per qualche istante, gli occhi impercettibilmente socchiusi, prima di afferrare di nuovo la forchetta che aveva lasciato a lato del piatto e infilzare una patata al forno, che portò alla bocca. Masticò lentamente, prima di parlare di nuovo.
Anche quello, pensò Alec, era un test: sapeva che lo stava facendo per notare la sua reazione davanti al silenzio. Ma Alec aveva detto la verità – più o meno – quindi non aveva niente di cui preoccuparsi troppo.
“Peccato. Lydia ha chiesto di te. È una ragazza così carina, dovresti invitarla ad uscire.”
Alec per poco non si strozzò con la sua saliva. Ecco dove voleva andare a parare. Si impose di mantenere la calma, di non esplodere di fronte ad una richiesta tanto insolente quanto inopportuna.
“Io e Lydia siamo solo amici,” rispose educato.
“Da un’amicizia possono nascere tante cose, figliolo.”
“Non con Lydia, papà.”
“Perché?”
Perché mi piacciono i maschi.
“Perché non mi piace in quel senso.” E forse era per il fatto che temesse che suo padre leggesse troppo tra le righe, arrivando, contro ogni logica, a leggergli nella mente e capire l’assoluta verità, ma si affrettò ad aggiungere, “È più una sorella,” mentendo spudoratamente. Lui e Lydia si passavano gli appunti, ogni tanto studiavano insieme e facevano coppia a biologia, quando dovevano fare esperimenti su poveri animali da vivisezionare. Si vedevano la domenica in chiesa perché i Branwell, proprio come i Lightwood, erano una famiglia di spicco, ma si riduceva tutto a questo. Un rapporto scolastico, ecco quello che li legava. Non si poteva nemmeno definire una vera amicizia, la loro. Ma questo non era necessario che suo padre lo sapesse.
“Capisco. Un vero peccato, è davvero carina.”
“Abbiamo capito che è carina, papà! Non serve ripeterlo all’infinito!” intervenne Isabelle, guadagnandosi un’occhiataccia dalla madre.
“Non è necessario reagire così, Isabelle.”
“Nemmeno organizzare un matrimonio mi sembra necessario.”
“Sei sempre così melodrammatica! Tuo padre e tuo fratello stavano semplicemente conversando.”
Le due donne si guardarono per un attimo che ad Alec parve interminabile. Gli sembrò che Isabelle stesse per rispondere con un commento pungente, ma invece, si scusò. Non abbassò gli occhi e in quel gesto Alec ci lesse la ribellione tipica di Isabelle, il fatto che, seppur avesse deciso di scusarsi, uccidendo sul nascere una possibile discussione con la madre, non si stava facendo mettere in soggezione dallo sguardo severo della donna.
Ciò fece calare un silenzio tombale, interrotto solo dalle posate che si scontravano con i piatti.
“Oggi a scuola abbiamo fatto un tema!” esordì Max, rompendo il silenzio, e guadagnandosi tutta la gratitudine di Alec, oltre che il suo interesse.
“Ah, sì?” gli domandò e Max si sistemò meglio sula sedia, voltando il busto di tre quarti per riuscire a parlare meglio con il maggiore dei suoi fratelli.
“Sì: cosa vorresti fare da grande!”
“E tu cos’hai scritto?”
“Che voglio fare l’astronauta!”
Alec si aprì in un sorriso: non lo stupiva il fatto che suo fratello provasse desideri simili, era un bambino estremamente curioso e lo spazio, per lui, altro non era che altro territorio da poter esplorare.
“È un’idea bellissima, Max.”
“Non riempire la testa di tuo fratello con sciocchezze, Alec.” lo ammonì Robert, senza nemmeno alzare lo sguardo dal suo piatto. Alec fu rammaricato da questa cosa perché una parte di lui avrebbe davvero voluto che suo padre vedesse l’occhiata di fuoco che gli stava riservando. Sguardo che non sfuggì a sua madre, che però non commentò. Quando si trattava di Max, Maryse diventava più morbida, forse perché avevano rischiato di perderlo, tre anni prima.
L’espressione affranta sul viso di Max, però, gli diede il coraggio sufficiente di fare in modo che la sua occhiataccia si tramutasse in parole.
“Solo perché non le approvi non vuol dire che siano sciocchezze.”
Gli occhi di Robert schizzarono sul suo primogenito, “Temo di non aver capito.”
“Credo che tu abbia capito perfettamente, invece. Non vedo che male ci sia a fare l’astronauta.”
“È una fantasia infantile, Alec.”
“Non c’è niente di infantile nel provare il desiderio di andare nello spazio. Se l’avessero pensata tutti come te, nessun uomo sarebbe mai andato sulla Luna e noi non potremmo studiarla!”
Alec sentì chiaramente i denti del padre scontrarsi gli uni contro gli altri, un suono che assomigliava alla macabra danza di ossa che si scontrano tra di loro dentro ad una ciotola troppo grande. Osservò la mascella dell’uomo irrigidirsi, mentre nelle sue iridi passava una luce infuocata. L’aveva fatto arrabbiare.
“Quello che Alec vuole dire,” intervenne Maryse, una mano posata delicatamente su quella del marito, “È che non necessariamente potrebbe essere una fantasia infantile, quella di Max. Potrebbe avere gli stessi desideri, da grande.”
Robert si rilassò – cosa che non si poteva dire di Alec, che aveva l’impressione di essere seduto su un cactus – e spostò lo sguardo dal figlio alla moglie. Alec sapeva che la rabbia non gli era passata, che sarebbe stata latente in lui chissà per quanto, ma sapeva anche che l’unica in grado di gestire e ammansire Robert era proprio sua madre.
“Ma certo,” disse l’uomo a denti stretti, lasciando cadere in quel modo la questione.
Alec sostenne il suo sguardo ancora qualche istante, poi tornò a prestare attenzione a Max, che si lanciò nella descrizione dettagliata del suo tema.
Mentre ascoltava suo fratello, Alec si rese conto che quella era la prima volta che rischiava di discutere con il padre. E capì che forse stava cambiando più di quanto si sarebbe mai aspettato.

*

Alec fissava il buio della sera dalla finestra rotonda dello studio. Stava rannicchiato su di essa, le braccia che abbracciavano le gambe e il mento appoggiato alle ginocchia. Non sapeva quanto tempo fosse passato, esattamente, probabilmente qualche ora, da quando era salito lassù dopo cena.
Sapeva di essersi comportato come non aveva mai fatto, ma stranamente non si sentiva in colpa. O almeno, non ci si sentiva troppo. Una parte di lui era attanagliata dal rimorso per essersi rivolto a suo padre in quel modo, suggerendogli che gli aveva mancato di rispetto. E quale bravo figlio manca di rispetto ai propri genitori?
Ma si stupì nel costatare che dentro di se c’era qualcosa che andava a placare il rimorso, una vocina che gli sussurrava che aver tenuto testa al padre, difendendo Max e facendogli notare che la sua opinione non doveva necessariamente essere legge, era stata la cosa giusta da fare. Era una discussione, nulla di più. Nelle famiglie capita. Non significa necessariamente che venga a mancare il rispetto.
Il fatto era che Alec diventava terribilmente protettivo quando si trattava dei suoi fratelli, di Max in particolare, che era un bambino e non sapeva ancora difendersi da solo, e non sopportava l’idea di vedere sul suo faccino quell’espressione sofferente. C’era rimasto male e Alec non l’aveva sopportato.
Così aveva reagito ed era esploso come un fuoco d’artificio.
Sospirò, guardando la strada. Era buia, circondata dall’oscurità interrotta solo dalla luce dei lampioni.
“Alec…?” una voce lo fece sussultare, dal momento che non si era accorto che qualcuno stesse entrando in quella stanza. Si voltò, incrociando gli occhi scuri di Isabelle. Erano più neri della notte che fuori mangiava i dettagli di New York ed erano molto più belli. Perché, a differenza del nero della notte che inghiotte ogni cosa, trasformandola solo in un’accozzaglia di figure prive di dettagli, le iridi di Isabelle riuscivano a brillare, come se fossero state puntellate da una miriade di minuscoli diamanti. Contro ogni logica, perché si trattava di un ossimoro bello e buono, gli occhi di Isabelle erano pieni di un’oscurità luminosa.
“Ehi, non ti ho sentita arrivare.”
Izzy si avvicinò, i suoi piedi nudi non facevano il minimo rumore sul parquet della stanza, e si sistemò alla finestra insieme a lui. Lo guardò e Alec ricambiò quello sguardo, osservando i dettagli del viso pulito della sorella. Senza trucco sembrava ancora più giovane di quanto non fosse. Alec la trovava persino più bella, più naturale e meno artificiosa. La sua pelle liscia la faceva assomigliare ad una bambola di porcellana, sebbene non ne avesse la fragilità. Isabelle aveva un fuoco, dentro, che la temprava giorno dopo giorno. Una forza che non l’avrebbe mai abbandonata e che la rendeva una guerriera indomita.
“Non volevo disturbarti.”
“Non l’hai fatto.”
Isabelle gli sorrise, “Hai fatto bene, sai?”
Alec non aveva bisogno di chiederle a cosa si riferisse.
“Lo pensi sul serio?”
“Certo.”
“Non pensi abbia esagerato?”
“No. Lui esagera, come sempre. Mette le cose troppo sul piano razionale: è fermamente convinto che ogni cosa debba avere un’utilità concreta per essere ritenuta di valore.”
“Esatto. Non accetta che qualcuno possa uscire dalla razionalità, ogni tanto, e lasciarsi andare a delle fantasie.”
“Lo so. Altrimenti non sarebbe così rigido.”
Alec sospirò e Isabelle gli accarezzò un braccio: “Sei stato bravo,” gli disse, “Max si è sentito spalleggiato mentre dicevi quelle cose a papà. Gli si leggeva in faccia.”
“Non si merita di essere trattato così. Se vuole andare nello spazio, da grande, ci deve andare. Deve avere la libertà di essere chi vuole.”
“Anche tu, Alec.”
“Io sono abituato a nascondermi, Iz. Non voglio che capiti anche a Max, però. Non deve rinunciare ad una parte di sé solo perché nostro padre non approva.”
“Vedi, Alec, a lui non succederà perché ci sarai tu ad impedire che accada. Ti occupi di lui da quando era un bambino, cercherà sempre il tuo appoggio e io so che tu lo incoraggerai sempre a fare ciò che lo renderà felice.”
Alec sorrise e sciolse la presa intorno alle sue gambe per sporgersi verso Isabelle e inglobarla in un abbraccio.
“Come farei senza di te, Iz?” le baciò i capelli.
“Ce la faresti comunque, Alec. Sei più forte di quanto credi.” Lo abbracciò stretto, stretto, “Però mi piace l’idea che ti fa piacere avermi intorno!”
Alec rise, “Sei la mia sorellina, Iz. Ti vorrò sempre intorno!”
“Anche quando non vivremo più sotto lo stesso tetto?”
“Certo.”
“Era quello che volevo sentirmi dire!” esclamò soddisfatta, sciogliendo l’abbraccio. Si sistemò di nuovo sulla finestra, facendo incastrare le gambe tra quelle lunghe di Alec.
“Allora, dimmi,” cominciò, “cos’avete fatto oggi tu e Magnus?”
“Studiato.”
“Come studiano Jace e Clary o studiato davvero?”
Alec rise, tirando leggermente la testa all’indietro: “Studiato davvero. Siamo andati in biblioteca per evitare distrazioni.”
Distrazioni,” ripeté Isabelle maliziosa, svirgolando le sopracciglia perfette.
“Oh, Iz, piantala!”
“Mai! Adoro metterti in imbarazzo.”
Alec, siccome era il maggiore e vantava di una certa maturità, si esibì in una linguaccia perfetta a cui Isabelle rispose con una risata.
Era un suono bellissimo, pensò Alec. Un suono che aveva sempre associato alla sicurezza, alla stabilità. Isabelle era sempre stata il faro che illuminava l’oscurità di Alec, quella che viveva nel suo cuore e temeva di non saper cacciare. Isabelle l’allontanava un po’, quella tenebra, ma Alec stava imparando che se avesse voluto liberarsene totalmente, avrebbe dovuto diventare la propria luce, il proprio faro. Doveva imparare a diventare il punto fermo di se stesso. Solo in quel modo, sospettava, sarebbe stato in grado di tirare fuori tutta la forza che Izzy pensava che lui avesse.

*

Alec e Magnus avevano deciso, per la loro giornata destinata alla fotografia, di muoversi in metropolitana. Saltavano da un treno all’altro, muovendosi più o meno agilmente tra la folla e Magnus, quando vedeva scene interessanti, si piazzava dietro l’obiettivo e scattava.
Era bello vedergli fare qualcosa che amava tanto. L’energia che sprigionava mentre si lanciava in discussioni su come andavano regolate le ISO e l’apertura dell’obiettivo per rendere la foto più o meno luminosa aveva fatto si che anche Alec si appassionasse.
Era travolgente, Magnus. E Alec l’avrebbe ascoltato per ore.
“Le scene di vita quotidiana, ecco cosa mi piace fotografare.” Disse Magnus, mentre erano seduti dentro all’ennesimo treno.
“E come mai?”
Magnus armeggiò con la macchina fotografica qualche istante prima di voltarsi verso Alec, “Perché sono quelle che definiscono gli umani, umani. Voglio dire… è nella quotidianità che troviamo la natura degli esseri umani, che capiamo come reagiscono ai problemi che le giornate portano, piccoli o grandi che siano. Una madre che deve fare due lavori per mantenere il figlio a scuola, ad esempio. La sua tenacia la vedi durante la sua giornata tipo, non la vedi, quando, ad esempio, si prende una serata libera. Le eccezioni non mostrano mai l’intera essenza, ma solo la facciata.”
“Quindi di quella madre non vuoi vedere solo l’aspetto rilassato che appare mentre si prende una serata per sé dopo tanti sacrifici, ma vuoi immortalare quei sacrifici?”
“Esatto, perché sono anche quelli, soprattutto quelli, che l’hanno formata, che probabilmente l’hanno temprata.”
“Vuoi fotografare la verità in un mondo di apparenze, Magnus. Sei sicuro di non voler riuscire nell’impossibile?”
“Non smorzare la mia vena artistica, sfogliatina!”
“Io non voglio smorzare nulla, Magnus. La tua idea mi piace tantissimo.”
Magnus gli sorrise e gli lasciò un fugace bacio sulla guancia. “Grazie.” E forse fu il modo in cui Alec lo guardò languido, o il modo in cui le sue labbra si distesero in un sorriso che gli ricordava tanto un luogo dove potersi sentire al sicuro, o forse fu proprio l’insieme di entrambe le cose che portò Magnus a sollevare la macchinetta e scattare prima che Alec avesse il tempo di protestare. Voleva immortalare l’espressione sul viso di Alec per poterla guardare ancora, ancora, ancora e ancora, fino alla fine dei tempi. Voleva che quel ragazzo diventasse la sua quotidianità, quel porto sicuro in cui rifugiarsi e che fa sembrare il mondo meno astioso.
“A tradimento non vale, però.”
“Non è a tradimento. Tu eri lì, tanto bello da far sembrare il tramonto una bazzecola da quattro soldi, e io ho dovuto fotografarti. Ho un obbligo morale, muffin, capisci?”
“Obbligo morale verso chi, esattamente?”
“Me stesso, ovviamente. Non mi sarei mai perdonato se avessi perso l’occasione di fotografare tanta bellezza.”
Alec rise, gli zigomi arrossati e gli occhi bassi. Era incapace di reggere i complimenti diretti e Magnus non capiva proprio il motivo della sua insicurezza. La bellezza di Alexander era palese, la sua prestanza fisica lo era ancora di più: l’altezza, il fisico sinuoso e slanciato, quell’aura misteriosa che lo circondava e lo rendeva irresistibile. E poi… poi c’era il suo cuore, tenuto sotto ad una teca di vetro: si poteva vedere, ma erano pochi quelli che riuscivano a decifrarlo e avevano accesso alle sue emozioni, ai suoi sentimenti. Magnus l’aveva capito fin da subito e si sentiva privilegiato ad essere una delle persone che era riuscita a poter entrare dentro a quella teca. Certo, non c’era dentro come potevano esserlo Isabelle o Jace, ma sapeva che Alec, con il tempo, l’avrebbe fatto entrare completamente. E Magnus non vedeva l’ora di aver completo accesso a quella parte di Alec perché la bellezza del suo cuore rendeva quasi nulla la sua bellezza esteriore.
Scattò un’altra foto, come promemoria di quel filo di pensieri e Alec alzò immediatamente lo sguardo su di lui.
“Smettila!”
“Perché?”
“Perché ci sono tante cose da fotografare e non devi sprecare memoria per me.”
“Non è memoria sprecata, muffin. Fotografarti è il miglior uso che posso fare dei giga presenti nella schedina.”
“Stai esagerando, adesso.”
“Nient’affatto, girasole.” Disse Magnus risoluto, “Potrei dedicarti un intero album!”
Alec sorrise, timido, e poi dopo essere rimasto in silenzio qualche istante si decise a vincere la sua insicurezza e chiedere, impacciato, “Fanne una insieme a me.”
Magnus lo guardò, ma Alec non ricambiò lo sguardo. Si stava torturando le mani, nascondendole dentro alle maniche lunghe del maglione blu scuro che indossava. Tendeva a farlo quando era a disagio, cercava di nascondersi per coprirsi agli occhi del mondo. Ma Magnus non accettava che si coprisse ai propri occhi, così gli afferrò le mani e gliele tirò fuori dalle maniche, che gli arrotolò fino a gomiti. I suoi occhi indugiarono sui muscoli degli avambracci e sul reticolo di vene in rilievo che adornavano la pelle di Alec. Era un dettaglio che aveva sempre trovato di proprio gradimento e fu ben felice di notare quella caratteristica in Alec.
“Ne farei anche cento con te,” disse, facendo intrecciare le loro dita. “Anche duecento. Comprerei tutte le schedine memoria di questo pianeta e le riempirei di foto nostre.”
Nostre.
Magnus sentì il cuore scalpitare mentre quella parola risuonava nelle proprie orecchie. Era una parola così intima, che richiamava un certo grado di confidenza, di condivisione. E gli piaceva associarla ad Alec.
Il minore sorrise, incatenando gli occhi a quelli di Magnus e stringendo la presa tra le loro dita, “Cominciamo con una?”
Magnus rise, “Certo, fragolina!” e siccome non era un tipo convenzionale e fare selfie con il cellulare come tutte le persone era una cosa decisamente troppo normale, girò la macchina fotografica e scattò dall’alto una foto di loro due. La loro prima foto insieme li ritraeva vicini, Magnus stava dando un bacio sulla guancia ad Alec, mentre quest’ultimo sorrideva, anche se non guardava l’obiettivo. Si vedevano anche le loro mani intrecciate, le loro pelli che creavano contrasto e si univano in un modo perfetto.
Magnus adorava quella foto.
“È bella,” gli disse Alec, sbirciando il display.
“Te la mando, se vuoi.”
“Certo che voglio, perché non dovrei?” Alec appoggiò la testa sulla spalla di Magnus, gli occhi fissi sul display: per quale motivo non avrebbe dovuto volere quella preziosità?
Gli piaceva vedere come risultavano insieme, apparentemente così diversi, ma in realtà così simili.
“Non lo so, in effetti. È una foto così bella che fosse per me l’appenderei ovunque.”
Alec rise: “Sai, la tua modestia è una delle cose che mi piace più di te.”
“La modestia è sopravvalutata, muffin.” Sentenziò Magnus, dandosi un tono saggio, “Quindi sentiti pure libero di elencare le varie cose che ti piacciono di me quando vuoi.”
“Cosa ti fa pensare che ce ne siano necessariamente tante?” lo stuzzicò.
“Non saresti qui, croissant, se non mi trovassi di tuo gradimento sotto molti aspetti.”
Alec si aggiustò meglio sulla sua spalla e tracciò linee invisibili sul palmo di Magnus con il pollice, “Hai ragione.” Dichiarò, “Il fatto è che mi fido di te. Ed è una cosa estremamente rara, per me. Io sono diffidente di natura. Ma con te è stato diverso…”
“Davvero?” chiese Magnus, sinceramente colpito da quella confessione.
Alec annuì contro la sua spalla: “Mi fido solo di tre persone: Izzy, Jace e Max, il più piccolo dei miei fratelli,” specificò, realizzando che Magnus aveva conosciuto solo Iz e Jace, “Poi sei arrivato tu e mi è venuto naturale fidarmi di te. Lo so che è un controsenso perché ci conosciamo da poco, ma… non lo so, sento qualcosa dentro che mi spinge a farlo.”
Magnus appoggiò una guancia alla testa di Alec, “Anche io mi fido di te, muffin,” gli baciò i capelli. “Mi hai stregato, Alexander Lightwood. Hai idea di quante persone l’abbiano fatto?”
“Rivangare la moltitudine dei tuoi ex in un momento simile non mi pare il cas-”
“Zero, Alexander.” lo interruppe Magnus, “Nessuno, tra la moltitudine dei miei ex, mi ha fatto l’effetto che mi fai tu.”
“Oh…”
“Già, oh…
Alec alzò la testa, cercando gli occhi di Magnus. Quando il maggiore ricambiò lo sguardo, Alec rimase a fissarlo un attimo, prima di avvicinarsi di più per baciarlo.
E Magnus, in quel momento, scattò la prima foto che ritraeva un loro bacio. Una foto, ne era sicuro, che avrebbe custodito gelosamente.




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Ciao a tutti e ben ritrovati! :D 
Allooora, come vi è sembrato questo capitolo? Devo essere sincera, ero un po' titubante sulla parte di Robert, questo perché, devo ammetterlo, a parte essermi fatta un'idea vaga del suo carattere per ora non è un personaggio che è stato approfondito più di tanto, ne nella serie ne nei libri, almeno fino a dove sono arrivata a leggere. So qualcosina da ciò che ho trovato leggendo su internet prima di cominciare a leggere i libri, quindi in base a quelle informazioni e a quel poco che si è visto nella serie ho immaginato il suo personaggio. Spero di non averlo troppo fatto uscire dal suo carattere originale, nel caso qualcuno lo conosca meglio e vuole chiarire qualcosa, io sono dispostissima ad ascoltare e ad apprendere per apportare eventuali modifiche lungo il corso della storia! 
Vorrei ringraziare chiunque legga, o abbia messo nei preferiti/seguiti la storia perché davvero non mi aspettavo la leggeste in tanti! *lacrimuccia* *li abbraccia tutti*
Ringrazio anche chiunque trovi il tempo per recensire perché leggere i vostri commenti mi fa tanto piacere, siete dei tesori! 
Alla prossima! <3 
   
 
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