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Autore: Avareil    19/10/2017    3 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Quando la verità fa male

Erano oramai ore che Estia stava mollemente adagiata sul triclinio rivestito di morbida lana, cullata dal sentir sulla pelle lo sfrigolare del fuoco a pochi passi da lei, scoppiettante dentro un immenso braciere.
Gli occhi chiusi, i capelli sparsi sul cuscino, un braccio sul viso a mo’ di schermo per la luce calda: sembrava riposare placidamente, sprofondata in un sonno ristoratore ma, invece, in alcun modo riusciva a placare l’animo turbato da pensieri tetri.
Avrebbe voluto sentirsi  in pace con sé stessa: del resto era riuscita a muovere a compassione la sorella Era e a guadagnare per la giovane Persefone un dono di nozze santo ma, qualcosa dentro di lei, nella profondità del suo essere, era inquieta.
 
Oramai da giorni  non riusciva a rintracciare Demetra in alcun luogo.
Il suo richiamo si era perso in lande deserte, infranto contro scogliere rocciose, aveva persino raggiunto i confini della terra ma tutto era stato vano; non l’aveva trovata da nessuna parte. Sembrava come cacciare una preda abile nel nascondersi: ogni volta che le si avvicinava grazie a una qualche traccia, quella spariva in chissà quale luogo, facendo perdere ogni segno del suo passo.
Eppure lei avrebbe solo voluto consolarla, abbracciarla, dissuaderla dal compiere gesti folli prima che la sconsideratezza e il dolore, prevalendo sul buon senso, causassero ancora più danno e distruzione di quanto non si fosse già compiuto; ai confini della terra, infatti,  tutti gli esseri di superficie iniziavano a intravedere le conseguenze di quella sofferenza: nessun germoglio aveva più la forza di crescere, nessuna radice recava più alcun nutrimento e questo, nel giro di poco tempo, sarebbe stato il motivo dell’estinzione dell’intera razza umana.
Sarebbero bastati solo pochi mesi e quelle distese floride di campi e prati verdi si sarebbero tramutate nel fantasma di loro stessi: erbe marce, campi appassiti.
 
Ancora più angosciata si era alzata dalla morbida seduta per recarsi con passo tintinnante verso l’altare della sua sacra dimora: un tempio piccolo il suo, accogliente e profumato, eppure completamente vuoto. Non una ninfa le faceva da corteo, non un essere si aggirava per quelle stanze profumate di zagara e cenere; era sola e sebbene questo fosse il frutto di un suo desiderio espresso in giovane età al fratello Zeus, ora, invece, ne sentiva tutto il peso sulle spalle.
 
A volte invidiava Demetra.
 
A volte invidiava Era.
 
E quelle, anche  nel loro immenso dolore, non avrebbero mai sostituito la loro sorte con la sua, non avrebbero mai scambiato la maternità con una solitaria vita fatta di fiamme e silenzio e, il paradosso di tutto questo stava nel suo dono: santificare la casa, il ritrovo familiare, ospitare e riscaldare gli amati membri della famiglia - lei che di famiglia non ne avrebbe mai potuta avere una.
 
Un sorriso amaro le aveva incurvato le labbra mentre, pensierosa, si era ritrovata a passeggiare intorno al grande braciere dalla forma circolare. Con la mente trasportata altrove aveva immaginato di tenere un bimbo tra le braccia e con questo di girare intorno al fuoco cinque volte prima di proclamarlo “figlio”.  Aveva riso amaramente: ne aveva visti a bizzeffe di riti di quel tipo, riti in suo onore, e ogni volta un leggero fremito la portava a distogliere lo sguardo sognante.
 
Chissà cosa voleva dire amare qualcuno più di sé stessi, essere un’amante, una moglie… Una madre.
 
Lei non avrebbe mai compiuto quel rito per sé stessa e quelle dannate cavigliere d’oro sonante ne erano il costante memorandum.
 
Ritornata alla triste realtà si era poi allontanata dal fuoco, l’attenzione ora captata da due oggettini abbandonati sull’altare: le monete dell’ Erebo giacevano disordinatamente come se qualcuno le avesse gettate lì con mal grazia.
Indispettita con sé stessa - non era mai stata amante del disordine-  aveva allungato una mano per prenderle.
Non sapeva quando e se avrebbe nuovamente avuto occasione di recarsi in quei luoghi oscuri, solo si  limitava a sperare con tutto  il cuore che la nipote potesse essere abbastanza forte da sopportare quel legame così bizzarro eppure così logico secondo la natura oscura dell’Erebo; si augurava con tutta sé stessa che i due fratelli, mossi entrambi da logiche pretese, potessero infine giungere a un compromesso e, in quel senso, il melograno di Era sembrava l’unica soluzione possibile.
Vincolare Persefone all’Averno di modo che Demetra non la potesse più sottrarre al fratello, questo era il bisogno;  Ade poi, nella sua grandezza, non avrebbe mai impedito alla sua signora di recarsi in visita alla madre.
 
Fortunatamente aveva discusso con la regina, fortunatamente aveva ottenuto il dono e, fortunatamente non l’aveva smarrito lungo il  cammino, o meglio, fortunatamente qualcuno l’aveva ritrovato prima che fosse troppo tardi.

Il solo ripensare a quel soggetto le aveva messo i brividi, e non brividi di paura o ammirazione quanto piuttosto di disprezzo: come osava quel giudice trattarla con superiorità e arroganza? 
Una bambina, così l’aveva trattata, da bambina capricciosa e sciocca.
 
Dannate sembianze androgine! Non potevo essere più alta come Era? O formosa come Demetra?
 
Ma che stava dicendo?
 
Perché desiderare sembianze diverse per compiacere qualcuno?
 

Voleva compiacerlo?
 
In una baraonda di pensieri assurdi Estia aveva sgranato gli occhi tenendo ben stretta nella mano destra la moneta raffigurante la kunée.
 
Quello era un giudice, trapassato da tempo inoltre e con ancora la morte dipinta sul volto pallido e freddo, i capelli poi, grigi e lunghi ne incupivano ancora di più le sembianze; non era bello come un dio, affatto!
 

Estia, non fare la stupida, non hai mai visto un uomo morto riesumato a nuova vita per volere degli dei?
 
Radamanto era stato scelto da Ade in persona che lo aveva premiato per la sua fierezza e correttezza, e quando quello era stato ucciso proprio per colpa di quella sua estrema correttezza e serietà, Ade non aveva potuto far altro che accoglierlo nel suo regno e onorarlo con la carica di primo giudice di fianco a Minosse e Eaco.
Tutti conoscevano quella storia eppure sempre tutti ignoravano l’umanità seppellita in quel regno di morte, preferendo distaccarsene con la scusa di fantomatiche mostruosità ivi compiute.
 
Ma poco era vero di quanto si diceva.
 
Caronte ad esempio non era il terribile nocchiero narrato nelle storie: ella ricordava chiaramente la pena in quegli occhi vecchi e sanguigni quando al suo cospetto non uomini malvagi ma bambini si erano mostrati; che poi avesse un brutto carattere era un altro paio di maniche.
 
Aveva sorriso al ricordo di come era stata trattata da quel vecchiaccio, eppure quell’aria le mancava. Non la puzza o i lamenti ma quello che vi era dopo: l’aria serena delle anime giudicate mandate a scontare il resto della loro vita in qualche luogo dell’Ade perché mai, dopo il giudizio avernale, aveva sentito urla o lamenti.
 
Magari per questo motivo Ade aveva scelto proprio quell’ uomo per giudicare in sua assenza: all’incirca di trenta anni umani, mascherati da un aspetto logoro fatto di capelli grigi e rughe marcate in una costante espressione di serietà, si ben prestava ai principi di giustizia avernali, severi e insovvertibili.
 
Ma perché pensava a Radamanto?
 
 Perché ancora sentiva su di sé quello sguardo, a metà strada tra lo sconvolto e l’imbarazzato, indirizzatole quando si era ritrovato faccia a faccia con le sue gambe semi nude?
 
Magari potrei andare a controllare di persona. Potrei osservare cosa avviene presso la sala del trono, del resto Demetra da lungo tempo è assente, temo ripercussioni ben peggiori di quelle riferite.
 
Estia, ma che diavolo ti passa per la mente? Spiare un giudice?
 
Io voglio solo vedere cosa succede nell’Averno, per sicurezza.
 

Non andrò allora, mi limiterò a osservare, da lontano.
 
In una lotta interiore tra sé e la sua parte logica e razionale  aveva infine deciso di guardare tra le fiamme del suo braciere, con la moneta infernale ancora in mano sperava di riuscire a captare qualcosa al di là del caldo fuoco.

“Un fuoco sempre vivo si cela in quel tempio ed io, Estia, che non ho alcuna effigie, mi specchio in quelle  fiamme perché io sono il loro simbolo”.

Una preghiera pronunciata a mani giunge dinnanzi al suo braciere con la moneta sacra ancora tra le mani ed eccola proiettata tra le fiamme: i suoi occhi si erano persi in un caotico fiume di fiamme e lingue rosse e solo dopo molti secondi si era infine ritrovata in quei luoghi così vagheggiati dal cuore.
 In silenzio, badando bene a non palesare la propria presenza, aveva scrutato la cella avernale alla ricerca della propria preda.

Preda?

Fortunatamente essendo già fuoco non poteva avvampare per la vergogna.
 Per un momento aveva temuto di trovare il divino fratello a presenziare come suo solito gli incarichi della sua natura ma non Ade era chino su un seggio nero a stilare resoconti cavillosi.
Eccolo.
Estia aveva sorriso tra se: Radamanto sembrava indispettito come suo solito  ma a differenza della volta precedente, qualcosa in lui denunciava un certo malessere.
Incupita a sua volta ne aveva studiato i movimenti: le mani agili muovevano lo stilo sul foglio mentre l’altra reggeva la fronte; era assorto come chi non riesce a trovare una soluzione. In preda a un raptus di rabbia aveva scaraventato tutto il materiare utile allo scrivere per terra mentre, palesemente preoccupato, si era preso la testa tra le mani; a bassa voce sembrava udire una litania ripetitiva

“Non c’è posto, non c’è posto, non posso mandare quelle creature lì insieme a tutti gli altri, dannazione!”.

Aveva ripreso il foglio dal pavimento e, dopo averlo accartocciato con rabbia, l’aveva scagliato verso le fiamme vive e calde del braciere.
Estia, ben nascosta dietro le fiamme, aveva assistito a un rapido guizzar di sentimenti sul volto del giudice.
Ira, rammarico, angoscia, rabbia…Amarezza.

Perché sta così? Per chi non vi è posto nello sperduto Erebo?

Curiosa  era rimasta in attesa di altri bisbigli che però non erano giunti.
Il giudice, impassibile, era rimasto ad occhi chiusi presso le fiamme, una mano sollevata verso le lingue rosse alla ricerca di calore.

Che sta facendo quel pazzo? Si brucerà così.

In pena ella si era ritratta ma questo non aveva evitato che le fiamme lambissero la mano di Radamanto che, privo di qualsiasi reazione, era rimasto fermo.
Lui era già morto. Non poteva soffrire oltre, non col corpo almeno.
 
Quello che recava sofferenza al suo animo non era il calore del fuoco troppo vicino alla pelle diafana quanto il non riuscire a trovare una logica soluzione per quel problema venutosi a creare di recente.
 “Dannazione”, aveva imprecato nuovamente distogliendo lo sguardo dal fuoco.
“Dannazione al Fato, alle moire e a tutte le divinità di superficie!”.

Come osa?

Estia, furiosa  con lui e  con se stessa avrebbe desiderato ardentemente colpirlo con qualche lapillo di cenere e brace ma, costretta a stare ferma, aveva ascoltato in silenzio, mordendosi le labbra ogni qual volta che lo udiva imprecare.
“L’innocenza non dovrebbe esser collocata nello stesso luogo dell’ ignavia in vita. Se la distesa degli asfodeli è destinata a tutti coloro che hanno vissuto una vita senza oneri e senza onori e i campi elisi sono invece esclusiva dimora degli eroi, io dove ospito l’innocente?”

Innocenti? Al mondo non esistono innocenti.

Un sorriso sarcastico sul volto di Estia.
Un sorriso spento sul volto di Estia.
Occhi sgranati sul viso evanescente della dea.

Che si riferisse a dei bambini?

Ma i bambini erano sempre morti, perché solo ora crearsi quel problema?

La risposta era giunga quasi improvvisa dal giudice assorto nei suoi calcoli.

“Dannata Demetra e la sua follia”.
 
 
Allora e solo allora aveva compreso quanto grave fosse la situazione se anche un giudice come Radamanto aveva difficoltà nel gestire un caos del genere.
I morti erano troppi, non per l’Averno sperduto, ma per il giusto ciclo vitale dell’esistenza; troppi bambini varcavano le soglie del non ritorno e questi, nella loro innocenza, non potevano trovare riparo negli stessi luoghi degli altri esseri viventi, fatti di istinti e atti di coscienza sicuramente non casti come i loro.
Avrebbe dovuto cercare sua sorella.
Ade avrebbe dovuto.


“Lo so che siete lì, Estia”.
Scioccata aveva sgranato gli occhi mentre quel giudice, a braccia conserte stava dinnanzi all’immenso braciere del tempio avernale.
“E’ inutile che vi nascondete tra le fiamme, vi sento distintamente adesso. Sento l’odore della vostra preoccupazione: sa di miele bruciato”.
 
 
--- 
 
 
 
Ancora un minuto.
Almeno pochi secondi.
Inebriata da quel profumo così pungente e riscaldata da quell’abbraccio, Persefone avrebbe implorato quel dio dagli occhi grigi, se solo avesse pensato di riuscire a muoverlo a compassione, ma Ade, quell’essere assurdo e contraddittorio, l’aveva allontanata da sé in maniera perentoria con una leggera spinta impressa sulle spalle, sebbene il suo sguardo mal celasse una scintilla di bramosia mista a sofferenza.
“Mia signora”, aveva mormorato cercando di mettere una qualche distanza tra loro: il sovrano dell’Averno era palesemente in difficoltà per colpa di un istinto che mal si concordava con l’indole passionale da poco risvegliatasi in quel corpo freddo da secoli.
“Ade?”, la aveva risposto imbronciata, chiaramente interdetta per quella separazione imposta, anche se, quel particolare sentimento, era evaporato nel giro di pochi secondi quando qualcosa di assolutamente terribile le si era palesato alla vista.  Non più dea ma statua di sale quando Ade, voltandosi alla ricerca di un mantello con il quale ricoprire il corpo esposto ed eccitato, aveva messo in mostra una schiena possente ma completamente deturpata.
Un terribile spettacolo fatto di cicatrici profonde poste a corteo rispetto alla più grande  proprio al centro, poco più sotto rispetto alle scapole, mentre altri segni, forse tagli di minore entità, erano un po’ dappertutto.
Un singulto le si era bloccato in gola e quando il dio, dimentico delle proprie ferite, aveva lanciato uno sguardo veloce alla signora alle sue spalle per comprendere il motivo di quello strano rumore ma, come folgorato dai ricordi, si era affrettato a coprire quello scempio.
 “Chi ha osato lasciarvi quei segni?” aveva mormorato la dea con le mani strette sulla bocca per evitare che gemiti di dolore e paura trovassero l’uscita.
“Non è una bella storia”, Ade, quasi vergognoso, aveva stretto ancor di più il mantello sulle spalle e, rimanendo voltato, si era chiuso in un silenzio spettrale.
“Ade”, Persefone aveva mosso un passo verso quello ma vedendo che il dio nuovamente la ignorava, si era poggiata contro quella schiena logorata nascondendo il viso contro la  stoffa scura.
“Mio signore, vi prego, non tenetemi all’oscuro di nulla”. Lo aveva stretto contro di sé come avrebbe fatto una madre ma nulla, nessuna risposta.
“Come posso fidarmi se non conosco?”
“Non è una bella storia, mia dea e-“ bloccatosi a metà frase aveva sentito Persefone stringerlo con ancora più forza e, quasi incoraggiato, aveva continuato quella confessione,
“Ho paura di come voi possiate reagire quando udirete chi ha distrutto il mio corpo senza ragione alcuna”, un sorriso amaro aveva incurvato le labbra del dio; gli occhi erano stretti come a voler nascondere la baraonda di sentimenti che lo tormentavano.
Perché lui voleva raccontare. Voleva narrare la verità di quel giorno. Voleva spiegare che non per egoismo ma per amore aveva sacrificato la sua esistenza.
Voleva essere accettato.
Per la prima volta amato.
“Vi prometto…Vi prometto che ascolterò ogni parola prima di giudicare”, Persefone, con lentezza, aveva fatto pressione su quel corpo affinché potesse nuovamente ammirare il volto del dio, ma quello, ancora addolorato in viso, aveva tenuto gli occhi chiusi e il capo chino.
“Ve lo prometto” aveva continuato quella e solo a quel punto lui aveva aperto gli occhi e in un bisbiglio a pochi centimetri dalle labbra carnose di lei aveva risposto:
“Fate attenzione a ciò che promettete mia signora, in questo regno le promesse sono vincolanti”,  e sempre  lì, a pochi centimetri l’una dall’altro, la dea aveva risposto con la semplicità e la freschezza della sua età e di getto, socchiudendo gli occhi ammaliata da  quel modo sensuale seppur severo, aveva continuato:
“Allora vorrà dire che vi sono legata, mio signore. Udirò ogni parola, prometto”.
Questa volta era stata lei a colmare la distanza che li separava, un bacio leggero, un vincolo posto a suggellare il patto appena proferito.
Lui, in silenzio, con gli occhi leggermente socchiusi, aveva accettato quel voto apposto sulle sue labbra mentre le mani, fino a qualche istante prima lunghe sui fianchi, avevano afferrato i morbidi fianchi della dea per sentirne la vicinanza.
“Vorrei farvi vedere un posto mia signora, un posto che non ho mai mostrato ad alcun essere, umano o divino che fosse”, Ade aveva parlato con tono pacato, gli occhi tempestosi persi in quelli gialli di lei.
Persefone allora si era staccata dal sovrano e, guardandolo dall’alto in basso con un cipiglio a metà strada tra il serio e l’indispettito aveva continuato felice:
“Prima però fatemi la grazia di vestirvi e coprire ogni lembo di pelle. Non vorrei che qualche succube vi mangiasse con gli occhi”.
Ade aveva sorriso di cuore per quella freschezza, quella giocosità tipiche della giovane dea che, con un sorriso dolce era riuscita a fargli capire quanto in realtà le fosse pesata quella intrusione da parte della demone.
Quella gelosia infantile faceva bene al suo animo tormentato.
 
 
Persefone non aveva smesso per un secondo di mordicchiarsi le labbra, pensierosa e leggermente impaziente desiderava con tutto il cuore capire cosa vi fosse dietro quel corpo distrutto, dietro quella vita sacrificata all’invisibile e sempre quel cuore, più piccolo di una taglia perché stretto in una morsa di  preoccupazione e angoscia, soffriva lo stesso dolore del dio al suo fianco.
Vedendola angosciata e con il labbro inferiore stretto tra i denti, Ade non aveva esitato ad offrirle una via di fuga,
“Non siete costretta”, gli occhi ancora puntati dinnanzi a sé, verso l’orizzonte contro il quale si stagliavano le mura nere di confine.
“Cosa avete detto?”, ridestata da una sorta di sogno a occhi aperti, la dea lo aveva osservato dubbiosa.
 “Se avete paura non siete costretta a fare nulla”. Ade aveva nuovamente proferito quella frase con voce bassa e cavernosa.
“No. Sono pronta, abbiate fiducia in me”, la dea aveva stretto la sua mano cercando di infondere con quel  gesto un coraggio che forse anche a lei mancava.
Leggermente rincuorato aveva continuato in religioso silenzio la propria marcia verso l’esterno: non avrebbe varcato il grande portone, non avrebbe permesso che la sua ospite venisse turbata dalla vista di quella landa sperduta di anime trapassate; piuttosto avrebbero aggirato Cerbero percorrendo il sentiero dei sepolcri imbiancati , lo stesso che solo lui aveva avuto modo di percorre quel giorno.
Un corridoio stretto si apriva dinnanzi ai due, circondati a destra e a sinistra da immensi tronchi vuoti e dallo strano colorito lattiginoso. Persefone, alla loro vista, aveva leggermente ansimato per il timore trovando in essi delle mortifere somiglianze con delle mani adunche e artigliate rivolte al cielo ma, a quel punto era stato il dio a stringerne la mano e a farla più vicina a sé in modo che non avesse paura di quel regno malato.
“Non ci credo”.
 Un sospiro di sorpresa sfuggito dalle labbra della dea aveva fatto capire ad Ade quello che lei finalmente aveva intravisto.
“Io credevo che non vi fosse vita in questo regno, credevo che tutto fosse morto e spento e…”, uno sguardo triste sul volto di Ade aveva frenato la dea nel continuare: ella, dimentica di esser di fianco al sovrano di quei luoghi, non si era resa conto di star dando a lui del morto  e del vecchio.
“Mio signore, perdonatemi-”, mortificata quella lo aveva supplicato,
“ma non credevo che ci fosse quel genere di vita qui”, un sorriso mesto le si era disegnato sul volto, mesto proprio come le parole del sovrano giunte in risposta,
“Quello è l’unico germoglio che ha avuto mai l’ardire di resistere all’Erebo spregevole”.
 
Davanti a loro una piccola piantina verde, sana e robusta, spiccava sulla sponda antistante la conca in cui i quattro fiumi infernali si incontravano per un breve istante.
Stupita Persefone si era inginocchiata ai suoi piedi e con delicatezza ne aveva accarezzato le foglie.
“E’ così bella Ade”.
Commossa aveva guardato il dio in piedi dietro di lei e, in balia di sentimenti che nemmeno lei sapeva ben descrivere, aveva parlato con timore.

Timore di ferirlo,  proprio come poco prima.

“Com’è possibile, mio signore? Credevo che questo regno non potesse ospitare la vita, eppure questo esserino piccolo e verde è meraviglioso.” Un sorriso dolce sul volto di Persefone.
 
Quello, il dio nero, aveva fatto un cenno di sì col capo e, dopo averla affiancata, si era inginocchiato a sua volta;  i suoi occhi, vivi e grigi, posati esclusivamente su di lei.
“Quella che state accarezzando, dolce Persefone, è la mia vita o almeno così mi piace pensare. Quando ho promesso la mia vita allo Stige, Egli ha imposto un tributo: acqua e sangue e proprio qui, dove questa pianta cresce e vive, qui è dove li ho versati con dolore e sofferenza e sempre qui, mia dolce Persefone, è il luogo in cui sono stato richiamato quando ho vi ho vista per la prima volta”.
Sorrideva Ade, un sorriso tenue rivolto a lei che, con cuore stretto, non aveva smesso di carezzare la pianta.
“Perché vi siete promesso al fiume dei vincoli?-“ Persefone, triste, aveva continuato, nella voce una stilla di angoscia,
“Volevate sul serio avere più potere? Avevate in odio i vostri fratelli?”
“Mai, mai mia signora. Non per egoismo sono vincolato all’Averno, ma per amore e sacrificio”.
 
Aveva sgranato gli occhi la piccola dea nell’udire l’intero racconto.
 
Aveva pianto, quando  Ade, seduto di fianco a lei e con gli occhi rivolti verso le acque grigie come i suoi occhi, le aveva narrato con accuratezza ogni istante di quel tormento, riuscendo a farlo rivivere nell’animo  turbato della dea.
 
Sembrava perso come in balia di ricordi capaci di annullarne la luce vitale e soffriva ad ogni ingiustizia che si ritrovava a ricordare, perché in fondo era sempre così:
ogni qual volta si sforzava di ricordare quel giorno, nuovi dettagli truculenti gli ottenebravano la mente  indurendo il cuore, già fiaccato da quell’oscurità respirata da secoli e secoli.
 
Ma non era questo ad averla fatta piangere: non per  il colpo mortale di Crono subito al posto di Zeus, non per il vincolo nero imposto né per  il sacrificio eroico compiuto dal dio.
Quello che veramente l’aveva turbata era il modo spregevole in cui questo era stato trattato dai suoi stessi fratelli, il sangue del suo sangue.
Suo padre, sua madre, l’avevano rinnegato insieme a tutti gli altri.
Suo padre, suo padre non aveva osato a schierarsi contro il fratello quando questo aveva guadagnato la forza e l’invisibilità delle ombre, anche se queste erano state piegate alla causa della salvezza degli altri.
 
Suo padre.
 
Suo padre aveva pensato al potere, al trono, al cielo luminoso e, in nome di quello non aveva esitato a colpire in piena schiena il fratello.
 
Un po’ come aveva fatto con lei: non aveva esitato a cederla quando le tre moire avevano predetto rovina se così non fosse stato.
 
L’amarezza le mangiava il cuore facendole stringere le viscere in un ammasso contorto di nervi e organi.
“Come ha potuto…” Un mormorio aveva distolto Ade dal silenzio in cui si era perso.
 
“Chi?”
 
“Quel codardo, quel…Quel…”, Persefone non riusciva nemmeno a trovare i giusti termini per descrivere il padre.
 
Se così poteva chiamarlo.
 
“No, Persefone, non vi ho raccontato questa storia perché odiaste vostro padre.”
 
Oh Ade.
 
Soffriva, odiava, rimpiangeva, eppure diceva lei di non lasciarsi prendere dall’odio.
 
“State male, vero?”, a stento Persefone riusciva a parlare, scossa com’era dall’amarezza e dalla rabbia.
 
“Con voi al fianco sto meno male, ecco”, Ade, con occhi spenti, si era sforzato di sorridere, riuscendo solo a mostrare un’impercettibile incurvatura sulle labbra strette.
 
 
Non voglio che soffra.
 

No, non voglio più che soffra!
 
“Posso esserlo”.
“Cosa?”, Sempre con lo sguardo fisso dinnanzi a sé, il dio osservava distrattamente l’acqua stagnante.
“Posso esserlo. La luce, la vostra luce, posso esserlo Ade. Non voglio che la vostra sia un’esistenza fatta di solitudine, dolore e ira. Non siete più solo.”
 In un fiato Persefone aveva stretto la mano del dio poggiata al suolo.
 
Lui, rigido, era rimasto in silenzio.

Che aveva detto?
 
Con estrema lentezza, come se in quei secondi stesse cercando di tagliare in pezzi le parole della dea per analizzarle e poi assemblarle nuovamente, si era voltato verso quella, ora inginocchiata al suo fianco; l’aveva sentita parlare, il respiro leggermente spezzato in gola, le gote arrossate.
 
“Se il Fato così vuole, se voi…Se voi così starete meglio, io posso esserlo; posso stare qui con voi, al vostro fianco”.
 
“Non sapete cosa state dicendo”, Ade, serissimo, ora la scrutava in volto alla ricerca di un qualche dubbio, di una qualche titubanza ma trovando solo due occhi fieri e determinati aveva continuato esasperato:
 “Non è per il Fato che dovreste desiderarlo!”, scostando la mano da sotto quella di lei si era alzato di scatto, intento a mettere quanta più distanza tra loro.
“Non capite?!”, guardandola dall’alto la vedeva nella sua innocenza, piccola e fremente in quel corpo di dea pura e piena di vista e nuovi sensi di colpa terribili gli aggrovigliavano le viscere.
 
Posso mai permettere che ella si sacrifichi per me per dovere?
È giusto così Ade, meriti un po’ di felicità.
Ma se guadagno felicità sottrandola a chi… Amo, come posso essere felice?
 
 E poco contavano le parole delle tre moire: non avrebbe goduto di un’amara vendetta se questa vedeva come vittima sacrificale un’innocente.
 
 “Il vincolo allo Stige è sacro ed eterno. Se così deciderete sarete vincolata qua per sempre e né io né vostra madre potremo fare più niente a quel punto. Vi sarebbe preclusa la superficie per sempre”. Agitato aveva distolto lo sguardo dall’espressione delusa di quella.
 
“Voi avreste mai rinnegato il vostro giuramento?
 Sapendo che avete salvato delle vite, tornereste mai indietro per cambiare la vostra decisione?” Persefone, a quel punto, aveva piegato le ginocchia al  petto amareggiata.
 
“No, non lo farei mai”.
 
“Allora come potrei mai farlo io? Se so che in questo modo posso darvi serenità, perché mai dovrei venir meno alla mia parola?”
 
“Perché siete una ragazzina, non sapete cosa volete veramente, ancora. Adesso siete solo impietosita da questa dannata storia, non desiderate veramente ciò che dite di desiderare”.
 
In un soffio di rabbia aveva distrutto Persefone, che, coi pugni serrati, si era alzata in silenzio.
Capendo troppo tardi quello che la bocca aveva osato proferire, il dio aveva rivolto lo sguardo mesto alla dea.
“Persefone, io…”.
 
Un  rumore secco.
 
Nuovamente lo aveva schiaffeggiato, un colpo pieno di rabbia si era scagliato contro il volto corrucciato di Ade.
 
“Siete uno stupido”, col volto rigato di lacrime lo aveva scrutato con occhi fiammeggianti di rabbia.
“Come osate anche voi considerarmi come una bambina? Come osate sottovalutare i miei sentimenti? Credete che solo perché ora mi affaccio alla vita io sia così superficiale da farmi trascinare da sentimenti falsi? Avete dinnanzi a voi una dea, signore dell’Averno, una dea che porta un nome sacro che sta per mutamento e trasformazione. Io vedo oltre, dio dell’Erebo, io vi vedo per quello che siete”. Una mano stretta sul petto, una lungo i fianchi, entrambe chiuse in pugni così stretti da sentire le unghie ferire i palmi.
 
Ella parlava di sentimenti?
 
“Non per il Fato ma per voi, per sapervi felice, per sapere che state bene.” Si era nuovamente avvicinata a lui sebbene quello tenesse il volto reclinato verso il basso nel chiaro intendo di nascondersi allo sguardo severo della dea.
 
“Voi mi siete già caro e non posso, non voglio sapervi sofferente perché questo vostro dolore avvelena anche il mio corpo. Una volta mi diceste che “stare lontani avrebbe acuito il nostro male”, allora non facciamolo. Non allontanatemi di voi. Mia madre capirà che qualcosa ben oltre il Fato ci lega”.
 
O era solo lei a desiderarlo?
 
Fulminata da quella considerazione aveva mosso un passo indietro e, rossa in volto aveva subito esclamato.
“Ma se non è questo ciò che il vostro cuore brama, se non siete pronto-” aveva sorriso tristemente.
“Siate onesto con me, signore dell’Averno, come siete sempre stato e dite ciò  che veramente desiderate”.
 




 “Salirete in superficie, da vostra madre”, serio e con lo sguardo assorto Ade aveva infine elaborato un verdetto.
 
“Starete presso i suoi altari per due mesi. Se allo scoccare di questi sarete ancora convinta di questa vostra decisione allora vi accoglierò come mia regina.”
Finalmente la guardava in volto.
Un sorriso oscurato dalla stanchezza faceva capolino dietro il sottile velo di barba del dio.
“Perché due mesi?” aveva mormorato la dea, persa nell’osservare quell’espressione sofferente.
“Perché prima bisogna compiere un rito, mia signora”. Solo a quel punto, come dal  nulla, un frutto era comparso nella mano del dio, evocato in una nube nera.
“Un melograno?” aveva nuovamente domandato dubbiosa,
 
 “Dovrete spaccarlo, interrarlo e aspergerlo con una fonte pura e a quel punto germoglierà come frutto avernale di cui vi nutrirete. Compiuto il rito sarete creatura avernale, degna consorte di questo sovrano che vi attenderà con impazienza”, una carezza sul viso della dea aveva finalmente svelato il turbamento del dio. Era emozionato, glielo si leggeva negli occhi grigi ora simili a un mare placido.
Persefone aveva poggiato una mano su quella del dio, morbidamente posta sulla sua guancia e, socchiusi gli occhi, aveva mormorato serena:
“Datemi il melograno”
“Avete intenzione di farlo ora?” Ade era sorpreso.
“Si, perché dovrei desiderare di perdere tempo? Io sento che ciò è giusto”, Persefone, sempre con gli occhi chiusi, si beava della carezza del dio sebbene quello, ora ancor più emozionato, aveva spostato la mano mettendole due dita sotto il mento in modo tale da sollevarle il volto.
“Guardatemi mia signora-“, richiamata, la dea aveva aperto gli occhi, svelando un caldo color miele.
“questo è ciò che veramente desiderate?” e, nuovamente, come la volta precedente, non parole ma gesti erano stati la scelta della dea che, sollevatasi sulle punte, aveva posto le labbra morbide su quelle sottili del dio nero.
Timide scuse per quello schiaffo dato con rabbia.
 
Un gemito era scappato dalle labbra del sovrano che, non resistendo più a quel richiamo primordiale che sentiva agitarlo dentro, l’aveva stretta a sé con forza, finalmente respirando a pieni polmoni quel profumo che sapeva di vita; finalmente assaporando quel calore che lo faceva fremere dentro.
Il dio dell’Erebo, completamente perso su quella bocca umida e schiusa, aveva osato varcarne l’ingresso: una scarica d’adrenalina aveva percorso il suo corpo, un fremito che aveva trovato eco nei gemiti sospirati dalla dea.
“Persefone…”
La dea non aveva mai sentito il suo nome pronunciato con tanta passione e brama, quattro sillabe sussurrate con voce roca a pochi millimetri dalle sue labbra, un sospiro tra un bacio e un altro e, ad ogni nuova invasione, si sentiva morire dal desiderio bruciante che le agitava il ventre.
“Mio signore” aveva risposto quella, la voce dolce e leggermente arrochita avevano sconvolto il dio che praticamente oramai perso completamente avvinto nelle spire del serpente velenoso che da sempre lo abitava, si era lasciato cadere al suolo tenendola ben stretta tra le braccia.
Morbidamente stesa sul suo corpo fremente, l’aveva guardata negli occhi, i suoi erano due pozze nere.
“Morirò se non sarete mia” la bocca del dio ora incurvata in una linea sofferente aveva atteso quella della dea ma Persefone, invece che baciarlo, ne aveva accarezzato il profilo severo con la punta delle dita.
“Io sarò vostra e dell’Averno. Per sempre”.

Avevano sorriso entrambi, un sorriso delicato e casto come quello di due persone che si confidano reciprocamente i segreti del cuore.
“Sarà meglio procedere adesso, avete lo strano dono di distrarmi signore dell’Averno”. Persefone aveva parlato a bassa voce, il capo poggiato sopra il petto del dio, le mani intorno al suo volto per carezzarne il profilo spigoloso.
Ade teneva gli occhi chiusi e di tanto in tanto un sorriso si stendeva sulla linea solitamente seria delle labbra; a volte le mordicchiava un dito quando questo, per gioco, si spingeva su quella bocca severa.
Un mugolio: non aveva proprio voglia di rinunciare a quel calore, al sentirla sopra di sé sebbene in cuor suo sapesse che quello, il rito, era l’unica loro speranza per poter essere felici.
Una riflessione come un fulmine a ciel sereno aveva però illuminato il dio, lasciando al posto della beata espressione una smorfia corrucciata.
“Persefone, prima che compiate il rito, vi è un ultima cosa che dovete sapere”, aperti gli occhi aveva incrociato quelli dubbiosi di lei, ancora a pochissimi centimetri di distanza.
“Dite”, la dea aveva sorriso incerta, curiosa di capire cosa nascondesse quell’espressione preoccupata.
“Vostra madre non sarà d’accordo”.
“Mia madre capirà”, quella, mal celando un velo di tristezza, aveva infine sorriso.
“Mia madre desidera solo il mio bene e voi, voi lo siete. Lo sarete, lei lo capirà”.

“Voi, mia dolce signora, siete fin troppo ottimista. Mi correggo allora”, a quel punto Ade si era leggermente sollevato sugli avambracci sostenendo il suo peso e quello della dea sopra di lui, il volto, nuovamente serio, faceva quasi paura.
“Mi correggo: vostra madre non è felice di sapervi in mia compagnia, ospite e  futura regina. Ha intenzione di scatenare una guerra, anzi, l’ha già iniziata".
Sollevatasi a sua volta e mettendosi in ginocchio di lato al dio, una Persefone sconvolta non riusciva a trovare le parole da pronunziare.
“Voi state scherzando”, un sorriso incredulo, quasi isterico dipinto sul volto.
“Mia signora-“ una mano di Ade si era posta sulla guancia ora fredda e pallida della dea,
“Mia signora, io non vi prenderei mai in giro, vostra madre mi ha in odio e soffre la vostra distanza, stuoli di anime trapassate affollano il mio regno oramai da giorni. Ella ha dato vita a un ciclo irreversibile che nemmeno voi potrete mai riportare allo stato originario”, ora erano due le mani del sovrano sul volto sconvolto della giovane dea dagli occhi umidi di lacrime.
“Mi state dicendo che per colpa mia, solo per colpa mia, mia madre sta radendo al suolo intere popolazioni umane?” . Gli occhi spauriti di quella avevano innescato un’angoscia tale nel cuore di Ade da  portarlo a stringerla contro il suo petto cercando in qualche modo di fermare quei singhiozzi addolorati.
“Non per colpa vostra, voi non avete alcuna colpa. La colpa è mia che vi ho braccata come una preda costringendovi alla resa, la colpa è mia che sono rimasto folgorato da voi e non potendo rinunciarvi vi ho sottratto con egoismo agli altari materni. Per questo motivo dovete riflettere attentamente su quanto state per fare, se deciderete di rimanere al mio fianco, altri soffriranno la vendetta di Demetra”.
Scuoteva il capo la dea, e tanto più realizzava quanto avesse detto Ade tanto più si sentiva morire mentre una rabbia nera le risaliva dal profondo abisso dell’anima.

Perché era sempre costretta ad allontanarsi dai suoi più cari affetti?

“Nessuno merita questo. Io non voglio rinunciare a voi così come non voglio rinunciare a lei ma, sopra ogni cosa, nessuno merita di morire per colpe non sue!” le lacrime bagnavano le mani del dio a coppa su quel viso sconcertato dal dolore,
“Vi prego mio dio, lasciate che io compia il rito, Era propizia questa unione, lasciate che ciò accada e…-” bloccata dai singhiozzi si era presa la testa tra le mani,
“e lasciate che io vada a parlarle, mia madre…”, sfinita aveva chiuso gli occhi.
“Compiremo il rito, ora stesso, ma sarò io a parlare con vostra madre prima che voi possiate lasciare questi luoghi che vi amano-“ l’aveva leggermente scossa invitandola ad aprire gli occhi,
“ma vi prego, calmatevi. In questa giostra fatta di ipocriti e egoisti voi siete l’unica innocente e meritate di essere felice. Voi sarete felice qui?” in cerca di quell’unica conferma Ade le aveva baciato la fronte per poi scendere sulle guance bagnate di lacrime salate.
“Sì”.
“Allora alzatevi mia signora, compiamo il rito e state serena. Non siete sola”.

Non avrebbe mai potuto compiere la sacra celebrazione omettendo la tragica reazione di Demetra. Non avrebbe mai potuto vincolare a sè Persefone con la menzogna eppure, vedendola in lacrime disperata, per una volta avrebbe desiderato essere il peggiore degli omertosi.

 
---


 
Una figura di fuoco si era materializzata dinnanzi agli occhi impassibili del giudice Radamanto.
Il
secondo, chiuso in un rigido silenzio, attendeva delle spiegazioni.
 “Ero preoccupata”.

          Perché sentiva il dovere di giustificarsi?

“ E perché spiarmi? Speravate di captare qualche informazione a tradimento?”, severo e sospettoso Radamanto la squadrava da capo a piedi non avendo paura dei piccoli lapilli di cenere e scintille.
“Speravo solo di capire quanto grave fosse la situazione, sono molto preoccupata giudice e voi dovreste immaginare il perché!” Esasperata Estia aveva abbaiato quella risposta scatenando un piccolo sbuffo di cenere ai piedi del grande focolare.
Psicologicamente si era preparata a una battaglia fatta di insulti e urla ma, invece, stranamente, quello aveva sciolto le braccia lungo i fianchi e con un sospiro le aveva parlato con un’insolita sofferenza.
“La situazione è molto grave Estia. Ci sono degli esseri strappati alla vita troppo prematuramente, se continuerà di questo passo Demetra causerà l’estinzione della razza umana e… E non per gli dei io soffro, alcuni meriterebbero di sparire nel Tartato-” l’ultima frase l’aveva mormorata a denti stretti,
“io soffro per gli innocenti Estia, non è una sorte giusta”.
“Non di giustizia vive l’uomo, Radamanto”, la dea aveva risposto con voce atona scatenando una risposta sgarbata del giudice
“Ma dovrebbe! E dovrebbe grazie a degli dei giusti! Ma se questi dannati dei sono i primi a cedere all’egoismo come potrà mai sopravvivere il resto dell’umanità?”
“Non tutti gli dei sono così” mesta, aveva abbassato il capo.
“No è vero, vi sono divinità sciocche come voi o Ade che provano a recare aiuto al prossimo e poi vi sono esseri gloriosi come Zeus che, ad esempio, non esitano un’istante a ingannare la sorella affinché questa, illusa dalla virtù della verginità, ceda la primogenitura e con essa il diritto al trono olimpico in cambio di due cavigliere sonanti. È per esseri come Zeus che voi e Ade avete in dono una sorte balorda. È per l’egoismo di Demetra che le genti moriranno”.
Si era sfogato, aveva sputato la bile nera che gli avvelenava il cuore.
Egli sapeva che destino era stato scelto per la dea al suo cospetto così come per il dio al quale era devoto e odiava con tutto se stesso quella ingiustizia.

Si era sfogato, era vero:

Ma a che prezzo?

Estia era scomparsa.





 
  
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