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Autore: Avareil    04/10/2017    5 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angoscia

Con il melograno ancora tra le mani, Ade rifletteva sulle parole della sorella Estia.
Da solo, nella sala del trono, aveva dovuto aspettare lo scorrere lento ed inesorabile del tempo prima di poter rimanere nuovamente con sé stesso, nel silenzio della mente ora irrimediabilmente distratta. Fino a quel momento non aveva fatto altro che accogliere, ascoltare e giudicare con severità e correttezza ma, nemmeno quel suo procedere così metodico e preciso era riuscito a conferire al suo animo la consueta lucidità e pacatezza.
Estia si era resa portavoce della regina consorte di Zeus, loro sorella Era, ma quello che Ade teneva  ben saldo nella mano destra era molto di più di un semplice “dono”.

Sorrideva, un ghigno quasi ironico gli incurvava le labbra sottili.

Un dono che cela una condanna, ecco la benedizione di Era.

Una vendetta sottile la sua, ma così ben congegnata che le avrebbe permesso di farsi giustizia da sé senza sporcarsi le mani.
… E a lui poteva solo stare bene un risvolto di quel genere, in fondo Persefone sarebbe stata legata a lui da un vincolo benedetto e rischiarato dalla calda luce del focolare domestico. L’Averno e il suo sovrano avrebbero potuto godere in eterno della presenza di quella dea che sapeva di vita e sole.

Ma lei?

Sebbene lo stesso Zeus avesse legittimato tacitamente quell’unione, permettendogli di varcare il luminoso mondo alla ricerca della sua signora, lei avrebbe mai potuto accettare un legame di quel genere? Si sarebbe mai vincolata di sua sponte, interrando, aspergendo con una fonte pura e, infine, ingerendo i semi oramai avernali di quel frutto?
Avrebbe mai detto addio alla madre per sempre?
Con una mano posta stancamente sulle tempie, Ade si arrovellava il cervello alla ricerca di risposte adatte a quelle domande insidiose.

Magari lei avrebbe accettato. Magari avrebbe scelto lui.

Un sorriso aveva per un istante illuminato il volto corrucciato del dio: in fondo lei aveva accettato di rimanere presso i suoi domini, lo aveva accolto come guida, aveva permesso che le sue labbra saggiassero quelle rosee e inesperte di lei.
Ma quel sorriso si era nuovamente spento dinnanzi a considerazioni ben più pregnanti di etica.

Etica?

Avrebbe mai potuto permettere che la sua Persefone soffrisse l’abbandono del tetto materno?

Un rantolo di sofferenza era sfuggito alle labbra arricciate del dio.

Quella non era affatto etica. Se il Fato era dalla sua parte, se le tre sacre signore avevano vincolato lo stesso Zeus con le loro parole di fuoco, se la stessa Era gli offriva su un piatto d’argento la scusa migliore per la celebrazione sacra, perché tutti quegli scrupoli di coscienza?

“Mio re”. Radamanto aveva fatto capolino da dietro la porta d’ingresso e con voce cupa aveva annunciato la presenza di altri dannati, ridestando in quel modo il sovrano perso nei suoi ragionamenti.
“Ancora?”. Il signore dell’Averno, stupito da tanto caos, si era alzato in piedi e con un balzo agile aveva raggiunto la porta per poter constatare egli stesso lo stato della situazione.
Uno stuolo non indifferente di anime occupava l’intero ingresso del tempio: rivestiti di stracci, vecchi, donne, bambini e uomini fatti lo guardavano spauriti, gli occhi spenti, le mani giunte in preghiera.
“Radamanto”, il tono del dio non era affatto rassicurante.
“Si, mio signore”.
“Mandate a chiamare Hermes, ho urgente bisogno di conferire con Zeus”.

---





 
Una volta varcata la soglia della sua camera, aveva immediatamente cercato di riguadagnare il contegno e il decoro miseramente persi tra le braccia di quel dio assurdo e passionale. Aveva respirato profondamente mentre, ancora con le spalle poggiate sulla porta, aveva posto una mano sul petto, all’altezza del cuore impazzito.

Persefone, che destino vuoi compiere?

Non aveva avuto il tempo di riprendere fiato e di rimettere in ordine i pensieri  che un cerchio di tenere fiammelle azzurre le si era fatto tutto intorno; inclinato il capo di lato e mossa da curiosità, aveva allungato un indice per sfiorarne una e subito aveva percepito come un guizzo provenire da questa.

“Chi siete, tenui fiamme che mi fate da corteo?”, la sua voce suonava incuriosita e leggermente titubante.
Magicamente un gruppetto di bambine, strane bambine ma pur sempre bambine, si era materializzato dentro la stanza. Alcune le erano particolarmente vicine, tanto da poterne osservare la pelle in parte deturpata o bianca come quella di un corpo morto, altre invece erano sedute sul letto, altre ancora la scrutavano la lontano con gli occhi socchiusi. 
Per poco non aveva perso un battito per la paura e le mani, prima protese verso la fiamma, ora erano ora poste sugli occhi a mo’ di schermo.
“Signora?”, una di quelle le si era avvicinata e le aveva leggermente tirato il peplo all’altezza della gamba.
Persefone, prendendosi di coraggio, aveva allora allargato le dita poste sugli occhi e, sbirciando le avernali poco per volta, iniziava ad abituarsi a quel loro aspetto inquietante ma stranamente non feroce. 
Colei che l’aveva richiamata strattonando la veste, evidentemente la più grande tra quelle, aveva continuato in un sospiro
“Noi saremo le vostre serve, nostra signora, siamo qui per soddisfare ogni vostra esigenza”.
“Io non ho alcun bisogno di servi”, aveva parlato la dea, togliendo definitivamente le mani dal volto e indirizzando un sorriso timido a quella che aveva parlato.
“Ho bisogno di fedeli ancelle che si prendano cura di me e sei voi tutte siete qui per aiutarmi allora anche io vi prometto di trattarvi con il riguardo che meritate”.
Persefone aveva infine sorriso apertamente mentre gli occhi, ora sereni, osservavano senza paura il piccolo volto deturpato della più grande delle ninfe avernali.
“Ma signora” una di quelle sedute per terra aveva parlato quasi con enfasi, rassicurata dalla dolcezza di quella dea.
“E’ bello vedere che non ci temete. Noi, così come l’intero Averno e il suo onorato signore, non siamo cattive o maligne. Non abbiate alcun timore di noi e del nostro aspetto. Si, è vero-“ quella aveva rivolto il viso altrove, mostrando una lunga cicatrice rossa che dal collo la segnava fino alla spalla destra,
“è vero, siamo un po’ distrutte e deformi ma siamo buone, fedeli e questo regno così oscuro ci ospita con amore, ci custodisce. L’Averno non è un posto spaventoso, semplicemente è sconosciuto ai più... Il fatto che però nessuno lo scorga non vuol dire che però non esista”.

L’invisibile che non si scorge ma che vi è sempre, il seme dietro il fiore, la radice sotto l’albero.

Quell’osservazione, espressa con cieco amore, aveva  riscaldato il cuore della dea.
Forse il Fato non era così imperscrutabile. Forse seguiva delle logiche oscure ma non per questo irrazionali. Ade, il sovrano dell’invisibile, poteva essere il degno compagno della vita esplosiva?
Le veniva da ridere e al contempo da piangere.

E sua madre?

Turbata aveva provato a prendere posto sul grande letto, affaticata da una serie di emozioni che le facevano ancora tremare le gambe, ma una bimba fiammella l’aveva prontamente dissuasa con una smorfia in volto, segno, questo, che le aveva riportato alla mente il “profumo” del mastino infernale ancora lì presente ad impregnarle le vesti.
Le ninfe dell’Averno, che avevano ben poco di cattivo, l’avevano scortata in una sala adiacente a quella in cui campeggiava un maestoso letto matrimoniale rivestito di lenzuola purpuree. Lì aveva scorto una grande vasca fatta d’avorio in cui avrebbe avuto modo di pulirsi, coccolata da quelle. Proprio grazie alle loro premure era riuscita infine a prendere sonno: merito del bagno caldo che le aveva rilassato i muscoli e dell’ottima ambrosia olimpica che le era stata servita poco prima di stendersi sul grande letto.
 



Oramai sola e con gli occhi fissi al soffitto aveva tentato di rimettere insieme i pezzi della sua esistenza: solo qualche mese prima la sua vita era quella di una piccola kore dei boschi e dei prati e ora, invece, veniva trattata con ogni riguardo da uno degli dei più temuti dell’intero pantheon.
Eppure, anche se in principio aveva avuto paura ella stessa di quell’essere così diverso dagli altri, alla fine aveva iniziato ad apprezzarlo, a cercarne lo sguardo nebuloso in ogni anfratto. Quel modo di fare, così severo e composto, risultava ai suoi occhi ancora più interessante dal momento che ora, solo dopo tempo, riusciva a intravedere un oltre.

La sua era stata una fuga poco convinta. Ecco.

La sua era stata una resistenza fiacca.

La paura dell’invisibile aveva a poco a poco lasciato posto a un’altra gamma di sentimenti che avevano preso vita sulla sua bocca schiusa e invasa dalle labbra esigenti e calde di lui.
Accucciatasi sul lato destro del proprio corpo aveva poi tirato le ginocchia al petto mettendosi in posizione fetale, con gli occhi stretti aveva pregato a mezza voce:

Madre, mi spiace recarvi tanta sofferenza. Tornerò presto, lo sapete. Voglio solo conoscerlo meglio, svelare il mistero che avvolge in spire nere il mio destino. Vi prego madre, siate forte.

E così, con gli occhi socchiusi, aveva lentamente perso consapevolezza di sé e del proprio corpo, sprofondando in un sonno ricco di sogni, regalo di un qualche genio benevolo che la consolava nella solitudine del talamo.
Vedeva come l’ombra delle sembianze della madre mentre questa, intenta a parlare con altre ninfe, gesticolava come suo solito, infervorata da un qualche racconto udito in lande desolate.
Immaginava poi l’altare materno abbellito da rami di ogni tipo di erba profumata mentre fiori variopinti regalavano alla vista della mente una visione rilassante e familiare.
Ricordava il vocio del suo corteo, i canti corali e le danze propiziatorie così come- e qui nel sonno aveva aggrottato le sopracciglia, infastidita- percepiva ancora l’insofferenza nei riguardi dei limiti imposti dalla madre;  sapeva che oltre il limitare del bosco avrebbe visto il lago Pergusa, eppure per raggiungerlo era sempre costretta a eludere la sorveglianza di Demetra e delle sue fedeli ancelle.  Aveva sorriso al pensiero del lago, luogo proibito eppure rifugio sicuro da occhi indiscreti e fastidiosi; lì era solita cercare la sola compagnia dei fiori e degli animali, lontana da ninfe e nutrici troppo apprensive.
Ma ecco che una stilettata al cuore l’aveva fatta fremere in quella via di mezzo tra il sonno e la veglia in cui si trovava.

Il lago Pergusa non era stato sempre riparo.

Lo sentiva distintamente dentro di sé, un battito primordiale che sapeva d’angoscia le martellava contro il petto.
Si sentiva come sfiorare da mani sporche e sudice mentre una voce roca le tormentava i timpani. Un brivido di paura le correva lungo la schiena al cospetto di un essere mostruoso per lascività.

Un satiro?

 Sì. In una visione che sembrava estranea al suo punto di vista lo vedeva chiaramente muoversi nell’oscurità delle frasche boschive alle sue spalle.
Chissà da quanto la seguiva, da quanto studiava i suoi movimenti con la speranza che facesse un qualche passo falso e lei, come una stupida, l’aveva fatto nel momento in cui, ignorando il divieto materno, aveva varcato il limite sicuro del parco sacro a Demetra.

“Kore, dolce Kore, che ci fai tutta sola in questo luogo? Lo sai che tua madre si infurierebbe se sapesse che sei qui?”

“Ti prego, non dirlo a mia madre, volevo solo guardare un po' più da vicino il lago”.

Ma che stava dicendo?
Perché il suo corpo e la sua bocca avevano parlato senza il suo consenso?
Dormiva, eppure viveva quelle sensazioni brucianti sulla sua pelle.
Quelle mani nodose e pelose sulle braccia candide, quell’alito fetido di vino alitato sul viso innocente: era così vicino al suo corpo da poterne leggere il bramoso desiderio negli occhi quadrati e iniettati d’alcool.
Era scappata come una furia gridando con quanto più fiato avesse in corpo. Invocava aiuto, cercava un riparo ma ecco che il lago, sordo alle sue sofferenze, la lasciava sola dinnanzi a quella bestia.
Solo quando quelle mani l’avevano nuovamente afferrata con violenza aveva mormorato una preghiera a mezza voce. Non chiamava la madre o le ninfe amiche, a dire il vero non aveva chiamato nessuno.
Eppure qualcuno aveva risposto.

Un dio oscuro, avvolto in una nebbia nera aveva messo in fuga il satiro perverso con un solo sguardo di brace e, sempre quel dio, velato alla vista, le si era inginocchiato da presso dopo che, allo strenuo delle forze, si era abbandonata al suolo accogliente.
Vedeva chiaramente ora, vedeva quel dio rivestito da metallo nero prenderla tra le braccia con una reverenza pari a quella dovuta  a un delicato stelo.
Lo vedeva come se lei fosse stata la spettatrice del suo stesso salvataggio.
L’aveva condotta presso all’altare materno e lì l’aveva delicatamente poggiata in terra perché trovasse riposo e conforto. Solo poco prima di venir lasciata aveva come percepito quel muro di nebbia diradarsi;  egli infatti si era sfilato un elmo, nero e finemente lavorato, dal capo, liberando una chioma ribelle e nera come ali di corvi.
Ade.
Ade?
Era lui eppure non lo era.
Era lui nel fisico, nelle fattezze, nei gesti.
Ma non era veramente lui: lo sguardo era vitreo.
Un soldato, un essere privo di anima, ecco quello che vedeva nello specchio del suo sogno.
Solo ora capiva perché quegli occhi l’avessero tanto tormentata nel silenzio della sua incoscienza.
 
 
Si era ridestata solo dopo ore di sonno profondo tanto che gli arti mollemente adagiati sul letto sfatto avevano leggermente tremato quando aveva ripreso conoscenza.

Doveva parlare con lui. Doveva scusarsi? Forse sì, avrebbe dovuto dal momento che l’aveva accusato ingiustamente di averla perseguitata nella realtà onirica quando invece quella era solo il riflesso di un fatto che lo vedeva eroe, vero eroe.

Dopo essersi stiracchiata aveva passato una mano sul volto pensieroso e, vergognosa, aveva scosso la testa da destra a sinistra biasimando la propria superficialità.
Richiamata dalle proprie riflessioni dal volteggiare per la stanza di un fuocherello azzurro, ecco che aveva parlato.
 “Ninfa, qual è il tuo nome?”,
“Emisu, mia signora… Sono incompleta”, tramutatasi in bambina avernale aveva preso posto di fianco a lei, in piedi. Un sorriso amaro aveva illuminato il viso della giovane che, quasi con naturalezza, aveva indicato sul proprio volto il motivo di quel nome. La parte sinistra del volto era completamente sfregiata da quelli che sembravano segni d’artigli.
“Emisu”, Persefone aveva guardato con premura la piccola ragazza e prima di poterle comunicare i propri desideri, si era alzata. Con gli occhi socchiusi e infreddolita, aveva cercato uno scialle con il quale coprirsi le spalle ma quando la ninfa le aveva indicato un peplo scuro adagiato sulla sedia ella aveva fatto no col capo.
“Cerco il mantello che avevo indosso”, aveva risposto la dea.
“Mia signora, certo”. L’avernale si era assentata un attimo per poi ricomparire con il mantello ripiegato tra le mani.
Vedendolo pulito Persefone aveva leggermente sorriso per poi però incupirsi non appena non era riuscita più a captare tra i meandri di quella veste il profumo del suo possessore.
“Emisu, dov’è il tuo signore in questo momento?”, la dea aveva ripiegato la veste e, poggiatala con cura sul grande letto, aveva infine deciso di indossare quella posta sulla sedia.
“Mia signora, il sovrano di questi luoghi giudica e regna dalla sala del tempio avernale ma ho avuto rigidi divieti sul fatto di lasciarvi aggirare per quelle zone in sua assenza”, mortificata aveva rivolto gli occhi al pavimento, timorosa d’aver offeso la sua padrona.
“Si, Ade mi aveva avvertita di questa possibilità-”, l’aveva rincuorata quella.
“Sta bene, lo aspetterò presso le sue stanze se avrete la bontà  di condurmici”.
“Certo”, la ninfa aveva risollevato il capo e con abile mossa si era spostata presso la grande cassettiera della camera.
“Che state facendo?”, dubbiosa Persefone l’aveva seguita.
“Vi preparo le vesti, mia dea”.
“Che vesti? Io possiedo solo la tunica bianca di superficie e il peplo blu che avete lavato pocanzi”. 
La ninfa le aveva fatto cenno di avvicinarsi.
“Mia padrona, il dio di questi luoghi rispetta ogni sacro vincolo dell’ospitalità”, e con quelle parole aveva aperto  l’anta rivelando uno stuolo di vestiti preziosi.
“Se volete incontrare il dio sarà meglio abbigliarvi in maniera solenne”.
 

---







 “Siete stato più lento della volta precedente, nipote. Devo forse immaginare una certa titubanza nel seguire gli ordini del padre degli dei nonché dei miei?”. Ade, ancora infastidito dalla volta precedente in cui il dio alato aveva osato paragonarlo al peggiore degli uomini perversi, aveva immediatamente fulminato Hermes che, ancora memore dell’ultima visita presso quei luoghi, mal sopportava l’idea di ritornarci tanto presto.
“Zio, sovrano dell’Ade, eseguo ogni ordine mi sia impartito, nessun rancore nutro verso voi e il vostro regno. So che siete e sarete un ottimo ospite, se è questo ciò a cui vi riferite”. Hermes, ora coi piedi leggermente sollevati dal pavimento, aveva risposto cercando con tutte le sue forze di non incrociare lo sguardo irritato e al contempo divertito di Ade.
“Zeus domanda il motivo di tale convocazione, sommo Ade”.
“Troppe anime bussano alla mia porta, troppi morti chiedono accoglienza tra le mura nere”.
“Veramente?”. Il tono del giovane dio sarebbe risultato falso anche all’orecchio più inesperto, sapeva egli, sapeva bene cosa stava sconvolgendo il mondo di superficie ma aveva deciso di tacere.
“Hermes, non osate prendervi gioco di me presso i miei altari sacri!” Ade, furioso, si era alzato dal nero scranno d’avorio e, mossi dei passi rapidi in direzione del nipote, l’aveva afferrato per una spalla e condotto di peso verso il grande portone nero dell’ingresso.
“Zio…” Hermes balbettava e quel balbettio aveva trovato muro nell’atteggiamento perentorio del dio furibondo.
“Guarda coi tuoi occhi, stupido e non osare ingannarmi!” Spinto fuori aveva assistito coi suoi stessi occhi verdi a uno spettacolo raccapricciante: da lontano, lontanissimo, oltre le mura, inizia a intravedersi una fiumana di gente disperata e  macilenta; i più fortunati avevano ricevuto degna sepoltura e potevano oltrepassare i fiumi neri ma gli altri, i più sfortunati, sarebbero stati costretti a vagare in eterno presso le spiagge dell’al di là.
Hermes, pallido in volto, aveva distolto immediatamente lo sguardo e, calate le spalle in segno remissivo, si era voltato non sopportando più quella distesa di disperazione.
“Vostra sorella, mio signore, vostra sorella Demetra”.
“Mi sorella cosa?” Ade l’aveva superato, incamminandosi nuovamente verso la sala profumata di miele, le spalle dritte sostenevano un capo leggermente inclinato verso il basso con fare riflessivo.
“Demetra ha perso la ragione: vaga come un’anima solitaria alla ricerca della sua bambina perduta sebbene sappia che ella è qui presso di voi in qualità di ospite. Ha cercato in lungo e in largo la sua kore, e perdendo quella ha perso anche il proprio nome e il proprio dono. Non fiorisce, non matura, anzi, avvizzisce sotto il peso di un clima che non le riscalda più la pelle”.
“Ha scatenato una carestia quella folle”. Una mano stretta in pugno si era scagliata contro il piano dell’altare facendo tremare le numerose libagioni ivi poste.
“Si, mio signore. Zeus tace ma in cuor suo spera e prega che voi possiate ponderare la vostra scelta. Se è veramente Persefone colei che desiderate, legatela a voi quanto prima in un vincolo legittimo e sacro. Fino ad allora Demetra non si darà pace e altri umani vi andranno di mezzo”. Hermes, stranamente serio, aveva parlato con un tono di voce basso, troppo basso per un ragazzo della sua indole.
“Perché, dopo? Ella non sarà mai favorevole a queste nozze! Continuerà questa folle battaglia con l’unico obiettivo di impietosire la figlia e mettere alle strette il fratello Zeus. Senza umani noi non esistiamo, Hermes”.
Ade, ora a capo chino e con le mani strette sul bordo dell’altare, gli dava le spalle.
“Ebbene, riferisci al tuo signore che le mie intenzioni permangono senza mutazione alcuna. Persefone sarà mia e se egli non ritiene opportuno ostacolare il folle agire della sua compagna, bene, che faccia pure! Il mio regno può ospitare tutti, anche voi dei di superficie”, le ultime parole sembravano trasudare veleno.
Hermes, trasalendo nell’udire quella minaccia, aveva distolto lo sguardo dal corpo dello zio e aveva mosso dei passi verso l’uscita.
“Siete congedato. Aspetto celeri risposte. Per quanto riguarda Demetra, vedrò anche io di parlarle: quella stupida deve capire che al Fato non ci si può opporre. Proto, Lachesi  e Atropo sono state chiare: una luce in cambio  di una luce, un sacrificio per un sacrificio”.
“Ma voi siete sicuro che Persefone sarebbe d’accordo con voi qualora venisse a scoprire quanto soffrono gli umani per il dolore della madre?”, Hermes adesso lo fissava con sguardo cupo.
“Non è il caso che Persefone sappia in questo istante. La metterò io stesso al corrente non appena avrò parlato con Demetra”.
“Avete paura di un no come risposta?” .
Ade aveva irrigidito la schiena già di per sé contratta.
“Ella non può dirmi no”.
“E se lo facesse? Se vi pregasse di restituirla alla madre?”
Aveva sospirato pesantemente e solo dopo qualche secondo quelle parole erano uscite dalle sua labbra a mo’ di bisbiglio.
“In quel caso sarebbe libera d’andare”.
Dopo aver congedato Hermes si era diretto velocemente nelle sue stanze. Radamanto avrebbe preso il suo posto mentre lui, pervaso da un’ira e da un dolore angosciante, avrebbe tentato di riconquistare la pacatezza del suo spirito. Si sentiva braccato, accerchiato, col fiato sul collo. Ogni volta che all’orizzonte sembrava delinearsi una soluzione ragionevole ecco comparire immediatamente qualche problema pronto a stroncarla.
L’aveva detto, infine l’aveva ammesso con se stesso al cospetto del nipote alato.
Avrebbe lasciato Persefone per un bene maggiore. Avrebbe liberato la dea da quel vincolo imposto dal Fato e nuovamente, da solo, avrebbe subito il peso di quel regno che già da lungo tempo gli gravava sul cuore affaticato.
Avrebbe voluto spaccare qualcosa, distruggere il mondo che lo circondava per sfogare quell’amarezza in cui stava annegando il suo animo.
Gli scoppiava la testa e il corpo, rigido e freddo, bramava solo un contatto, una carezza.

Ade che brama una carezza? Ma non ti vergogni stupido dio? Non vedi come anche il Fato si beffa di te? Non affezionarti, quella dea non lo farà, non sacrificherà nulla per te.

Doveva parlarle? Raccontarle quanto stava avvenendo in superficie? Narrarle del pomo di melograno?
Aveva bisogno di un bagno, di rilassare quel corpo rigido e dolorante e distogliere i pensieri da quell’angoscia  che lo tormentava.

Poi avrebbe deciso.

Aveva appena imboccato la porta quando la speranza di ritrovare la pace l’aveva completamente e nuovamente abbandonato per lasciare il posto a bile nera.
I suoi occhi stanchi si erano soffermati sulla figura di donna stesa tra le lenzuola.
La succube stava mollemente stesa sul letto, nuda e con le gambe lunghe e sensuali leggermente divaricate: era chiaro ed esplicito quale desiderio la incendiasse. Ella aveva sorriso leccandosi le labbra con la lingua, intrisa di lussuria e voluttà lo invitava a giacere con lei, a consumare quella folle passione che le sconvolgeva le viscere nere.
“Padrone”, aveva mormorato languidamente, mentre una mano artigliata accarezzava il seno nudo per poi scendere impudentemente verso il centro del suo corpo esposto alla vista del dio. Ade, fermo sull’uscio non aveva osato muovere un passo oltre. Le spalle contro la porta erano rigide mentre gli occhi, persi nel vuoto oltre la figura della demone, erano foschi, incupiti, quasi incattiviti; non una stilla di desiderio brillava in essi.
“Menta-”, il tono era incolore.
“Non osare mai più varcare le mie camere senza il mio permesso”. Con occhi brace ora si mostrava nella perentorietà tipica della sua essenza avernale. Una nube oscura, la sua anima tormentata, ora lo avvolgeva, stritolandolo nella morsa dell’ira.
“Perdonatemi, mio signore”, Menta aveva mormorato con fare pentito anche se non un muscolo del suo corpo si era mosso dalla posizione provocante in cui si era lasciata trovare stesa su quel letto; forse pensava che egli scherzasse, che la furia fosse solo il motivo con cui quella volta l’avrebbe posseduta.
Menta aveva continuato a stuzzicarlo.
“Padrone, è molto tempo ormai che evitavate la mia compagnia”, ora la mano era nuovamente a tormentare un capezzolo,
 “speravo solo, magari, facendovi una sorpresa, di attirare la vostra attenzione visto che la dea di superficie non soddisfa il vostro desiderio”, Menta si era tirata sulle ginocchia e, con un atteggiamento a metà strada tra quello di una supplice e quello di una donna bramosa, aveva esposto il suo corpo allo sguardo di brace del dio.
“Si vede sul vostro viso che soffrite, lasciate che io vi dia pace, come i tempi passati”. La coda demoniaca oscillava lentamente.
 “Menta”. Questa volta la voce del dio, spettrale e cavernosa, le aveva scatenato un brivido lungo la schiena; la succube sentendosi appellare in quel modo, si era leggermente tirata indietro.
“Tu, demone lasciva, come osi mostrarti al mio cospetto, al cospetto del tuo dio, senza vergogna anche quando egli ti mostra la sua ira?. Ti sono rimasto fedele non per affetto ma perché questa è la mia indole, ma tu stessa sapevi bene che non per affetto da parte mia, e non per passione, non per amore o desiderio, ma solo per brama di potere e vanità voi giacevate con me nel mio letto. Nessun legame ci vincola, nessun affetto ci lega. Le parole che dici, la mancanza che affermi sono falsi come falso è il tuo aspetto e la tua indole. Non permetterti mai più”. Ade, ancora fermo dinnanzi a lei, aveva parlato con calma, sebbene il volto mal celasse quel bruciante fastidio nel vederla così sfrontata al suo cospetto. Ella non aveva motivo di essere lì perché non da giorni, non da mesi, ma da anni egli non aveva più osato toccarla; più precisamente da quando i suoi sensi, persi nel buio del sonno, avevano captato in lontananza il vagito della sua dea.
“Al cospetto della dea che bramo sentite il vostro potere venir meno: badate bene Menta, che sia la prima e l’ultima volta in cui osate frapporvi tra me e la dea che bramo.”

Chiaro, secco, terribile.

La succube, impaurita da quelle parole si era alzata con lentezza, non un filo di vergogna aveva trapassato quel volto impudico e quel corpo esposto. Si era rivestita non proferendo alcun verbo mentre un viscido e verde odio le risaliva alle labbra.
Sapeva perché Ade la rifiutava, anzi ben conosceva la profezia dello Stige: egli avrebbe avuto una luce in cambio di quella persa. Preferiva, a lei una divinità della superficie stupida e ingenua. E lei, per onore, per rabbia e invidia, si sarebbe vendicata.

Perché un conto è venir rifiutati senza alcuno che prenda il nostro posto, altro invece è vedersi sostituire.

Forse non sarebbe servito molto, forse sarebbe bastato che quella insulsa dea la vedesse uscire dalle camere del signore dell’Averno poco vestita.
Proprio come era appena accaduto.
 


---






 A pochi passi dalla grande porta, ingresso degli appartamenti di Ade, ella aveva visto tutto. Una succube avvenente e rivestita con pochi lembi di tessuto era uscita trafelata dalla camera di quel dio di cui fino a poco prima aveva sentito elogiare la fedeltà.
 
Stupida, stupida Persefone!
 
Addolorata aveva stretto tra le mani il mantello di Ade, mantello che si era rivelato essere il pretesto di una visita e che invece l’aveva condotta dinnanzi a una terribile verità: era vero, le parole pronunciate dalle ninfe nei pressi del lago erano veritiere. Ade sul serio amava intrattenersi con succubi avernali mentre lei, stupida e ingenua, sarebbe stata solo il premio di una vendetta agognata da tempo.
 
Vicino a lei la piccola fiamma Emisu aveva assistito alla scena, non un guizzo  e, una volta trasformata, non una parola era uscita da quelle labbra spaccate e rovinate.

“Mia signora, tutto bene?” aveva chiesto quella stupendosi della rigidità del corpo della compagna al suo fianco.
Persefone era pietrificata.
“Mia signora?”, aveva insistito quella, questa volta rivolgendo lo sguardo attento e indagatore sul viso della dea.
Quella era pallida e con le mani piccole stringeva con forza il mantello, ora ridotto a uno straccio mal ripiegato.
“Chi è colei che abbiamo appena visto uscire dagli appartamenti del tuo  signore?”, piccata, aveva proferito quelle parole con sofferenza, come se le fossero costate prezioso fiato.
“Menta, la succube un tempo preferita dal sovrano”.

Pugnalata al cuore.

Eppure non vi era preoccupazione nella voce della ninfa, non un filo di rancore o sorpresa per quanto aveva appena visto.
 
Che fosse una consuetudine?
 
“Perché era nelle camere del sovrano?”, aveva continuato quella impassibile.
“Non so, ormai è tanto tempo che il dio non ha nessuna compagna”, Emisu aveva cercato la mano della dea in quel caos di stoffa appallottolato contro il suo petto.
 
“Perché non chiedete voi stessa? Del resto eravate venuta per conversare con lui”.

Perché la ninfa mostrava quella calma quasi apatica mentre lei non faceva che sentire le viscere strette in un pugno di fasci e nervi accavallati e doloranti?

Emisu, capendo il motivo del silenzio della dea, aveva risposto:
“Mia signora, se Ade fosse anche lontanamente il dio che ora temete allora questo regno sarebbe già collassato su sé stesso secoli addietro. Troppa corruzione varca queste mura perché non ci si possa fidare nemmeno del dio che lo regge”.
 
Un rimprovero? Emisu, la timida, la stava rimproverando con tono distaccato sebbene lo  sguardo, fiero, non faceva che scrutarle l’anima attraverso gli occhi.
 
“Se volete veramente conoscere questi luoghi fidatevi esclusivamente del dio che li governa. Non date adito a pettegolezzi, non credete agli occhi, spesso ingannati da ciò che si mostra in superficie.  Non fidatevi delle prime impressioni. L’Averno segue regole strane ma non per questo illogiche. ”

Ma qual era la logica nella gelosia che ora le attanagliava lo stomaco?


 “Il sole abbaglia coi suoi raggi e crea allucinazioni, mia signora. La notte senza luna suscita paura e intimorisce la mente di chi si perde nel bosco.
Solo l’uomo di ragione, fedele a sé stesso, sa sopravvivere a entrambe le situazioni”.
 
Tramutatasi in piccolo fuocherello Emisu l’aveva lasciata sola a pochi passi dalla porta della camera del dio.  
 
Doveva respirare. Affrontare quel serpente velenoso che l’aveva morsa.

Aveva camminato velocemente e solo  davanti la porta nera aveva esitato un momento prima di bussare.
 
“Avanti”.

Dal di dentro la voce di Ade aveva risposto quasi meccanicamente, come assorta.
Ella allora aveva schiuso leggermente l’uscio e, in silenzio, aveva sbirciato dentro prima di fare qualche altro passo.
Lui era lì, a pochi passi da lei, chino su uno scrittoio pieno di carte. Il fuoco caldo di un camino illuminava il corpo del dio parzialmente svestito: il chitone nero infatti giaceva scomposto sui fianchi ora cinti esclusivamente dalla corta gonna della veste. Il sovrano non aveva minimamente sollevato il capo dalle carte.
 
“Signore”, in imbarazzo la dea era rimasta ferma sulla soglia, amareggiata.

Perché era mezzo svestito? Perché? Sciocca Emisu.
 
Gelato nell’udire quella voce, Ade solo in quel momento aveva distolto lo sguardo dallo scrittoio e con un’espressione sorpresa le aveva fatto cenno di accomodarsi.
“Persefone, mia signora,  perdonate l’indecenza. Non aspettavo una vostra visita, soprattutto in questi luoghi”.
“E da chi altri allora l’attendevate?”, a mezza voce ella aveva mormorato piccata.
“Perdonatemi?”, stupito da quella risposta e, ancor di più dal malcelato disprezzo dietro quella, il dio aveva incrociato le braccia sul petto, mettendo ancor di più in bella mostra un fisico statuario e asciutto.
“Ero venuta a riportarvi questo e a ringraziarvi della vostra cortesia ma sfortunatamente-“ e lì aveva posto l’accento,
“sfortunatamente ho avuto modo di notare che certe delicatezze non le usate solo nei miei riguardi”.
 
“Persefone”, il tono di Ade ora era leggermente infastidito.
“Vogliate farmi la cortesia di entrare e poi di formulare chiaramente la vostra accusa. Non sono avvezzo alle circonlocuzioni sfiziose della superficie”.
 
Quella aveva mosso dei passi dentro la stanza e, con un po’ troppa forza aveva chiuso la porta alle sue spalle.
“Ho visto la vostra succube uscire dai vostri appartamenti e sebbene la dolce Emisu fosse assolutamente certa della vostra buona fede io invece ne dubito dal momento che vi trovo svestito a pochi passi dal letto sfatto”.
Aveva gettato contro il dio il mantello stropicciato e con rabbia aveva distolto lo sguardo.
“Stupida io che appena ho indossato il mantello ho sentito la mancanza del vostro profumo”. Sentiva le lacrime premere per uscire ma non si sarebbe umiliata ulteriormente al cospetto di quel dio bugiardo.
 
Era gelosa. Dannatamente gelosa.

 Lo sentiva nella voce spezzata, lo vedeva nei gesti frenetici delle mani, e gli occhi, solitamente di un caldo miele ora invece erano elettrizzati come due folgori.

E lui avrebbe messo alla prova quella gelosia benefica per il suo povero cuore.
 
Era bellissima.

“Siete una stupida Persefone”, severo aveva nuovamente  distolto lo sguardo per tornare a concentrarsi sui fogli sullo scrittoio.
“E’ tutto qui quello che avete da dire in vostra difesa?”. Furente la dea aveva mosso dei passi nella sua direzione sempre però rimanendo a una distanza di sicurezza.

Bramava lo scontro, desiderava la verità.
 
Silenzio. Il dio non la degnava di uno sguardo.

Solo dopo  qualche secondo di quella terribile tortura si era decisa a farsi più vicina a quell’essere mezzo nudo e chiuso in un ostinato silenzio.
L’aveva afferrato per un braccio e con prepotenza ne aveva richiamato l’attenzione.
“Io non ho nulla da dire perché non ho nulla da nascondere. Avete visto Menta uscire dalle mie camere e per l’ennesima volta mi considerate pari a quel balordo di Zeus. Se voi non avete fiducia in me, quella è la porta”. Due occhi spenti, così simili a quelli del dio del suo sogno,  avevano folgorato la dea che, quasi scottata, aveva mollato la presa sul suo braccio.
“Vi ostinate a recitare il ruolo del soldato giusto e irreprensibile e così avete perso l’anima. Non avete dei sentimenti? Se è vero che il nostro fato è legato e in nome di questo mi avete salvata dalle grinfie del satiro, come fate a non percepire il mio dolore?!”.
Con lacrime che le rigavano il volto Persefone si era voltata e con le spalle leggermente incurvate aveva cercato di nascondersi alla vista del dio.
 
Ade, interdetto, aveva alzato la voce:
 “è proprio perché ho un’anima che non ho potuto far altro che seguirvi in quel dannato bosco in barba ai divieti di Zeus. È proprio perché ho un’anima che vi desidero come l’ambrosia… E’ perché ho un anima che soffro al pensiero che voi non vi possiate fidare di me e della mia parola-”  aveva urlato e, come quando ci si sfoga di ogni malessere, aveva continuato,
 “Non ho mai giaciuto con nessuno da quando nella mia di mente è risuonato il primo pianto di una bambina venuta al mondo sotto i raggi luminosi di Selene. Nessuno ha mai osato, prima di oggi, varcare le mie camere senza il mio permesso. Non per il Fato, lo Stige o le tre signore vi ho salvata dalla grinfie di quel bastardo ma perché soffrivo fisicamente il vostro stesso dolore e ho desiderato con tutto me stesso farvi da scudo contro il male. Persefone-“ due mani calde si erano poggiate sulle spalle di lei, coperte solo da un sottile velo di tessuto color porpora.
“Persefone dubitate ancora di me quando per voi mi metterei in ginocchio ora stesso giurandovi fedeltà?”.
Con una leggera pressione l’aveva fatta voltare verso di sé e prendendo il viso tra le sue mani l’aveva guardata negli occhi.
“Dovete fidarvi di me Persefone, solo di me e delle mie parole, per nessun motivo al mondo oserei venir mento alle mie promesse”.
“Mi dispiace” aveva mormorato la dea in lacrime ma col cuore stranamente più leggero.
 
“Anche a me”.
 
Persefone l’aveva abbracciato con forza nascondendo il viso contro il suo petto.
 
Si era solo lavato, profumava di buono. Le era mancato sentirlo addosso.
 
Sciocca, sciocca Persefone.












L'Angolo di Avareil
Ciaooo a tutti! Risorgo dalle mie ceneri! Sono stata in viaggio e ho perso un sacco di tempo tra i preparativi alla partenza e la sistemazione al ritorno ehehe^^ Ma ora sono qui!
Spero che il capitolo vi piaccia, è un pò riflessivo/introspettivo ma era necessario ai fini della storia.
Grazie sempre a tutti coloro che mi seguono in questa meravigliosa follia.
Grazie a chi recensisce, grazie a chi mi segue e anche a chi semplicemente legge.
E... Io ve la sparo così: la storia esiste, la linea principale esiste ma...Perchè non lanciate qualche prompt? Nel senso, ho sempre amato poter parlare coi lettori per capire cosa si aspettano o meno quindi penso che sarebbe divertente riuscire a mettere sul tavolo anche qualche vostra fantasia se si presta alla storia!

Io sono qui ;)
A Presto 
Avareil

 
  
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