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Autore: l y r a _    23/10/2017    2 recensioni
Il secondo anno di liceo di Tooru Oikawa è un gran macello. Lo dice Hajime Iwaizumi, il suo migliore amico da una vita, e precisa che lo sarebbe stato un po’ meno se non avessero incontrato Sakurai e subìto tutte le sue complicazioni patologiche.
Il primo anno di liceo di Megumi Sakurai è un fallimento annunciato e lei è arrogante, ambiziosa e ha scrupoli quanti gli spiccioli nel suo portafogli: nessuno. Lo dice tutta Sendai ed è tutta la verità.
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[Oikawa/OC | UshiShira | Accenni OC/Ushijima | Perpetrato reato di canon/OC ]
Genere: Generale, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Kenjiro Shirabu, Nuovo personaggio, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 6

Sincronicità

La brezza del tardo pomeriggio in agosto, che soffiava piacevolmente nel cortile che ospitava il campo all’aperto, gli ricordava casa propria e quella rete di fortuna che avevano montato fra la gramigna sempre rinsecchita che infestava il terreno dietro le stalle del signor Sakurai. Accadeva spesso che il forte vento che spazzava di notte le campagne l’abbattesse e che la mattina seguente rimanessero delusi di trovarla molto lontana da dove sarebbe dovuta essere, ma si adoperavano sempre per ripararla alla men peggio e riprendere a giocarci in un baleno. Ai tempi, bastava questo a renderli felici: una palla ormai tutta scucita e sudicia, una rete in cui si erano aperti numerosi buchi, delle linee di fortuna tutte storte, tracciate nel terreno con ciò che avanzava della vernice azzurra di cui suo padre si serviva per dipingere le staccionate. Persino il cattivo odore che proveniva dalle stalle diventava sopportabile, come i sassolini nelle scarpe, i cerotti sulle ginocchia sbucciate, il continuo intromettersi nel gioco del cane dei vicini, che aveva scambiato la palla per un giocattolo da azzannare.
Ora la rete era diventata troppo bassa per entrambi, il campo troppo stretto, il cane dei Sakurai - pace alla sua anima - non c’era più. Ogni tanto tornavano dietro la stalla, immersi in un silenzio carico di parole non dette, e raffrontavano quello che erano con ciò che erano stati.
Sarebbe stata una menzogna affermare che l’amica non gli mancasse. Wakatoshi era certo di non averle fatto nessun torto e di non meritare la sua totale indifferenza per corridoi del liceo, sulle scale del dormitorio, nell’autobus che a weekend alternati li riportava a casa. Aveva provato a parlarle di nuovo, convinto com’era che si trattasse solo di un capriccio passeggero, che il tempo avrebbe cancellato autonomamente, ma non c’era stato verso di spuntarla.
Essendo queste le premesse, Shirabu era una benedizione: inizialmente aveva avuto l’impressione che il più giovane non avesse accettato di buon grado l’ingrato compito di fare da balia a Megumi, ma poi aveva dovuto ricredersi. Nelle esigue pause distribuite durante l’allenamento, il ragazzo si sedeva accanto a lui e rispondeva pazientemente alle sue domande, di tanto in tanto scostandosi la frangia dalla fronte sudata. Aveva un che di femmineo, di androgino che dir si voglia, conversava con una proprietà di linguaggio stupefacente, muoveva le mani sottili e bianche come le avrebbe mosse una ragazza. Era piacevole guardarlo, altrettanto ascoltarlo: la sua voce era tranquilla e soffice, come se anziché parlare stesse intonando una ninna nanna. A volte Wakatoshi finiva per perdere il filo del discorso, ipnotizzato da quei modi graziosi. Riuscì a comprendere che Shirabu si era personalmente occupato dell’insufficienza che Megumi si era buscata in fisica ed aveva provvisto spontaneamente ad aiutarla con il recupero, senza che lei opponesse alcuna resistenza. Il ragazzo riteneva che avesse buone possibilità di superare l’esame di riparazione fissato per il giorno successivo: era svogliata - aveva spiegato al compagno di squadra - ma non stupida.
«Non so come ringraziarti, Shirabu. Non pensavo che saresti riuscito a fare una cosa simile.»
Il ragazzo lasciò dondolare le gambe, troppo corte per toccare terra dal muretto su cui era seduto, e gli rivolse uno sguardo indecifrabile. “Mi offendi, senpai.”
«Non era mia intenzione.” precisò dispiaciuto “È che mi era sembrato, dal nostro primo colloquio, che non fossi affatto sicuro di cosa fare.»
«Hai ragione, ma alla fine l’ho fatto lo stesso.» convenne «Non volevo dirti di no.»
«Sei un ragazzo gentile.»
«Certo… Gentile.» ripeté con un’incomprensibile punta di amarezza nel tono di voce.
Per qualche minuto la loro conversazione fu interrotta dalle urla di Tendou, che – approfittando dell’assenza temporanea di Washijou – stava rincorrendo Semi tutt’intorno al campo. Da quanto aveva capito, il palleggiatore aveva rimediato un appuntamento con una del terzo anno, ma era determinato a non svelarne l’identità per nessun motivo al mondo e perciò Tendou si era indispettito. Diceva che non gli avrebbe dato credito se non gli avesse fatto un nome, ma non c’era modo di fargli sputare il rospo. Alle volte diventava difficile credere che fossero degli studenti delle superiori, finivano per comportarsi come ragazzini di prima media, ma – anche se era da poco stato nominato capitano –  non gli andava affatto di rimproverarli: in qualche modo, animavano l’atmosfera.
«Come ti sei trovato in questi mesi?» domandò a sorpresa a Shirabu, che fu colto alla sprovvista dalla domanda inattesa. Titubò qualche attimo prima di rispondere.
«Non posso dire di trovarmi male, talvolta c’è qualche attrito con Semi, ma per il resto va tutto bene. Volevo giocare in una squadra composta da giocatori forti e posso dirmi soddisfatto.»
Wakatoshi distese le labbra in un sorriso gentile, sorprendendo sé stesso ed il suo interlocutore: si trattava di una confidenza che non aveva mai concesso a nessuna delle sue nuove conoscenze.
«Ne sono felice» commentò col cuore più leggero «Sei sempre così quieto che non si riesce mai a capire cosa ti passi per la testa, per i primi tempi ho temuto che non ti stessi integrando.»
Il più giovane arrossì appena e scosse il capo energicamente.
«Sono fatto così, ma non significa che non mi stia integrando. Grazie per il pensiero, senpai
Anche Wakatoshi si stava trovando bene col nuovo alzatore: gli era straordinariamente devoto e rinunciava ad ogni pretesa di sfavillare in prima persona pur di servirgli delle palle che lui potesse maneggiare al meglio. Non si lamentava mai, accettava ogni giudizio ed ogni critica, addirittura quelle acidule dell’amareggiato Semi, e lavorava sempre sodo fino all’ultimo minuto di ogni allenamento. Diligente come pochi, lo si sarebbe potuto a diritto definire un secchione anche in campo, ma un secchione di quelli simpatici, che ti passano le risposte del compito in classe sotto il banco spontaneamente e senza chiederti nulla in cambio. Tentò di congratularsi con lui, ma non era abituato, perciò gli venne fuori solamente un goffo «Anche io mi trovo molto bene con te» che però al ragazzo sembrò bastare, dal momento che tirò le labbra in un sorriso emozionato.
~
Svegliarsi ogni mattina con l’ansia che potesse essere l’ultima, per Megumi, era da qualche giorno diventato normale, così come specchiarsi e scoprire dall’altra parte del vetro solo il fantasma di sé stessa, coi capelli spettinati e le occhiaie violacee per via della pessima qualità del sonno. Normale come i messaggi continui sul cellulare, come le telefonate insistenti ad ogni ora, come doversi guardare costantemente alle spalle quando per strada non c’era nessuno. Normale come il controproducente e giustificato senso di colpa che le dilaniava lo stomaco: con un solo bacio, era stata lei a dare il via a quella sventurata catena di eventi. Non importava quanto avesse tentato di rimediare, di giorno in giorno le sue sorti continuavano implacabilmente a peggiorare, spingendola a vivere nell’attesa che il peggio sopraggiungesse da un momento all’altro.
«Ti dispiace se entro anche io?» la voce acuta di Scoiattolo era perfino più fastidiosa del solito di prima mattina. Nel suo infantile pigiama a paperelle gialle, era comparsa impaziente sulla soglia del bagno appena la sveglia l’aveva buttata giù dal letto. Megumi le fece un cenno riluttante di assenso mentre con la spazzola tentava di sbrogliarsi i capelli, e l’altra si fece spazio accanto al lavandino, frugando nel portaspazzolino.
«Oggi è il gran giorno, no?» le domandò ancora assonnata «Inizia il primo turno delle eliminatorie.»
Scoiattolo annuì energicamente. La guardò spalmare una generosa dose di dentifricio sul proprio spazzolino. «Già, è arrivato il momento. Mi dispiace che tu non ci sia.»
«Non è più importante, ormai.» mentì Megumi. In realtà dispiaceva anche a lei, la squadra mista era divertente e armonica, ma le rincresceva di non poter più far parte di quella scolastica come tutte le ragazze normali facevano.
«Puoi venire a fare il tifo.» le propose Scoiattolo a bocca piena.
«Neanche per sogno.» replicò piccata.
«Mi chiedo se Ikeda invece verrà a vederci.» considerò quindi la compagna di stanza «Nonaka dice che non risponde nemmeno più al telefono.»
Megumi non ne sapeva nulla: aveva lasciato la perfida Ikeda a sputare sentenze sottorete sul suo straordinario piedistallo di cattiveria, oppure a camminare tutta tronfia con il braccio saldamente agganciato a quello del suo altrettanto simpatico fidanzato, venerato dall’intera popolazione femminile dell’istituto scolastico per le sue performance col club di basket.
«Cosa è successo ad Ikeda? Qualcuno le ha pestato la coda o le ha detto che l’eyeliner le si era sbavato?»
«Nobuhara l’ha piantata.»
«Che? Non ci credo, stavano insieme dalle medie! Perché l’avrebbe lasciata?»
«Non lo sa nessuno. Comunque da quando è successo ha dato forfait al club e non si è fatta più vedere, la settimana prima delle vacanze ha perfino marinato la scuola e si è rinchiusa in casa. Se l’è potuto permettere perché non sta ai dormitori, immagino… Se lo avessimo fatto noi, il preside sarebbe venuto a prelevarci personalmente e ci avrebbe trascinate di peso in classe.»
«La fortuna di abitare a Sendai, noi provinciali non possiamo comprenderla.» considerò dopo aver rimesso a posto la spazzola.
«Vieni a vederci almeno tu, non fare finta che non te ne importi nulla.»
«Non posso venire a vedervi, ho l’esame di recupero alle dieci e Shirabu mi vuole lì alle nove, per assicurarsi che io faccia un bel ripasso finale.» spiegò lasciando il bagno libero alla compagna «Mi domando per quale motivo abbia preso tanto a cuore la questione, fino al mese scorso non mi salutava nemmeno. Una volta gli ho chiesto se potesse prestarmi il temperamatite e mi ha risposto che non ne aveva, invece ne aveva due.»
Scoiattolo prese a ridere dall’altra stanza. «Non è il palleggiatore nuovo del club maschile? Com’è questa storia che attrai i palleggiatori?»
«Non ha una cotta per me!» puntualizzò Megumi «E comunque è colpa tua se Oikawa mi si è attaccato, gli hai dato troppe indicazioni. Adesso devo fare i conti con ben due stalker.» si lasciò sfuggire mentre perlustrava il mucchio di abiti che si era accumulato sulla sua sedia, alla ricerca del cravattino della divisa scolastica.
«Due?»
Scoiattolo fece capolino dal bagno e le rivolse uno sguardo preoccupato. Megumi capì subito di essersi involontariamente esposta troppo e cercò di inventarsi una giustificazione sensata, ma senza successo. «Volevo dire… nell’eventualità che anche Shirabu…»
«Sakurai, chi è lo stalker di cui parli? Oikawa è appiccicoso, ma innocuo.»
«Facevo per dire, era un’iperbole… non ho nessuno stalker!» ritrattò.
«Perché se ne avessi uno si spiegherebbero tante cose. Le telefonate nel cuore della notte, per esempio.»
I nervi di Megumi erano tesi al massimo. Era convinta che Scoiattolo non si fosse mai accorta delle chiamate notturne di Hattori, aveva giudicato il suono della vibrazione troppo flebile per essere udito. Si sforzò di adoperare al meglio le proprie doti recitative.
«Io non ricevo chiamate notturne, cosa dici?»
«Ovvio! Ora non le ricevi più perché hai preso l’abitudine di spegnere il telefono prima di andare a dormire, ma un paio di mesi fa il tuo telefono squillava almeno una volta durante la notte!»
Aveva decisamente sottovalutato la propria compagna di stanza. Sembrava un’ingenuotta, nei suoi outfit color pastello e con i suoi capelli da cartone animato, quando invece era più sveglia di quanto si aspettasse. E pensare che la settimana prima si era quasi decisa a parlarne con lei! Approntò una scusa quanto più credibile possibile ed improvvisò una risata tesa.
«Quella era mia sorella, che si divertiva a farmi degli scherzi!» inventò «Quindi puoi stare tranquilla, non c’è nessun maniaco che mi dà la caccia.»
«Se non c’è nessun maniaco, perché mi hai proibito di parlare a chiunque di cosa fai?»
«Perché mi dà fastidio che si spettegoli su di me.» improvvisò. Scoiattolo spalancò gli occhi, per niente convinta dalla sua scusa.
«D’accordo, è solo un fan un po’ insistente.» finse di confessare «Uno di quei nerd occhialuti, brufolosi e ingobbiti che ti scatta foto di nascosto durante le partite, nulla di ingestibile.»
«Guarda che queste persone diventano pericolose da un giorno all’altro! Dovresti parlarne al coach, anzi, sarebbe meglio al preside… Se non lo fai tu, lo farò io.»
Megumi rabbrividì: se la storia fosse giunta alle orecchie del preside, sarebbe stata chiamata a risponderne direttamente ed era certa che la sua storiella dell’ammiratore insistente non avrebbe retto ad ulteriori approfondimenti, né sarebbe stato utile incolpare una persona innocente. Se poi avesse raccontato la verità ed accusato Hattori, questi si sarebbe fatto la propria ragione esattamente come poche settimane prima aveva fatto in presenza del professor Ayase.
«Tu fatti gli affari tuoi, Scoiattolo. Se le cose dovessero peggiorare, valuterò cosa fare.»
«Grazie, Hiromi! Sei gentile a preoccuparti per me, Hiromi!» cantilenò la compagna di stanza gesticolando con veemenza «Anche quando sembri esserti calmata, scopro sempre che sei rimasta insopportabile come al solito.»
«Tu invece oggi non t’innervosisci come al solito.»
«Non voglio rovinare il mio umore pre-competizione.» annunciò con semplicità «E poi ho una proposta da farti: io non riferirò al preside del tuo “fan insistente” se tu in cambio verrai a vedere almeno una partita della giornata, va bene anche la seconda, così hai il tempo di terminare l’esame di riparazione.»
«Non sai nemmeno se riuscirete a vincere la prima.» ribatté Megumi perplessa.
«La vincerò apposta per permetterti di venire a vederci.»
«E dimmi, come faresti ad essere certa che io sia fra gli spettatori? Potrei dirti una bugia e tu ci crederesti, il tuo piano fa acqua da tutte le parti.»
«E qui ti sbagli! Dovrai sederti nella seconda fila del settore D, tanto non ci va mai nessuno. Se non sarai lì, vuol dire che non sei venuta a vederci.» spiegò orgogliosa del suo colpo di genio.
«Mi spieghi perché t’importa tanto che io venga a vedervi? Cosa vuoi ottenere?»
«Può essere che ti torni la voglia di giocare con noi, spero sempre che tu cambi idea.» ammise con candore.
«È un ricatto bello e buono, e comunque non otterrai niente, lo sai?»
«Non sono una che si arrende. E sotto sotto neanche tu.»
«Prometti che non ne farai parola con nessuno?» si accertò ulteriormente.
«Prometto: se vieni a vederci, non lo dirò a nessuno… Parola di scoiattolo!»
«Vengo, però non chiedermi di avvicinarmi o di fare conversazione con le altre o con Hattori.» concordò rassegnata «E, per piacere, non dire al coach che sono lì.»
Tesa al centro e veloci classiche, lo schema di Kurihara era rimasto ridotto come lo aveva lasciato. Era così chiaro che le avversarie avessero familiarizzato col ritmo che ormai lo Shiratorizawa segnava qualche punto solo quando Yoshida tornava in prima linea. Era penoso guardarle incassare un punto dopo l’altro, soprattutto se Scoiattolo si sforzava di rimettere in gioco delle palle che nessuno si degnava di sfruttare bene. Fra l’altro, le parve che in battuta fossero quasi tutte calate drasticamente: ricordava che Chigusa non fosse affatto male ed invece aveva colpito la rete un paio di volte. Sentì una fitta di compassione per la propria compagna di stanza, che, dopo essersi tuffata nella propria metà del campo per tre set, non risparmiandosi di balzare in mezzo agli spettatori per recuperare palle impossibili, si ritrovò con in mano un pugno di mosche ed una sconfitta 2-1. Incrociò il suo sguardo deluso durante l’inchino finale, e strinse le spalle abbozzando quello che voleva essere un sorriso solidale. Scoiattolo ne parve lievemente confortata e le fece cenno con il capo, come per chiederle se si sarebbero viste più tardi. Stava per comunicarle che avrebbe potuto raggiungerla dopo, ma fece appena in tempo ad accorgersene: Hattori la non era più seduto in panchina dove l’aveva lasciato. Colta dall’atroce dubbio che avesse potuto notarla dalla sua posizione, si sentì raggelare e scattò rapidamente in piedi, sgomitò fra la folla in uscita dalla tribuna per poter correre fuori il prima possibile. Urtò un paio di persone nel processo, ma sgattaiolò dall’uscio in tutta fretta, sorpassò Oikawa che, notandola, aveva già alzato la mano per salutarla. Ridiscese le scale controllando che alle spalle non ci fosse nessuno e controllò l’orologio al polso. Poteva farcela: se anche Hattori l’avesse vista durante la partita, Megumi avrebbe raggiunto Tomizawa prima ancora che lui potesse trovarla, e sul treno sarebbe stata al sicuro da ogni molestia. La stradina privata che tagliava la zona residenziale le avrebbe permesso di accorciare il percorso quanto bastava per seminarlo, a patto però di attraversare il parco adiacente al centro sportivo, una strada meno battuta ma più breve di quella consueta. Era straordinario come in un paio di mesi le giornate si fossero già accorciate: il sole rosseggiava già al di là del ponte e si stava già levando il venticello freddo della sera. L’aria limpida di giugno e l’arsura di luglio le parevano dei ricordi vaghi e lontani, ed era difficile credere che l’estate stesse giungendo al termine: tra l’esame di recupero di fisica, il lavoro, la nuova squadra e la faccenda di Hattori, le sembrava che la cerimonia di apertura dell’anno scolastico fosse avvenuta il giorno prima anziché in aprile. A passo svelto svoltò in direzione della vecchia galleria che probabilmente ormai erano rimasti in pochi ad usare, da quando il quartiere vicino era stato ristrutturato, ma che rimaneva un’eccellente scorciatoia per raggiungere il ponte, nonostante il topo che qualche sera prima lei e Oikawa vi avevano scoperto. Megumi non aveva paura dei topi, in campagna ne aveva visti fin troppi. Per spaventarla c’era bisogno di ben altro.
Ebbene, quel ben altro l’attendeva allo sbocco del tunnel, appoggiato ad un pilastro annerito dall’umidità che risaliva dal fiume, scuoteva il capo con aria appagata, lieto di essere riuscito a prevederla.
«Una ragazzina come te non dovrebbe tagliare per la galleria, a meno che non sia in cerca di guai.» esordì Hattori avanzando di qualche passo in sua direzione. Il primo istinto di Megumi, i cui sensi iniziavano già ad essere intorpiditi dalla paura, fu di irrigidirsi, poi di arretrare inutilmente di qualche passo.
«Ti starai chiedendo come io potessi sapere che avresti evitato la strada principale, non è così?»
«Mi sto anche chiedendo come lei sia potuto arrivare prima di me.» mormorò con la voce che già tremava. Se fosse scappata via ripercorrendo i propri passi sarebbe stata raggiunta? Quanto prudente poteva essere voltare le spalle all’ex-allenatore e correre in direzione opposta?
Hattori scoprì i propri denti ingialliti nella sua abituale smorfia maliziosa, gettò a terra il mozzicone di sigaretta che teneva fra le dita e si curò di schiacciarlo con un piede per spegnerlo meglio.
«Ti ho vista appena sei entrata, sapevo che ti saresti dileguata subito dopo la partita. Ho sperato fino alla fine che quelle sei impedite perdessero l’ultimo set in fretta. Per un attimo ho temuto che sarebbero rimontate e sarei dovuto rimanere con loro fino all’incontro successivo, ma poi – per fortuna – Hiromi ha mancato la ricezione.»
Per qualche istante, la paura cedette il passo alla rabbia. Ripensò agli sforzi di Scoiattolo, alla tristezza con cui l’aveva salutata. «Come può parlare così della sua squadra?»
«È un lavoro come un altro, Megumi.» spiegò con disinvoltura l’uomo «I primi tempi, non volevo accettare. Ma mia moglie ha insistito, diceva che avevamo bisogno di denaro, e alla fine ho preso una decisione. Allenare un branco di ragazzine montate e prive di potenziale non rientrava nelle mie aspirazioni ma mi ero rassegnato a ripetere ogni giorno una mansione per me priva di qualsiasi interesse. Poi ho visto te: così giovane e così talentuosa, bella quanto determinata, ingenua quanto ambiziosa. In men che non si dica sei diventata tutto quel che contava, mi hai dato una ragione per continuare.»
Megumi rabbrividì, strinse i pugni tremanti. «Lei è anche più spregevole di quello che pensassi.»
«Puoi smettere di recitare: se tu non avessi provato lo stesso per me non mi avresti mai acconsentito di baciarmi così in fretta, morivi dalla voglia.»
«L’ho fatto solamente perché volevo quel posto in squadra, è stato lei a costringermi!» replicò turbata. Come poteva essere giunto ad una conclusione tanto inverosimile e non vedere le vere ragioni dietro le sue mosse?
«E poi mi hai baciato ancora, ti sei lasciata toccare…» continuò andandole incontro per qualche altro passo, le braccia aperte come se si aspettasse che lei corresse ad abbracciarlo «Allora perché adesso mi sfuggi, perché hai messo in piedi tutta questa farsa?»
«Perché» ribatté tentando di sopraffare il groppo in gola «era lei ad obbligarmi a farlo! Non si rende conto di avermi ricattata? Continua a minacciarmi di rovinarmi la carriera! Lo scrive in tutti i messaggi e me lo ripete in tutte le chiamate! I bigliettini minatori nell’armadietto delle scarpe? Mi ha anche picchiata!»
Hattori parve per un momento turbato, prima di ricomporsi. «Ti stavo solo dando una mano a realizzare quale fosse il tuo vero posto, quali fossero i tuoi veri sentimenti.» dichiarò con un sorriso.
«Se si avvicina di un altro passo mi metto a gridare!» lo avvertì.
«Eccome se griderai, ragazzina» annunciò criptico «Ma non potrà sentirti nessuno, sei stata tu a scegliere di tagliare per una scorciatoia così desolata. Io stesso non avrei mai immaginato che tu decidessi di percorrere una strada simile, se non ti avessi vista farlo negli ultimi tempi con quel bellimbusto che stai frequentando. È il secondo con cui ti vedo, quanti nei hai? Perché ti diverti a spezzarmi il cuore così, Megumi?»
L’epiteto di bellimbusto si addiceva ad Oikawa più di quanto lo facesse qualsiasi altra definizione al mondo ed ebbe la certezza che Hattori li aveva tenuti d’occhio e seguiti come immaginava. Se non altro, questo diversivo aveva distolto l’attenzione del coach da Wakatoshi.
«Sono solo amici» chiarì per l’ennesima volta.
«O forse anche tu sei una zoccoletta come tutte quelle della tua età.» ringhiò infastidito «Cosa hai fatto l’altra sera per tutto quel tempo qui sotto con quello lì? Pensi che non abbia capito che vi siete appartati? Ero convinto di essere stato chiaro con te!»
La ragazza intuì che il coach si riferiva alla sera in cui avevano trovato il topo lungo la strada ed erano rimasti al buio lì sotto qualche minuto in più a cercare di capire cosa avesse toccato il piede di Oikawa usando la torcia del cellulare, perché l’altro non faceva altro che strillare spaventato “Si muoveva! Si muoveva!
«Lei fa troppi voli di fantasia! Le ripeto che è solo un amico, un conoscente!»
«Com’è che con me fai sempre la ritrosa quando invece sei così libertina da fartela anche coi semplici conoscenti?»
«Io non ho mai fatto niente con nessuno!» protestò esasperata. Hattori era ormai a pochi passi da lei, senza pensarci due volte fece la cosa più stupida che avrebbe potuto: girò sui tacchi e fece per lanciarsi in corsa fuori dalla galleria. Non ebbe il tempo di fare neanche un metro, Hattori l’afferrò per un braccio senza alcuna gentilezza e la costrinse con la faccia poggiata al pilastro più vicino. Le si spalmò dietro ed infilò una mano su per la sua maglietta, fino a palparle prepotentemente il seno, mentre con l’altra le impediva di sfuggire via. «Perché non controlliamo, se è così?» le sussurrò nell’orecchio.
Megumi era terrorizzata, ma tentò in tutti i modi di dimenarsi, pur dovendo scoprire con terrore che la stazza considerevole dell’uomo, più adulto e robusto di lei, non le avrebbe mai lasciato scampo. Chiamò aiuto con quanto più fiato aveva in gola, ma Hattori aveva ragione quando aveva detto che mai nessuno l’avrebbe udita. Quando le mani dell’uomo scivolarono sulla zip dei suoi pantaloni, forse minuti dopo o forse ore, aveva completamente perso consapevolezza di sé: non riusciva più a muoversi, a reagire o quantomeno a pensare. Desiderava solo che tutto iniziasse e finisse in fretta. Realizzò di star tremando solamente quando Hattori tentò quella che per lui doveva essere una rassicurazione: «Se è vero quello che dici, farà male solo all’inizio, vedrai.»
Servì a farle recuperare lucidità tutto d’un tratto, sgomitò d’improvviso costringendolo ad esitare. Approfittò per voltarsi e sottrarsi a quella posizione così sfavorevole per lei, ma l’altro le fu subito addosso, schiacciandola questa volta con le spalle al muro e strappandole con la forza un bacio che non avrebbe mai voluto concedergli. Gridò ancora e ancora, inascoltata.
«Perché fai così?» le domandò come se davvero non riuscisse a capire, o forse non si rendeva realmente conto che Megumi non fosse affatto d’accordo con quello che voleva fare. «Mi sei mancata così tanto in questi ultimi mesi, cosa ti costa accontentarmi? Anche tu lo vuoi…»
«Piuttosto» sibilò disgustata, gli occhi che si erano inumiditi in un momento che non riusciva a definire «Preferirei morire!»
Per la prima volta Hattori esitò di sua volontà. Sul suo volto lo stupore sostituì il desiderio e poi la rabbia sostituì lo stupore, finché alla fine la spietatezza non sostituì la rabbia.
«Vogliamo vedere se è davvero quello che preferisci?» avvolse le mani grandi e ruvide attorno al collo della ragazza e strinse finché lei non fu più in grado di respirare. Forse, considerò mentre la vista si sfocava ed il senso di vertigine prendeva il sopravvento, terminare quella vicenda in quella maniera era la cosa migliore: avrebbe chiuso gli occhi, si sarebbe lasciata tutto alle spalle e non li avrebbe riaperti più. Probabilmente avrebbe dovuto pensarci prima, si sarebbe risparmiata un sacco di grane, un sacco di bugie raccontate a Wakatoshi e ai suoi genitori, un sacco di sofferenza.
Poi, quando la sua coscienza era ormai ridotta ad un esile filo pronto a spezzarsi, Hattori mollò la presa d’improvviso.
~
A Tooru proprio non era andato giù che Sakurai l’avesse ignorato sulle scale. Era umiliante perché da settimane raccontava tutto orgoglioso ai suoi amici le passeggiate che condividevano insieme di ritorno dall’allenamento, suggerendo che fossero entrati in maggiore confidenza. Ora Matsukawa e gli altri ridevano sguaiatamente come se avessero ascoltato una barzelletta. E poi, in quell’attimo in cui i loro occhi si erano incrociati, era sicuro di averne scorto le pupille dilatate e il viso più pallido che mai. Perciò le era corso dietro dopo tre interi minuti di esitazione, in cui Iwaizumi aveva fatto di tutto per rincuorarlo. Quando riuscì a intravederne la sagoma, erano nei pressi di quella che da giorni convenivano nel chiamare “La galleria del topo”, tentò di chiamarla ma lei non si accorse affatto di lui. La rincorse all’interno del tunnel, buio già nel tardo pomeriggio, ma dovette fermarsi quando la udì parlare con qualcuno. Si sistemò a qualche metro di distanza, abilmente nascosto dietro uno dei pilastri che correvano lungo tutta la galleria. Si sporse abbastanza da riconoscere con un sussulto la figura di Hattori nel suo interlocutore, illuminata dalla luce gialla che a intermittenza rischiarava flebilmente il tunnel. Nutrendo ancora il dubbio che questi fosse la causa dell’apatia di Sakurai, la sua mano destra corse quasi inconsciamente alla tasca della felpa e le sue dita si richiusero attorno al cellulare, quando prese ad ascoltare le prime battute della conversazione: il senso era chiaro, ma alcune parole risultavano difficili da comprendere e sarebbe potuto essere utile ascoltarle più tardi. Pigiò il tasto per avviare la registrazione audio e rimase in attesa, spiando di tanto in tanto quello che accadeva dal suo nascondiglio.
Sperò fin da subito di aver interpretato male qualcosa, che la realtà non superasse la fantasia, che le cose non stessero peggio di quanto aveva ipotizzato. Apprese che c’era stato un evento scatenante, qualcosa che aveva dato inizio a tutto, un bacio barattato con un posto in squadra, sottratto con la forza. Comprese che Hattori era un individuo totalmente scellerato, che aveva allungato le mani su una sedicenne ricattandola senza alcuno scrupolo: era malato, da richiudere. Ad ogni replica il mistero si diradava di più: Sakurai aveva ricevuto messaggi, chiamate, biglietti pieni di minacce. Non c’era da meravigliarsi che si guardasse continuamente le spalle e che apparisse sempre all’erta. Era ovvio che avesse lasciato il club per non avere più a che fare con lui, piuttosto che per presunti contrasti con le sue compagne di squadra. Ad un certo punto iniziò a temere per sé stesso, quando sentì Hattori riferirsi indirettamente a lui. La udì urlare, chiamare aiuto, e quando si decise a sporgersi per guardare, Hattori la teneva inchiodata ad un pilastro, schiacciato su di lei mentre armeggiava frettolosamente con la cintura dei propri pantaloni. Sembrava che la ragazza avesse smesso di lottare, e Tooru era pronto ad intervenire, ma improvvisamente si ridestò e riuscì a scrollarselo di dosso mentre lui tornava a nascondersi dietro il muro.
Seguirono ulteriori grida, affermazioni pesanti. Sakurai strillò che avrebbe preferito morire piuttosto che concedersi a lui e lui replicò qualcosa in tono di sfida. Alla fine calò un silenzio inaspettato, tale che Tooru si risolse a sbirciare di nuovo e non poté – questa volta – fare a meno di intromettersi.
«Allontanati immediatamente da lei!» ordinò balzando fuori dal suo nascondiglio, la sua voce incerta riecheggiò per alcuni istanti per la galleria. Hattori si irrigidì, poi lasciò andare la gola di Sakurai che – semi incosciente – si accasciò a terra tossendo ripetutamente, e si allontanò da lei.
Tooru si precipitò ad accertarsi come stesse, prima ancora di preoccuparsi del suo aggressore. Si accovacciò accanto a lei e cercò di riscuoterla dal suo stato di trance, ma era probabile che lei non l’avesse neanche riconosciuto, assente com’era.
«Gumi-chan, mi senti?» tentò preoccupato per l’ennesima volta, senza ricevere alcuna risposta se non uno sguardo stanco e vacuo.
Hattori lo fissava impalato, incerto sul da dirsi o da farsi. Avrebbe potuto darsela a gambe, colto con le mani nel sacco, ma invece rimase a guardarli, i denti stretti per la gelosia.
«Risparmiati le giustificazioni stravaganti.» tagliò corto Tooru non appena quello ebbe iniziato a boccheggiare delle scuse assolutamente inutili «Ho visto tutto, con i miei occhi! So qual è la verità, ho registrato col cellulare ciò che vi siete detti! Ho abbastanza materiale per farti finire al fresco per un bel po’ di tempo!»
Sakurai stava intanto riprendendo conoscenza. Quando tornò a guardarla, lei spalancò gli occhi allarmata, come se avesse visto un fantasma. «Non devi stare qui…» tossì faticosamente, il tono della voce quasi inudibile «Lui ti…»
Ma la voce grave e seriosa di Hattori sovrastò il sussurro della ragazza:
«Dammi il cellulare, ragazzo. Quella registrazione può danneggiare la mia reputazione.»
Quell’affermazione lo incendiò di collera: curioso, da parte di uno deciso ad ostacolare e distruggere la carriera sportiva di un giovane talento come Sakurai, che volesse invece risparmiare la sua, come se meritasse di godersela.
«Puoi scordartelo! Ti farò arrestare!»
Sakurai strinse appena la presa sulla sua felpa. «Idiota, non dovevi!» lo rimproverò, sebbene ancora incapace di parlare agevolmente. Ma lui si era già rialzato ed aveva assunto l’aria più intimidatoria che gli riuscisse, col petto gonfio e lo sguardo fiero. Certo, ebbe un momento di sconforto quando si rese conto che Hattori era più alto e robusto di lui, ma non ebbe il tempo di crucciarsene oltre: il primo pugno, quello diretto al volto, lo schivò a malapena, a differenza del secondo, che lo centrò in pieno nello stomaco e lo spedì sull’asfalto. La prima sensazione che provò, oltre il dolore atroce all’addome, attorno al quale avvolse le braccia, fu quella di poter vomitare da un momento all’altro. Soltanto dopo giunse la scarica di adrenalina ed il senso di vertigine. Ebbe la lucidità di allungare un braccio mano dietro di sé mentre crollava per terra, così da attutire la caduta col gomito. Il cellulare, che ancora registrava, roteò in aria disegnando una parabola ed atterrò distante da lui. Mentre si contorceva a terra per il dolore si rimproverò di essere stato così impulsivo. Iwaizumi glielo diceva sempre: “Con le risse fai schifo, lascia fare a me se vuoi picchiare qualcuno.
Era certo che Hattori si sarebbe ulteriormente accanito su di lui: lo avrebbe forse pestato fino alla morte? Non era improbabile che volesse sbarazzarsi di ogni testimonianza del suo crimine. Si chiese se davvero fosse valsa la pena di cacciarsi in quel guaio per una ragazza che non si curava affatto di lui. Udì un tonfo secco e schiuse appena gli occhi per distinguere Sakurai pararsi davanti a lui per difenderlo, ripetendo febbrilmente che non c’entrava nulla e di lasciarlo stare. Hattori, tuttavia, non pareva voler sentire ragioni. La prese per i capelli e la strattonò nuovamente a terra e nel processo prese una bella botta alla tempia, ma si rimise subito in piedi. Con una determinazione ammirevole, cercò di costringerlo ad allontanarsi da Tooru ma l’uomo non si fece scrupoli nel colpirla al viso.
Barcollando sulle proprie gambe e sforzandosi di ignorare il senso di nausea e di vertigine, Tooru si rialzò per impedire che infierisse ancora su di lei. Non era affatto sicuro che ne sarebbero usciti vivi, ma non intendeva lasciarci le penne senza opporre la minima resistenza. Nel vederlo ancora attivo Hattori s’infuriò ulteriormente e il ragazzo finì per prendersi l’ennesimo pugno, questa volta diretto con successo sul volto.
«Ho detto che non c’entra niente!»
Con un ultimo, disperato ruggito, Sakurai scattò su Hattori così rapidamente da non riuscire a distinguerla, un attimo dopo Hattori arretrava con le mani sul naso e gli occhi serrati per il dolore. C’era del sangue ovunque: sulle mani e sugli abiti dell’aggressore, sulla maglietta di Sakurai e sulla sua faccia. Animata da uno straordinario spirito di sopravvivenza e approfittando degli effetti che il suo efficace pugno sul naso aveva prodotto su Hattori, prese con la mano gelida Tooru per un polso e lo aiutò a rimettersi in piedi. Aveva male ovunque, e il senso di nausea causato dal colpo preso allo stomaco non accennava a diminuire, perciò non aveva idea di come avesse fatto, in quelle condizioni, a lasciarsi trascinare di corsa fuori dalla galleria, chinandosi solo un attimo per raccogliere da terra il proprio cellulare contenente la preziosa registrazione. I polmoni protestavano, così come ogni singolo muscolo del suo corpo, e non ebbe la forza né il coraggio di dirle qualcosa. Era sorprendente che lei avesse avuto la lucidità di reagire e di creare un diversivo, nonostante la presa tremante sulla manica della sua felpa tradisse quanto fosse scossa. Arrancò dietro di lei, il cellulare stretto in mano, attraverso il parco per evitare i semafori: era indubbio che nutrisse la speranza di seminare Hattori salendo sul primo treno disponibile sulla linea metropolitana. Respirare era difficile come non mai, ma non potevano permettersi di rallentare. Aveva smesso di chiedersi quanto tempo fosse passato, se i suoi compagni e Mizoguchi si fossero preoccupati non vedendolo tornare. Solo quando ebbero sorpassato l’atrio della stazione di Tomizawa, il ragazzo piantò con forza i talloni sul pavimento lucido, impedendo a Sakurai di proseguire oltre.
«Cosa fai?» protestò con urgenza «Dobbiamo andarcene il più lontano…»
Tooru la interruppe subito.
«Non pensare che se tornerai a scuola sarà come se niente fosse successo. Se torni a scuola ora, anzi, non ti libererai mai di lui, s’indispettirà ancora di più. Lo sai?»
Sakurai tentennò, angosciata. Era scontato che si vergognasse di raccontare quello che le era accaduto ed era ancora profondamente turbata per il pericolo che aveva corso soltanto qualche minuto prima. L’adrenalina doveva scorrere copiosa nelle sue vene, la mano che gli stringeva il braccio era gelida e tremava forte, in volto era pallida come un cencio.
«Dimentica quello che hai visto» bisbigliò sconvolta «Cancella quella registrazione, non parlarne con nessuno.»
«Non posso.» si oppose con fermezza «E non voglio.»
«Questa faccenda non ti riguarda minimamente, non ti permetto di intrometterti!»
«Bel modo di ringraziare quello che ti ha salvato la vita!»
«E se invece avessi desiderato morire?» domandò angosciata.
«Sarebbe stato terribile.» replicò duramente. Orrendo davvero, che una ragazza tanto giovane fosse giunta a valutare una soluzione tanto estrema a causa di un maiale simile.
«Ma poi perché eri proprio lì, proprio in quel momento? Ti avevo lasciato sui gradini all’ingresso con la tua scuola, e poi di colpo eri nella galleria! E perché ti sei messo a registrare una discussione che non aveva nulla a che fare con te?»
Un paio di persone stranite si voltarono a guardarli mentre si dirigevano di fretta ai binari, una signora sussurrò qualcosa all’orecchio di suo marito. Non c’era da stupirsene, erano entrambi ridotti in uno stato pietoso: Tooru doveva essere verdognolo in viso e, a giudicare dal sapore metallico che avvertiva sulle labbra, forse ne aveva uno spaccato. Una manica della felpa si era strappata in corrispondenza del gomito che si era sbucciato quando era strisciato sull’asfalto. Sakurai, dal canto suo, non era ridotta meglio: sull’occhio sinistro le si stava spandendo un grosso livido e, sulla parte del collo che la maglietta lasciava scoperta, erano comparsi i segni delle dita di Hattori. La sua mano destra era sporca del sangue che l’aggressore aveva perso quando lei gli aveva colpito il naso (e sperò ardentemente che gliel’avesse rotto) e forse le stava sanguinando un sopracciglio.
«Mi sei sembrata molto spaventata, sulle scale. Non mi hai neanche salutato.» ammise francamente «Ti ho seguita perché ho pensato che potesse esserti accaduto qualcosa di brutto, anche se non immaginavo questo. Tuttavia, Gumi-chan, io sospettavo già di Hattori, perciò ho preso il telefono.»
«Non te lo aveva chiesto nessuno!»
«Ma non potevo stare a guardare mentre una ragazza viene stuprata o strangolata da un maniaco e, se non fossi venuto ad aiutarti, di certo avrei qualche livido in meno ma tu non staresti qui a parlare con me. Quindi ora rendi il favore a chi ti ha salvato la vita.» dichiarò, puntando il dito verso il piccolo gabbiotto della polizia situato in fondo all’atrio della stazione. Omise volontariamente, per permettere al proprio ragionamento di filare con coerenza, la parte in cui lei si era precipitata a difenderlo, ripagando già de facto il suo aiuto. Ma Sakurai era troppo confusa, non ci fece affatto caso, si limitò a scuotere il capo lentamente, orripilata.
«Non posso farlo, capisci? Sono stata io ad iniziare!»
«No che non sei stata tu. È stato lui a creare le condizioni perché tu facessi quello che hai fatto.»
«Quello che conta è che alla fine l’ho fatto!»
«Ho la sensazione che sia stato lui a convincerti che le cose stiano così. Eppure non è vero, è tua solo una piccola parte della colpa. D’accordo! Devo renderti atto che non ne sei totalmente esente, ma è stato lui dopo a marciarci sopra!»
«La polizia» lo rimbeccò l’altra sfinita «avvertirà i miei genitori, riferirà loro tutto! Come pensi che potrebbero capire? Cosa penserebbero di me?»
«Non conosco i tuoi genitori, ma dubito che si schiererebbero contro di te. Dovrai aspettarti una ramanzina per essere stata ingenua e per non aver raccontato loro cosa stava accadendo, ma nessuna madre o padre colpevolizzerebbe una figlia che è incappata in un tale guaio, a meno che non siano ingiustamente crudeli con te. Sono così?»
«Assolutamente no.» mormorò «Ma ne parleranno tutti… il mio nome sarà sulla bocca di tutti…»
«E perché t’importa tanto? Se ne discuterà? Bene, tanto di guadagnato: un’altra ragazza imparerà la lezione ascoltando la tua esperienza. Se tu l’avessi saputo prima, non saresti mai caduta nel tranello.»
La ragazza avrebbe voluto protestare qualcos’altro, sbatté più volte le palpebre nel tentativo di trattenere il pianto imminente, ma non riuscì ad aggiungere altro: un giovane agente di polizia, probabilmente allertato da uno dei passanti, si appressò a loro con aria preoccupata. Domandò ai due cosa fosse successo e come si fossero fatti tanto male. Sakurai scoccò a Tooru uno sguardo supplice, implorandolo silenziosamente di improvvisare una scusa, ma il ragazzo scosse lentamente il capo.
«Puoi fermarlo.» la incoraggiò «Possiamo fermarlo, fargliela pagare.»
Era combattuta, alternava momenti in cui evitava il suo sguardo ad altri in cui lo cercava. Non sapeva che altro dirle per convincerla, ma desiderava con tutto il suo cuore che prendesse di nuovo in mano la propria vita. Se non l’avesse fatto, avrebbe voluto dire che Hattori, nonostante i suoi sforzi, era riuscito in qualche modo ad ottenere quello che si era proposto dall’inizio ed era stato in grado di porre comunque un freno alla sua nascente carriera.
Infine abbassò gli occhi al pavimento e ammise riluttante:
«È una lunga storia.»
~
Il resto della serata lo avrebbe ricordato appena, come un sogno di cui si rammentano appena i tratti salienti: sua madre che le teneva la mano mentre un medico del pronto soccorso le metteva due punti di sutura sul sopracciglio, lei che si chiedeva se le sarebbe rimasta la cicatrice, suo padre che discuteva animosamente nel corridoio con due poliziotti, Oikawa che aveva vomitato in sala d’attesa per via del pugno allo stomaco, un ragazzo più grande seduto accanto a lui gli faceva una predica di cui lei non distingueva le parole. Non conservava invece nessun ricordo – né vago, né chiaro – di quanto avesse raccontato in centrale: sapeva solo che ad un certo punto aveva iniziato a piangere e non era riuscita a fermarsi.
Poi si era infilata nel pick-up di suo padre e si era risvegliata nella sua cameretta a Minamisaka.
Himeka dormiva beata nel letto accanto, una scenetta quotidiana che suggeriva che il tutto fosse stato solo un lucido incubo. Forse – considerò pacatamente – non si era mai iscritta al liceo Shiratorizawa, non aveva mai avuto un vicino di banco secchione, né come compagna di squadra Scoiattolo della scuola media Hanazono e questa non si era mai tinta i capelli di rosa. Non aveva frequentato lo stesso liceo di Wakatoshi ed aveva smesso di vederlo tutti i giorni dall’anno precedente, godendosi solo le sue brevi visite nel weekend. Poteva essere che si fosse iscritta al piccolo istituto superiore del suo paesino di campagna, che non avesse mai conosciuto nessun Hattori e dunque non avesse mai subito nessun sopruso. Se tutto fosse stato solo un incubo ben strutturato, ne sarebbe stata molto felice.
Però poi si ricordò del dolore pungente al sopracciglio, all’occhio e ad ogni parte del corpo. Il cuore riprese a martellarle in petto, gli occhi si inumidirono ancora. Con le dita sfiorò il cerotto con cui le avevano medicato la fronte e, avvertendo un lieve fitta al solo sfiorarlo, realizzò che non era affatto stato un semplice brutto sogno.
Quanto aveva dormito? La sveglia sul comodino di Himeka segnava le dieci del mattino, perciò si mise seduta a fatica. Si lasciò sfuggire un lamento sommesso quando si puntellò su una spalla dolorante, ma la sua sorellina si limitò a rigirarsi dall’altro lato brontolando qualcosa di indistinguibile. Era confortante che, in un mondo dove tutto si era capovolto, lei fosse rimasta la stessa di sempre. Incespicò apatica sugli assi di legno del corridoio che girava tutt’intorno all’esterno della casa[1]. Il sole di campagna rendeva ogni passo piacevole sotto i piedi nudi. Fece scorrere il pannello che dall’esterno permetteva l’accesso alla sala da pranzo e trasalì nel trovarvi suo padre impegnato in una conversazione telefonica parecchio accesa. Non aveva voglia o coraggio di guardarlo in faccia, ma Masato Sakurai le fece cenno di entrare e sedersi al piccolo tavolo di legno. Riagganciò il telefono con urgenza e si sedette di fronte a lei.
«Come stai stamattina?» le domandò.
Megumi sollevò le spalle.
«Male.» confessò mortificata «Non ricordo quasi niente di quello che è accaduto ieri.»
«Non pensarci più, almeno per ora.» le suggerì il padre con gentilezza, il momento dei rimproveri doveva essersi aperto e chiuso la notte prima «La polizia sta già prendendo provvedimenti, al momento Isao Hattori è in commissariato per verificare la sua versione dei fatti. Ma è solo una formalità, lo metteranno dentro. La registrazione del tuo amico è stata molto utile e lui è stato molto coraggioso.»
«Del mio amico?» ripeté incerta prima che il filo dei suoi pensieri corresse ad Oikawa. Forse non lo aveva neanche salutato o ringraziato abbastanza per quello che aveva fatto. Non sapeva se lo avrebbe mai rivisto, forse non sarebbe mai più tornata a scuola a Sendai. «Come sta?»
«Gli hanno medicato le ferite e suo fratello maggiore l’ha riportato a casa. Con qualche giorno di riposo, si rimetterà presto.»
Sapere che Oikawa non avesse subito danni gravi la rincuorò appena, dopotutto, se era stato coinvolto in quella vicenda, era colpa sua. Le sembrava ancora incredibile che il ragazzo si fosse trovato proprio lì al momento giusto e provò a definire il nesso causale fra l’accaduto e la sua presenza, ma come prevedibile fu una fatica vana. Una fortuita coincidenza, o forse – come le aveva spiegato Shirabu durante il ripasso di fisica – di un apparente caso di sincronicità[2]
«Mamma dov’è? È arrabbiata con me?»
«È andata a riprendersi le tue cose dal dormitorio, mi ha chiamato poco fa. Wakatoshi sta tornando con lei, vuole venirti a trovare.»
«Non voglio vederlo.» tagliò corto allarmata. Non aveva neanche il diritto di parlare con lui, ora che era al corrente di tutta la verità.
«Capisco che oggi tu non te la senta di vedere nessuno, ma non puoi allontanarlo per sempre. È molto preoccupato per te.»
«Lo sanno tutti adesso, no? Il club, la scuola, la famiglia di Wakatoshi… forse l’intera Sendai.»
Suo padre scosse il capo con amarezza. «Era inevitabile che qualche giornalista in cerca di scoop ne parlasse, ma è stato impedito loro di fare il tuo nome. Si riferiscono tutti ad “una liceale dell’Accademia Shiratorizawa.”»
«Come se la gente fosse così stupida da non fare i collegamenti. Lo sanno, che sono io.»
Masato sospirò angosciato. «Forse è presto per chiedertelo, Megumi, ma intendi tornare all’Accademia o no? Io e tua madre capiremmo se non volessi più metterci piede e rinunciare alle borse di studio, sai bene che te lo avevamo suggerito già qualche mese fa.»
Megumi non aveva ancora riflettuto al riguardo: di certo non conservava bei ricordi di quel luogo, a parte qualche minuto strappato a Wakatoshi, e non aveva legato mai abbastanza con le sue compagne da rimpiangerle. Lasciare l’Accademia avrebbe avuto il vantaggioso effetto di aiutarla a rimarginare in maniera più rapida ed efficace le ferite, eppure quella di abbandonarla le pareva ancora una decisione troppo affrettata. Provava dispiacere nel figurarsi lontana da Wakatoshi e, sorprendentemente, qualcosa le suggeriva che avrebbe sentito la mancanza delle lezioni di recupero di Shirabu e delle levatacce di Scoiattolo. Buffo, perché due mesi prima avrebbe dato qualsiasi cosa per liberarsi della compagna di stanza. La immaginò, impalata accanto alla sua scrivania, osservare con i grandi occhi nocciola sua madre che raccattava i suoi effetti personali sparsi per tutta la camera, titubando prima di chiederle cosa le fosse accaduto. Avrebbe ascoltato una veloce sintesi dei fatti, seguita dalla raccomandazione di non farne parola con nessuno, e si sarebbe portata le mani alla bocca come era solita fare quando era sgomenta, forse si sarebbe sentita in colpa per averla costretta ad assistere alla loro partita. Ci era stata tanto vicina, Scoiattolo, alla verità: se non si fosse impuntata nel depistarla, la mattina precedente, avrebbe avuto dalla sua un’alleata.
Ed ancora era tanto sorprendente che la compagna di stanza avesse intuito tutto e nulla, proprio la mattina del misfatto: un altro, apparente, caso di sincronicità.
~
Prima di allora, Arisu non si era mai accorta di quanto la presenza di Sakurai fosse ingombrante in quella stanza. Ora che il suo letto era disfatto, la sua metà dell’armadio vuota, la sua scrivania sgombra di ogni cianfrusaglia che si ostinava a lasciare in giro, tutto era vuoto e silenzioso. Eppure l’altra non era mai stata una ragazza di molte parole e neanche avevano condiviso il particolare rapporto che il libero aveva sperato fino all’ultimo di poter instaurare con lei.
Di lei era rimasto solo il cravattino dell’uniforme, quello che la mattina prima non riusciva a trovare, per qualche motivo finito sotto il suo libro di storia e quindi scampato alla retata di sua madre. Lo avvolse attorno alle dita, poi lo srotolò. Se lo rigirò fra le mani un paio di volte e cercò di contare le volte in cui l’aveva vista annodarselo al collo. Un gesto ordinario, ripetuto mattina dopo mattina allo stesso modo. Tuttavia tutte quelle mattine non dovevano essersi svolte per lei nello stesso modo: chissà da quando aveva iniziato ad annodare il cravattino curandosi di far apparire normale qualcosa che non lo era, trattenendo fra le labbra serrate segreti di cui si vergognava.
Se si fosse imposta di più quella mattina, o se non l’avesse esortata a raggiungerle al City Gymnasium, le cose sarebbero andate diversamente? Esaminò ancora una volta la sottile striscia di raso viola e si chiese se gliel’avrebbe ancora vista addosso.
 

[1] La casa dei Sakurai è una tradizionale villetta giapponese in campagna, piuttosto modesta.
[2] Sincronicità è un termine che indica una connessione fra due o più eventi diversi che allo stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato.

NOTE FINALI

Ciao, sono Lyra e faccio molta pena quando scrivo scene d'azione.
Il capitolo 6 - a cui finalmente sono giunta - è una sorta di spartiacque e mi auguro che, in quanto tale, sia stata in grado di rendergli l'importanza che merita (Eppure non ne sono mai totalmente convinta). Il problema è, e lo vedrete, che affronta di petto una situazione che ho trovato difficile da narrare e non escludo di poterci ritornare sopra per una revisione. Dal prossimo capitolo, potrò dedicarmi alla seconda parte della storia ed lasciare che facciano il loro ingresso personaggi nuovi, personaggi che sono stati citati non a caso (in questo capitolo ce ne sono ben due) e personaggi che avete avuto modo di conoscere più o meno bene ma che non hanno mai potuto prestarci il loro punto di vista. Ne avete letta una minuscola anticipazione nelle ultime righe di questo capitolo. Dopo questo picco di negatività, il tutto diventerà pian piano molto più leggero e divertente.
Colgo l'occasione per ringraziare se siete arrivati fin qui con la lettura: Wild Card è un storia nata per poltrire nelle cartelle del mio pc e svuotare la mia mente dai pensieri scomodi, ma qualcuno mi ha esortato a pubblicarla. Poiché nella mia vita credo di aver creato all'incirca una decina di Mary Sue che giacciono grazie al mio buon senso negli archivi dimenticati del mio hard disk, protetti da password che neanche io ricordo più (grazie al cielo) e poiché ho temuto e temo che anche Megumi (e, ora posso dirlo, le altre) possa essere relegata in questa categoria, sono sorpresa e felice ogni volta che leggo una nuova recensione postitiva o scopro che qualcuno l'ha aggiunta ad una lista, o ancora quando vedo il contatore delle visite aumentare di una cifra (per quanto esso sia fallace). Non so se siano poche o molte e - in tutta franchezza - non ho voglia di mettermi a fare paragoni, ma per me sono importanti e mi aiutano nella mia giornaliera lotta contro la carenza di autostima. Perciò vi ringrazio di seguire questo enorme pasticcio, e vi invito a recensire se vi va <3


Sulla pagina Facebook OracleLyra , oltre a dare talvolta speranzosi segni di vita fra un aggiornamento e l'altro, sto uppando a poco a poco materiale che può essere utile ad integrare i capitoli o a capirli meglio, fra cui i profili e gli schizzi di alcuni dei personaggi apparsi in questi capitoli, anche se non sono una cima nel disegno. Se avete tempo da perdere, potete consultarli qui: [HQ] Wild Card / Materiale extra
   
 
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