“Moltissimi
anni fa, in un’epoca di cui noi umani non abbiamo memoria, la
magia non era
diffusa sulla Terra. Ogni singola azione era svolta con le mani o con
gli
strumenti che l’uomo aveva saputo inventare: nulla poteva
volare o essere
trasportato dalla sola forza del pensiero come oggi. I ragazzi
studiavano
materie classiche come matematica o storia, non incantesimi e mutazioni.
Fu
un periodo luminoso e ricco di scoperte, forse poco pacifico ma non per
questo
meno sereno e felice. Ma come tutte le luci hanno le proprie ombre, e
come
queste sono tanto più grandi quanto più brillante
è luce, anche quella felicità
si oscurò. Un giorno, nessuno ricorda più bene
quando, apparvero sulla Terra
due oggetti che infusero la magia in ognuno di noi. Per molti millenni
la razza
umana non si rese conto del grande potere che possedeva.
Ignorò la magia che
fluiva dalle sue mani, condannò coloro che
l’accettavano e la praticavano.
Secondo
le leggende, due arcangeli, il serafino Metatron e il cherubino Raziel,
portarono sul nostro pianeta due elementi magici, custodi dei poteri
dell’angelo dai due volti. Raziel teneva con sé
Hikarihime, Principessa di Luce,
e la depose in un tempio sperduto di un bosco di millenaria esistenza;
Metatron
trattò Benihime, Principessa Scarlatta, allo stesso modo,
lasciandola però nelle
rovine di una vecchia miniera di diamanti. A causa di ciò
Lucifero, il primo e
più splendente angelo del Paradiso, si ribellò,
trascinando nel suo delirio
centinaia di giovani angeli. La battaglia tra i ribelli e i fedeli fu
lunga e
dolorosa, con innumerevoli perdite da entrambi le parti. A nulla valeva
quel sacrificio
per Lucifero, poiché credeva di agire dalla parte della
ragione.
La
guerra si concluse con l’epica battaglia tra Lucifero e
Michele. Entrambi
estremamente abili nelle evocazioni, avevano una sola differenza: la
potenza.
Lucifero combatté Michele con tutte le proprie forze, ma non
riuscì in alcun
modo ad arginare il divario tra loro e uscì sconfitto: i
ribelli suoi seguaci
furono cacciati dal Paradiso, non più degni di risiedervi, e
mai più vi
rientrarono. Questa cacciata è anche nota come la
“Caduta degli Angeli”. La
leggenda racconta ancora di come Michele, con gli arcangeli rimasti,
abbia
creato un mondo nuovo, estraneo ed esterno al Paradiso, dove i ribelli
avrebbero scontato il loro eterno esilio: un luogo freddo, lugubre,
scavato
nella roccia e nutrito dall’odio e dal rancore, dove Lucifero
avrebbe regnato
incontrastato. I ribelli non accettarono questa divisione e si
ribellarono
ancora, ma stavolta tutto fu represso nel sangue e non ebbero alcuna
opportunità di negoziazione. Gli Arcangeli crearono poi un
terzo regno a metà
fra i due, in cui avrebbero vissuto i più degni delle due
fazioni, uno per
ciascuna, e avrebbero vegliato sulla pace per entrambi. Infine Michele
pregò a
lungo affinché il loro dio creasse un terzo angelo, un
custode puro nato dalla
luce, che potesse giudicare senza influenze, e lo facesse crescere
sulla Terra
per poi farlo salire al terzo regno al momento opportuno. Nessuno sa
però se la
sua preghiera fu mai esaudita.
In
questo volume analizzeremo con obiettività la comparsa della
magia sulle Terra,
considerando gli effetti straordinari sulla vita
e…”
‹‹È
un peccato che non si possa leggere la vera leggenda anziché
il libro di Storia
della Magia, vero Dakota?››
‹‹Mah…
Sinceramente queste storie sugli angeli non mi piacciono
molto.››
‹‹Ma
dai, Dakota! La magia viene dagli angeli e tantissimi misteri su di
essa non
sono ancora stati risolti. Non ho nemmeno una briciola di magia dentro
di me e
questo mi rende curiosa.››
‹‹Verity,
sai che il motivo per cui Michelle si diverte a prenderti in giro
è proprio
questo tuo curiosare, vero?››
‹‹Già…
Ma voglio sapere la verità. Forse scoprirò anche
qualcosa su di me.››
Dakota
recitò a memoria le motivazioni dell’amica come se
fosse sul palco di un teatro
e Verity ne rise, sempre contenta che la sua vita fosse banalizzata con
poche
parole ad effetto, alleggerendo la tristezza che si portava dietro.
Il
sorriso di Dakota si spense quando volse lo sguardo verso
l’ingresso della
biblioteca. C’erano cinque ragazze disposte in cerchio
intorno a Michelle. Era
la più alta del gruppo e anche la più bella,
almeno per i ragazzi della scuola:
lunghi capelli lisci e neri e penetranti occhi color acquamarina. Le
ragazze
sedute ai tavoli sospirarono ammirando la camminata sensuale da pantera
e i
ragazzi si scambiarono sorrisi soddisfatti.
‹‹Ehy,
senza-poteri! La professoressa Anna ti aspetta nel suo
ufficio…›› le disse con
un ghigno.
L’acquamarina
e la nebbia si scontrarono: ‹‹Sempre a prenderla
in giro, Michelle. Nessuno ti
ha insegnato le buone maniere, eh‽››
‹‹E
tu sempre a difenderla, vero Dakota?››
Le
ragazze si guardavano con astio e la tensione era elettrica, ma Verity
intervenne a far da paciere: ‹‹Non iniziate a
litigare come al solito! Non ho
voglia di sentirvi gridare e nemmeno chi studia qui ne
ha››.
Disse
a Dakota che si sarebbero incontrate più tardi
all’area snack, raccolse i suoi
libri e uscì velocemente.
Si
concesse una lenta camminata nel corridoio. L’ala professori,
con gli uffici,
era dall’altro lato della scuola e il percorso sorpassava
molte aule e il
cortile interno.
Il
corridoio era terribilmente lungo, ma estremamente bello secondo la
ragazza. Grandi
arcate, alternate a colonne imponenti, formavano le pareti color panna;
le
volte del soffitto erano affrescate con storie tratte dalla Bibbia e
dalla
mitologia greca, dettagliate e colorate. I suoi preferiti erano Orfeo
ed
Euridice, protagonisti dell’omonimo mito: la loro tragica
storia d’amore faceva
sognare la giovane, raggiungendo le corde di sentimenti e destini
ancora
avvolti nelle tenebre. Orfeo, bello e prestante come gli antichi dei,
ed
Euridice, piccola e delicata, formavano una coppia invidiabile.
Il
dipinto cui si sentiva più legata era però quello
dello scontro tra Michele e
Lucifero, seguito poi dall’arcangelo intento a pregare.
Sentiva che qualcosa di
quell’atto le sfuggiva, che c’erano collegamenti da
fare e misteri da
risolvere.
Sorpassò
le aula di fisica e scienze e poté sbirciare
all’interno della seconda. La
professoressa stava preparando una mistura dall’aspetto poco
rassicurante: un
intruglio azzurro che frizzava vivacemente. Certo, spaventava un
po’ non sapere
cosa sarebbe successo, se fosse esploso o no, ma le erano sempre
piaciute le
lezioni dove l’unica abilità che le serviva non
era la magia, ma quel magico
organo che è il cervello. L’insegnante aggiunse
alcune gocce di un liquido rosso
alla soluzione e nel giro di un decimo di secondo le esplose in faccia
con una
nuvoletta violacea: gli abiti erano bagnati e, mentre la donna cercava
di
togliersi la sciarpa senza ferirsi con i cocci del becher, la classe
rideva
rumorosamente. Si unì a loro in una risata leggera e si
allontanò sorridendo,
camminando fino alla grande porta finestra che dava sul cortile interno.
‹‹Signorina
Verity! Stia attenta! In cortile ci sono delle matricole che si
esercitano, ma
non sono molto brave… Potrebbe farsi
male.››
‹‹Grazie
Mr.Jay, prometto che starò attenta.››
Mr.Jay
era un bell’uomo sulla cinquantina, forzuto e simpatico.
Amava ridere con gli
studenti e con i colleghi, ma al tempo stesso sapeva essere serio e
incutere
timore con la voce grave che aveva. Condivideva con Verity un legame
particolare e durante le lezioni di magia rimanevano insieme. Lei lo
aiutava
con alcune delle sue mansioni da bidello, poi lui la viziava offrendole
la
merenda. All’inizio la conversazione era stata scarsa a causa
della natura
timida di entrambi, ma con lo scorrere dei giorni il ghiaccio si era
sciolto in
un’amicizia sincera.
Appena
uscita Verity si accostò al muro e procedette rasente ad
esso calpestando le
foglie rosse e gialle che coprivano la terra marrone. Gli studenti non
erano
solo poco bravi, ma dei veri e propri disastri e, pur tenendosi ben
lontano dal
“campo di allenamento”, rischiò
più volte di essere colpita da un incantesimo
mal riuscito o mal direzionato, mentre il giovane che avrebbe dovuto
controllarli dormiva beatamente appoggiato contro la vecchia quercia.
Nel
torneo scolastico non sarebbero sopravvissuti nemmeno alle
qualificazioni se
non fossero migliorati. Alzò gli occhi al cielo,
passò oltre la quercia e,
felice di tornare al sicuro, rientrò nella scuola e
bussò lievemente alla
grande porta bianca che era l’ingresso della sala professori.
Attese
qualche secondo e l’insegnante di Levitazione la fece entrare.
La
professoressa Anna era seduta sul davanzale della finestra, respirando
a pieni
polmoni l’aria pura del grande parco in cui era immerso
l’istituto. Di fronte a
lei una larga scrivania in mogano piena di vecchie fotografie dominava
la
stanza. La luce illuminava le foto di studenti meritevoli del passato,
familiari e illustri insegnanti ormai ritirati. Un gusto del passato
permeava
l’ufficio, donando la sensazione del ritorno a un tempo
lontano: tantissimi
libri veri, con le pagine di carta e le parole scritte con
l’inchiostro erano
chiusi nelle vetrine, quadri dipinti da veri pennelli erano appesi alle
pareti.
In un angolo della stanza un’antichissima macchina da
scrivere era poggiata su
un tavolino di vetro e molti altri oggetti trovati in chissà
quale luogo della
Terra erano conservati sotto teche trasparenti. Anche se la
professoressa
insegnava ai suoi studenti a usare la magia, non aveva mai smesso di
credere
che le azione compiute con le mani, con il contatto fisico e la fatica,
fossero
ancora importanti: ciò che caratterizzava un oggetto creato
senza magia era
ancora pregno di un potere che nessuna magia poteva eguagliare. Questo
a
Verity, che la magia non la possedeva, sembrava magnifico e forse anche
per questo
stimava Anna. C’erano dei valori in lei che la ragazza non
aveva mai trovato in
nessun altro.
‹‹Verity
cara, come stai? Spero tu non ti sia troppo preoccupata, essere
chiamata dalla
preside spaventa sempre un
po’…››
Scese
dal davanzale e le versò una tazza di thè caldo,
facendole cenno con la mano di
sedersi, poi continuò a parlare.
‹‹Tua
madre è venuta ieri a scuola, credo ti cercasse, ma le ho
detto che eri fuori
per una ricerca. Però è rimasta a parlarmi e
ciò mi ha sorpreso non poco: mi ha
chiesto come stessi, come ti trovassi a scuola e poi mi ha domandato
come
andasse la questione della magia.››
‹‹Lei
cos’ha risposto?››
‹‹La
verità, Verity, e cioè che nulla è
cambiato da quando sei qui… Per favore, non
guardarmi con quell’espressione, l’avrebbe scoperto
prima o poi. Si è molto
arrabbiata, accusando la scuola di non saper insegnare ai suoi
studenti. Non
sono riuscita a calmarla o a farle cambiare idea, mi
spiace.››
‹‹Che
idea scusi?››
‹‹Vuole
che torni a casa. Dice che ormai hai tutti i titoli di studio che ti
servono e
che stare qui a sperare nell’impossibile non
cambierà nulla.››
Verity
era allibita. Sua madre che veniva a scuola era già un
evento epocale, scoprire
poi che aveva parlato con la professoressa Anna aveva qualcosa di
incredibile e
sapere che sarebbe dovuta tornare a casa la gettò in un
baratro di tristezza.
Forse, pensandoci in quel momento, avrebbe fatto meglio a preoccuparsi
quando
Michelle l’aveva chiamata: almeno avrebbe avuto una piccola
preparazione per quello.
Posò con lentezza esasperante la
tazza sulla scrivania, terrorizzata dall’idea che, se solo
avesse provato a
dire qualcosa, le sarebbe caduta. Sentiva i palmi delle mani sudati e
lo
sguardo appannato di quando non voleva credere a ciò che
udiva. Non poteva
tornare a casa, non poteva tornare nell’unico posto al mondo
dove nessuno le
avrebbe più rivolto un sorriso di benevolenza o
comprensione. In istituto
Michelle la prendeva in giro, ma tanti l’avevano difesa nel
corso degli anni e
continuavano a farlo, professori inclusi.
Firmò
il modulo di rinuncia volontaria trattenendo le lacrime e mordendosi il
labbro
inferiore fino a farlo diventare rosso e pulsante; firmò la
sua condanna senza
nemmeno provare a protestare. Si diresse lentamente verso la porta,
carezzando
con uno sguardo d’addio quei cimeli che non avrebbe visto mai
più.
‹‹Verity,
aspetta un minuto ancora! Anche se non vivrai più qui le mie
porte sono sempre
aperte per te. Vieni ogni volta che desideri e non lasciare che tua
madre ti
cambi, okay? Vali molto più di altri studenti con la
magia…››
L’abbracciò
dolcemente, stringendo quella ragazza così pronta a donare
amore anche quando
non ne riceveva nemmeno una briciola in cambio.
Per
un’insegnante è sempre triste perdere un allievo,
meritevole o meno, ma nel
caso di Verity la tristezza era doppia: era entrata nella scuola
sconsolata e
senza speranze. Crepare la barriera gelida che indossava in ogni
momento non
era stato facile. Convincerla ad esporsi, a raccontarsi, a mostrare il
grande
cuore che possedeva era stato ancora più complicato.
La
ragazza decise di abbandonarsi a quell’abbraccio tenero,
assorbendo tutto
quello che riusciva, ma appena sentì di non poter
più trattenere le lacrime lo
sciolse e uscì con un breve ultimo saluto.
Con
gli occhi pieni di lacrime non vedeva bene dove stesse andando e
inciampò nelle
gambe di quel ragazzo appoggiato alla quercia. Si sbucciò i
palmi delle mani
che aveva proteso in avanti per attutire la caduta e sentì
il sapore salato del
pianto sulla lingua e sul palato. Il ragazzo si svegliò,
guardandola
incuriosito.
‹‹Ehy
tu, ti sei fatta male?››
Verity
non rispose e non accettò la mano che le porgeva per
aiutarla. Si alzò da sola
e scappò via, evitando per pochi centimetri un raggio
congelante su una gamba.
Gli occhi di lui la seguirono fino a che non scomparve
all’interno della
scuola. Che fretta poteva avere, si chiese, una ragazza con gli occhi
rossi per
le lacrime e un sorriso triste e finto sul viso? Guardò i
due maghi in
allenamento: non avevano notato la caduta di lei. Meglio
così, pensò, non
avrebbero notato nemmeno lui mentre andava via.
Rientrata
al caldo Verity si appoggiò alla porta e scivolò
giù, chiudendosi in se stessa.
Mr.Jay provò più volte a farle raccontare cosa
fosse accaduto, ma a ogni
tentativo il mutismo della ragazza aumentava, tanto che finì
per piangere in
silenzio tutte le sue lacrime. La prese di forza e la depose su uno dei
divani
dell’area snack, poi mandò a chiamare Dakota,
certo che in sua presenza avrebbe
parlato.
L’arrivo
dell’amica illuminò per un attimo gli occhi di
Verity, per poi lasciarli tornare
vitrei e distanti in quello successivo. Piano piano Dakota
riuscì però a farla
parlare e, sottile come un sussurro senza vita, Verity
riferì le parole della
professoressa. Parola dopo parola, frase dopo frase, i due ascoltatori
passarono dallo stupore alla rabbia e alla tristezza.
‹‹Verity,
devi parlare con i tuoi genitori! Convincili a farti rimanere. Tu
appartieni a
questa scuola. Sei qui da più tempo di qualsiasi altro
studente, non hai nulla
da spartire con i tuoi familiari. Poi, quanti anni sono che non si
fanno
vedere? Non possono pretendere che abbandoni tutto per stare da sola in
quella
casa enorme.››
Non
serviva che Dakota glielo ricordasse, sapeva cosa avrebbe dovuto fare
ma, allo
stesso tempo, conosceva bene sua madre. Eleonore era una donna
orgogliosa,
primogenita di un’antica dinastia di maghi e streghe
particolarmente potenti.
In città tutti la rispettavano per il grande nome che
portava sulle spalle e ne
riconoscevano il fascino e la bellezza: pensare prima
all’onore della famiglia
che alla felicità di Verity era la normalità.
‹‹Dovrei
andare a casa in ogni caso, ho già firmato il modulo, ma
discutere con loro è
inutile. Mio padre non c’è mai e mia
madre… Non ne parliamo. Per l’intera mia
famiglia sono uno scherzo della natura e hanno pure ragione: quando mai
la
figlia di due maghi nasce senza magia? Quando‽ Non
mi daranno spiegazioni
e meno chiedo, meglio sarà.››
‹‹Ma
sono i tuoi genitori!››
‹‹Questo
non conta nulla, Dakota, nulla.››
Dakota
decise di accompagnarla fino a casa, sperando di poter ancora farle
cambiare
idea, anche se sapeva di essere senza speranze. Sorpassarono un locale
affollato e un parco dove dei bambini giocavano e si dondolavano sulle
altalene. Verity non li notò. Chiusa nei suoi pensieri nulla
la distraeva: non
i profumi o i colori, non le risate cristalline dei piccoli. I passi
erano
lenti, le spalle incurvate come sotto il peso di un enorme macigno. Si
salutarono con un cenno del capo di fronte al cancello.
Verity
cercò la chiave arrugginita nel mazzo e varcò la
cancellata. Il giardino era
vivo, pulsante di energia positiva, ma la ragazza
l’attraversò ignorandolo. Quel
luogo era stato suo un tempo. Aveva piantato fiori di ogni specie e
colore
sotto lo sguardo attento del nonno, l’unico della famiglia a
cui piacesse
trascorrere del tempo con lei. Aveva lavorato al fianco dei
giardinieri,
aiutandoli così spesso che avevano riservato un angolo di
prato solo per lei.
Aveva riempito quel regno in poco tempo, trasformandolo in un
arcobaleno di
colori, anche se i fiori per cui aveva lavorato maggiormente erano
state le
rose nere, che la nonna le aveva portato da uno dei suoi viaggi intorno
al
mondo. Le aveva seguite gelosa, ammaliata dal profumo e dalla bellezza
mozzafiato, e le aveva usate per decorare la tavola da pranzo, la porta
della
sua stanza, i mazzi di fiori che regalava a sua madre o che lasciava
sul
tavolino in ingresso per suo padre. Erano state l’unico dono
che Eleonore aveva
apertamente mostrato di gradire.
Si
fermò sotto il portico mentre i ricordi si facevano spazio
prepotentemente: si rivedeva
seduta lì fuori, sulle gradinate, a mangiare gli acini
d’uva sputandone la
buccia; ricordava di aver cercato di arrampicarsi sull’edera
che ricopriva il
muro, di aver guardato la neve cadere infagottata nelle coperte, di
aver
cantato con i grilli nell’estate afosa di quando aveva cinque
anni; sentiva
sulla pelle il calore del vento e la sensazione di ruvidezza della
barba non
fatta di suo padre quando l’aveva salutata per l’ultima volta
prima che si trasferisse nel
collegio dell’istituto, forse uno dei pochi abbracci che
aveva ricevuto da lui
e forse la prima volta che lo avesse visto in apprensione. Adesso
c’erano solo
foglie secche e una vecchia sedia di legno scurita dal tempo.
Spalancò la porta
con un sospiro: probabilmente non avrebbe rivisto più
nessuno del dormitorio.
Non che avesse particolari rapporti con i suoi vicini, ma le piaceva
sentire la
ragazza con cui divideva la stanza cantare sotto la doccia, incurante
di essere
stonata e di urlare per superare il rumore del getto o
l’insegnante di musica
che suonava sempre l’arpa dopo pranzo e si applaudiva da
sola.
Le
sarebbero mancati tutti quanti.
‹‹C’è
qualcuno in casa?››
Non
rispose nessuno… Non che se lo aspettasse, ovviamente.
Fece
pochi passi ed entrò in quella che credeva essere la cucina,
fu felice di non
sbagliarsi e di ritrovarla spaziosa e brillante come ricordava.
Aprì le antine
e i cassetti fino a che non trovò dei biscotti e prese dal
frigo il cartone del
latte. Li lasciò su un mobile in cima alla grande scala e si
chiuse a chiave
nel bagno. Fece un doccia lunga, bollente e rilassante. Si
insaponò con
dolcezza, cercando di distendere i muscoli tesi con un massaggio,
mentre
seguiva le bolle di sapone che fluttuavano e scoppiavano a contatto con
la
parete. Uscita dal vapore quasi ustionante si fermò davanti
allo specchio
fissandosi con insistenza, attentamente. Era carina: aveva lineamenti
delicati
e il naso leggermente all’insù. I suoi tratti
esprimevano tranquillità e calma,
ma erano pochi quelli che le si avvicinavano a causa dei capelli rossi
come il
fuoco e degli occhi smeraldo. Si era spesso chiesta da quale antenato
li avesse
ereditati perché né Eleonore né Victor
li avevano verdi. Non le piacevano. Troppo
espressivi, troppo comunicativi, erano come un libro aperto dove si
leggevano
con facilità tutti i suoi sentimenti. Distolse lo sguardo e
uscì, recuperò il
mangiare e salì in soffitta.
Tutto
era esattamente come lo aveva lasciato: il letto sfatto di quando era
andata
via, i barattoli di vernice in un angolo per terra e i pennelli posati
sui
gradini della scala che portava alla terrazza. Accese la musica di un
vecchio
giradischi e, intinto uno dei pennelli in uno dei barattoli ancora
utilizzabili,
dipinse con il rosso il soffitto inclinato sopra il suo letto,
gocciolando un
poco sulle lenzuola stropicciate. Aveva dipinto spesso, da bambina,
sulle
pareti della sua stanza, soprattutto quando i suoi genitori litigavano,
magari
svegliandola nel cuore della notte. Dipinse un grande fuoco, rosso e
giallo,
tanto bello da parere vero. Presa come da un’illuminazione
controllò poi gli
altri barattoli, scoprendo che quelli vecchi erano in realtà
stati sostituiti e
rimessi al loro posto. Aggiunse allora una lunga scia luminosa, bianca
e
celeste, che nasceva dalla mano aggraziata di un angelo dalla veste
sontuosa e
dai capelli biondi e riccioluti. Dalla parte opposta
rappresentò invece un
giovane dalla carnagione abbronzata, con i capelli neri e lucidi che
cercava di
deviare quella scia con un’altra molto più scura,
ricca di riflessi violacei.
Si allontanò per osservare meglio: Michele e Lucifero
intenti a combattere,
come li descriveva il primo libro che aveva letto sul loro scontro.
Continuò
a dipingere fino a che non ebbe vuotato il cartone del latte e si rese
conto
che il viso di Lucifero assomigliava vagamente a quel ragazzo contro
cui era
inciampata quello stesso pomeriggio. Alla fine si accorse di non aver
mangiato
nessuno dei biscotti e decise di scendere in cucina per cenare con
qualcosa di
buono e salutare. Chiuse la porta a chiave e notò le luci
dell’ingresso accese.
Scese i gradini in fretta, sperando di trovare suo nonno o il suo cane.
Non
c’era nessuno, solo una luce leggera che filtrava da sotto la
porta dell’antico
salone. I genitori lo usavano solo per le cene importanti o per le
festicciole
con altre famiglie illustri di maghi. Nulla di tutto ciò
aveva mai avuto a che
fare con lei, ma non le era mai dispiaciuto davvero. Pensava sempre che
si
sarebbe annoiata e allora si chiudeva a chiave nella sua soffitta e
dipingeva.
Però era incuriosita. Si avvicinò senza fare
rumore e poggiò l’orecchio sulla
serratura per origliare la conversazione, anziché ignorarla
come avrebbe
dovuto.
La
madre si stava lamentando di qualcosa, come al solito.
Sbirciò allora nella
serratura per sapere chi fosse nella stanza. Il nonno era seduto su una
delle
poltrone di velluto verde scuro e Kai era accucciato ai suoi piedi,
mentre la
nonna stava seduta sul divano insieme agli zii. Forse per istinto Kai
alzò il
muso in direzione della porta, aprendo la bocca come per sorriderle.
‹‹Finalmente
Verity è a casa. Lasciarla a scuola era
inutile.››
‹‹Eleonore
aveva degli amici là, ora è
sola…››
‹‹Ne
abbiamo già parlato, Victor. Preferisco averla in questa
casa, dove posso
sempre sapere come sta e posso cercare di
cambiarla.››
La
nonna sbuffò annoiata, stufa di sentire sempre gli stessi
commenti fatti dalla
figlia: ‹‹Spero tu non pensi ancora che sia colpa
sua!››
‹‹E
di chi sarebbe, mamma‽ Sia
io che Victor sappiamo usare la magia, tutto dipende da
lei.››
Ci
fu un attimo di silenzio, come quando il temporale si acquieta un
secondo e poi
un fulmine più forte degli altri colpisce
all’improvviso, e il nonno si alzò in
piedi gesticolando con le mani.
‹‹La
colpa non è nostra, tutto dipende da lei…
Smettila di addossare colpe su quella
povera ragazza e inizia a comportarti come una madre amorevole,
Eleonore. L’hai
trattata come un’emarginata per tutta l’infanzia e
ora la riporti in questa
casa vuota e sai benissimo, sapete entrambi benissimo, che
sarà sola anche qui.
Poi io rimango sempre della mia idea, è simile a Mary e ogni
anno che passa le
somiglia di più: se la genetica non è
un’opinione, ha ereditato tutte le sue
caratteristiche, compresa…››
‹‹Certo,
Dante, perché l’esistenza degli angeli
è un fatto scientifico e provato. Sei
anziano ma smettila di credere in queste leggende senza
fondo!››
‹‹Eleonore,
sei la moglie di mio figlio, ma non ti permettere mai più di
mettere in dubbio
la mia intelligenza. Le antiche leggende non sono storielle per bambini
e gli Ingranaggi
avrebbero fatto bene a rimanere nascosti
dov’erano.››
Il
fratello di Eleonore disse al nonno di stare zitto, di smettere di
ripetere
ogni volta di lasciare in pace Verity e trattarla meglio di quanto non
facessero: la ragazza era uno scherzo della natura. La moglie
dell’uomo prese
poi la parola, cercando di mitigare la tensione:
‹‹Signor Dante, ci ascolti:
sono anni che studiamo gli Ingranaggi e non abbiamo ancora scoperto
nulla di
certo. Sono sicuramente una grande fonte di energia, ma da qui a
parlare di
angeli e guardiani protettori c’è ancora molta
strada da fare.››
‹‹Certo,
cerchiamo informazioni, andiamo a trovare angeli e guardiani. Se li
hanno
depositati in posti isolati ci sarà stata una ragione, no?
Ve lo sarete chiesti
spero!››
‹‹Papà,
adesso basta! Sono storie senza capo né coda, e ti
dirò di più, sono state le persone
che facevano loro da guardia a consegnarceli. Secondo loro non
c’erano problemi
e se nessuno ci ha attaccato in questi anni non vedo come potrebbero
farlo in
futuro.››
Dante
sgranò gli occhi e sedette sulla poltrona con un tonfo.
Sapeva di non avere un
figlio particolarmente saggio, ma credeva che la saggezza fosse un
requisito
fondamentale almeno per i monaci. Tutto quello che conosceva gli era
stato
trasmesso da loro e lui lo aveva tramandato a suo figlio, ma Victor non
aveva
mai compreso fino in fondo. Pochi nella famiglia in realtà
avevano capito: la
magia donava un senso di onnipotenza tale che l’esistenza di
esseri divini,
dalle capacità infinite, diventava inconcepibile, e credere
nel trascendente
era quasi impossibile. Era però abbastanza intelligente da
sapere che parlare
ancora avrebbe peggiorato l’umore di tutti e
perciò uscì dalla stanza,
premurandosi di sbattere la porta per esternare tutto il suo
disappunto.
Verity
si era allontanata già da un po’, e precisamente
alle parole “scherzo della
natura”, sedendosi sul primo scalino di fronte alla soffitta,
stanca di sentirsi
chiamare sempre allo stesso modo. Amareggiata e con le lacrime agli
occhi,
appena sentì i passi del nonno sulla scala si
alzò di corsa ed entrò, lasciando
la porta accostata e uscendo sulla terrazza. Il nonno la raggiunse e le
posò
una coperta leggera sulle spalle, sedendosi con fatica al suo fianco.
‹‹Cosa
sono quelle lacrime? Non devi piangere, piccola
mia.››
‹‹Non
riesco a smettere, nonno. Perché devono sempre parlare di me
in quel modo?››
‹‹Non
lo so, amore. Tuo padre è così assente che non
può permettersi di ribattere e
gli altri… Bah, lasciali a cuocere nel loro
brodo!››
Le lasciò un bacio sulla fronte e rientrò in casa. La ragazza rimase fino a che il cielo si trasformò in una notte buia e piena di stelle: la luna nera si confondeva con l’infinto. Guardando con attenzione scorse una luce in movimento: segnali inviati dagli astronomi, pensò. Eppure… Eppure non lampeggiava come al solito e lasciava dietro sé una scia violetta, appena percepibile sul manto scuro del cielo. Si avvicinò alla ringhiera, stringendola fino a farsi venire le nocche bianche e sporgendosi per vedere meglio, strizzando gli occhi. Sfortunatamente era troppo lontana e scomparve all’improvviso, anche se Verity avrebbe giurato di averla vista fermarsi per un secondo. Colpita dall’idea che si fosse arrestata per effetto dei suoi pensieri, decise di aggiungere quella scia al dipinto sopra il letto, pensando che potesse essere un angelo messaggero o un’altra creatura dei cieli.
Angolo dell'autrice
Non è la prima volta che pubblico su Efp, ma è assolutamente la prima che pubblico a) un originale nel fantasy e b)un storia originale con più di due capitoli. Spero che vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione, sia positiva che negativa. Sono entrambe estreamente utili per migliorare la mia scrittura e la storia. La trama è gia stata tutta scritta, quindi dovrò solo postare i capitoli. Cercherò di metterne uno alla settimana, ma siccome l'università mi impegna moltissimo, soprattutto al pomeriggio, alcune volte potrei saltare. Mi premurerò in ogni caso di postare sempre almeno due capitoli al mese. Se avete delle domande, chiedete pure.
Un saluto a tutti i lettori!
Ci sentiamo la prossima settimana!
Nemamiah