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Autore: Hotaru_Tomoe    28/10/2017    7 recensioni
Raccolta di oneshot ispirate dalle fanart o prompt che ho trovato in rete su questa bellissima serie. Per lo più Johnlock centriche, con probabile presenza di slash.
Aggiunta la storia I'll be home for Christmas:Sherlock è lontano da casa per una missione, ma durante questo periodo il legame con John si rinforza. John gli chiede di tornare a casa per Natale, riuscirà Sherlock ad accontentarlo?
Questa storia, in versione inglese, partecipa alla H.I.A.T.U.S. Johnlock challenge di dicembre.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti, bentrovati. Manco da un po' dal sito, ma visto che Halloween si avvicina, ho pensato che una fanfiction a tema ci stesse proprio bene.


A dreadful night

Un sobbalzo più vigoroso degli altri fece ridestare di botto il dottor Watson.
L’uomo si raddrizzò sul sedile, stropicciandosi gli occhi: il dondolio del treno gli conciliava il sonno da sempre; il vagone era silenzioso e semideserto: oltre a lui c’erano una coppia di anziani e tre uomini, nessuno aveva scambiato una parola dall’inizio del viaggio.
Il finestrino era bagnato della classica pioggia inglese, che ammantava di grigio ogni cosa, inoltre era pomeriggio inoltrato e ormai era sceso il buio, quindi il panorama era piuttosto deprimente: non si vedeva nulla oltre il vetro umido e sporco, se non le sporadiche luci di un paesino lontano o i fari di un’auto sulle strade che si affiancavano momentaneamente al percorso dei binari.
Il treno effettuò una fermata e il suo vagone si svuotò; John diede un’occhiata all’orologio: mancava solo mezz’ora all’arrivo alla sua stazione, doveva cercare di non riaddormentarsi, o chissà dove si sarebbe risvegliato.
Controllò il cellulare, ma non vi trovò alcun messaggio: quella mattina, prima di partire, aveva detto a Sherlock che sarebbe stato via un paio di giorni per una conferenza medica, ma non era certo che il suo compagno l’avesse udito, poiché era rimasto sdraiato sul divano senza dargli alcun cenno di risposta, sicuramente chiuso nel suo Palazzo Mentale, e comunque era già una settimana che appariva distratto da qualcosa.
Su cosa stesse riflettendo, John non ne aveva idea, visto che in quel periodo non stavano seguendo alcun caso: probabilmente Sherlock stava riordinando alcuni esperimenti nella sua mente, o rivedendo la catalogazione dei diversi tipi di fango di Londra, come era già accaduto in passato.
Una volta conclusa l’operazione, sarebbe tornato alla realtà e lo avrebbe cercato, stupito di non trovarlo a casa.
John poteva quasi udire la sua voce petulante nella testa: “Perché non mi hai detto che saresti stato via, John?”
“L’ho fatto Sherlock, solo che non mi hai ascoltato.”
Il pensiero lo fece sorridere con affetto, ma poiché non voleva che Sherlock si preoccupasse troppo per la sua assenza, decise di mandargli un messaggio:
“Sono a una conferenza medica, come ti ho detto stamattina, ma non sono sicuro che tu mi abbia sentito. Rientrerò domani sera. Mangia qualcosa e non passare tutta la notte sul divano.”
Ripose il cellulare nella tasca della giacca e si preparò a scendere, stringendosi la sciarpa al collo e allacciandosi il cappotto per bene: a Londra il clima autunnale si stava già facendo sentire, in aperta campagna era ancora peggio.
Recuperò il borsone da viaggio dalla cappelliera, e uno spiffero d’aria gelida sul collo lo fece rabbrividire; si voltò, credendo di aver sentito la porta del vagone aprirsi e chiudersi, ma non era entrato nessuno.
Dopo un attimo di perplessità si strinse nelle spalle, pensando che fosse solo uno spiffero d’aria che proveniva dai finestrini vecchi e male in arnese, e attese la fermata davanti alla porta.
Dal treno scesero solo lui e un’altra persona a tre vagoni di distanza, che si perse immediatamente nella nebbia fitta che aleggiava sulla banchina; la stazione era deserta e aveva un’aria quasi lugubre: si sarebbe potuto pensare che fosse abbandonata, non fosse stato per una luce fioca che illuminava la finestra di un ufficio al primo piano.
“Bel posto” borbottò John tra sé e sé con sarcasmo, poi si avviò a passo svelto nel piazzale antistante, alla ricerca di un mezzo di trasporto per l’albergo dove si sarebbe svolta la conferenza: data l’ora tarda, non c’erano più autobus, ma per fortuna era presente un taxi.
Il dottore salì, diede l’indirizzo all’autista e sfregò le mani tra di loro, cercando di riscaldarle.
“Che tempo orribile” commentò, nel tentativo di fare conversazione.
“Qui è così quasi tutto l’anno.”
L’autista si strinse nelle spalle e guidò in silenzio lungo la strada principale del paese; le case divennero via via sempre più distanti tra loro, fino a scomparire del tutto, lasciando posto alla campagna.
John si accigliò: l’albergo era davvero così fuori mano? Un sottile senso di inquietudine si impadronì di John: non aveva certo scordato il caso di Jeff Hope, e l’idea di trovarsi su un’auto apparentemente diretta verso il nulla non gli sorrideva. L’uomo era davvero un tassista o uno squilibrato con cattive intenzioni? Vivendo con Sherlock aveva imparato a non dare mai nulla per scontato.
Sbirciò discretamente verso il sedile anteriore: l’uomo non sembrava essere armato e le portiere del taxi non erano state bloccate, in caso di necessità John era abbastanza certo di poterlo sorprendere e scappare.
Tuttavia, nonostante le sue fosche previsioni, il viaggio si concluse senza incidenti venti minuti più tardi davanti a un imponente edificio in stile georgiano che aveva conosciuto giorni migliori. Il vialetto in ghiaia era pieno di buche che si andavano riempiendo d’acqua, il giardino era invaso da erbacce, un’edera triste e scheletrica si arrampicava disordinatamente sulla facciata e l’ingresso era illuminato da un fioco lampioncino che a malapena fendeva il buio della notte. Nel suo insieme, il palazzo trasmetteva una sensazione di inquietudine: sembrava più una dimora per fantasmi che per esseri viventi.
“È sicuro che il posto sia questo?” domandò il dottore al tassista.
“Non esistono altri alberghi qui” rispose l’uomo contando le banconote, poi si toccò il cappello in un gesto di saluto e risalì in macchina, mormorando un criptico “buona fortuna.”
John non ebbe il tempo di chiedergli cosa volesse dire, perché il taxi partì sgommando, quindi si voltò verso il vecchio edificio grattandosi la nuca: a chi era venuta l’idea balzana di tenere una conferenza medica in un posto tanto isolato? D’ora in poi sarebbe stato più attento nello scegliere a quali eventi partecipare e quando invece restare a casa con il suo ragazzo.
Udì una risatina inquietante e dei passi veloci sulla ghiaia e si voltò verso destra, facendo solo in tempo a vedere il lembo di una lunga veste bianca scomparire oltre l’angolo dell’edificio. Si accigliò: chi era la pazza che passeggiava all’aperto in vestaglia con quel freddo?
Di certo lui non sarebbe rimasto lì fuori un minuto in più del dovuto: raggiunse l’ingresso e aprì la porta, sperando di trovare nella hall qualche altro medico con il quale intrattenersi e passare il tempo, visto che nei dintorni non c’erano né pub né ristoranti, ma purtroppo la trovò deserta. L’interno dell’edificio rispecchiava l’atmosfera lugubre e sinistra della facciata, con i tappeti, le tende e la carta da parati sbiaditi e che odoravano di vecchio.
Le assi del parquet consunto scricchiolarono sotto ai suoi piedi mentre si avvicinava al bancone della reception; suonò il campanello e attese almeno cinque minuti che qualcuno si presentasse, ma invano. Decisamente seccato, suonò più forte e guardò verso un lungo corridoio poco illuminato alla sua sinistra, tamburellando le dita sul legno.
“Pazzesco!” borbottò tra sé. Stava per suonare una terza volta quando una mano gelida gli si posò sulla spalla, facendolo sussultare. John si voltò di scatto, trovandosi davanti a una donna di mezza età dallo sguardo arcigno, con folte sopracciglie nere, i lunghi capelli castani divisi al centro esatto della testa e raccolti in una crocchia severa sulla nuca, le labbra circondate da pesanti rughe e piegate all’ingiù in una perenne smorfia di disapprovazione; indossava un lungo abito nero col colletto e i polsini inamidati, che sembrava uscito da un racconto dickensiano.
“Sono qui” disse la donna.
“Mi-mi perdoni” balbettò John, senza sapere di cosa si stesse scusando o perché quella donna gli incutesse un certo timore.
“Lei è il dottor Watson?” domandò lei senza scomporsi, passando dietro al bancone ed aprendo un vecchio registro polveroso.
“Sì - John le porse la carta d’identità - È già arrivato qualcun altro?”
“Non aspettiamo nessuno: lei è l’unico ospite del nostro albergo stasera” rispose la donna, riconsegnandogli il documento.
“No, no, dev’esserci un errore: domani mattina c’è una conferenza medica qui, ci saranno almeno altri trenta dottori.”
“Dottor Watson - replicò lei con voce gelida - faccio questo lavoro da più tempo di quanto lei possa immaginare e sono estremamente precisa nella tenuta delle prenotazioni, non ho mai sbagliato una volta, perciò le ripeto: non ci sono altri ospiti, solo lei.”
John la guardò a bocca aperta: davvero non riusciva a capire, possibile che si fosse sbagliato? Mise mano nella tasca interna della giacca ed estrasse il volantino che riportava i giorni e il programma della conferenza: 1 e 2 novembre. No, era giusto.
Fu tentato di chiedere alla padrona dell’albergo se fosse una burla, ma una sola, rapida occhiata a quel viso severo gli fu sufficiente per capire che quella donna probabilmente non conosceva nemmeno il significato della parola “scherzo”.
Tuttavia John conosceva un buontempone che sarebbe stato capace di architettarne uno: Richard Floyd, un dottore della clinica dove lavorava che non perdeva mai occasione di fare burle ai colleghi, dal cuscino che emetteva scoregge ai ragni finti nascosti negli armadietti in spogliatoio.
John prese il cellulare, pronto a fargli sapere cosa ne pensasse della sua bella trovata, ma non c’era campo.
“Sì - commentò la donna - qui i cellulari non prendono quasi mai.”
“Grandioso… scusi, posso usare il telefono fisso per chiamare un taxi e farmi riportare in stazione? C’è stato un disguido e non dovrei essere qui.” A quel punto preferiva di gran lunga tornare a casa, anche se sarebbe arrivato a Londra a notte fonda.
“Ho paura che non sia possibile: lei è arrivato con l’ultimo treno, non ce ne sono altri prima di domani mattina alle sette.”
“Di bene in meglio - borbottò il dottore - Posso fare lo stesso un paio di telefonate?”
La donna gli indicò una piccola cabina telefonica alla sua destra, nella quale John trovò un anacronistico telefono a disco che gli strappò un sospiro sconsolato: ormai aveva dimenticato come si usava, infatti sbagliò tre volte prima di riuscire a comporre il numero di Richard.
“Sì, chi parla?”
“Divertente Richard, davvero, davvero spassoso” esordì John con un ringhio.
All’altro capo della linea ci fu silenzio per qualche istante, prima che Floyd si azzardasse a chiedere, “John?”
“In persona! Non fingere di essere stupito, ormai non ha più senso.”
“John, amico, sei ubriaco? Di che parli?”
“Dello scherzo che hai architettato, mandandomi a una finta conferenza medica nel bel mezzo del nulla! Chi altri è coinvolto? Sam? Scommetto che è lui.”
“John, devi credermi, io non ho fatto nulla! Mi spiace che qualcuno ti abbia giocato un brutto tiro, ma non sono stato io!”
Il suo collega sembrava sincero, e se fosse stato lui, ora si starebbe vantando dello scherzo: in effetti non aveva senso che continuasse a negare. John si passò una mano sulla fronte e sospirò: “Diamine Richard, mi dispiace essere saltato alle conclusioni…”
“Nah, in fondo un po’ me lo merito. Ma ti dirò, chi ti ha fatto questo scherzo ha avuto un’idea davvero originale: quando scopri chi è stato, fammelo conoscere.”
“Così potete architettarne qualcun altro insieme? Non ci penso nemmeno - rispose John con una risatina - Buonanotte, e scusa ancora per la sfuriata.”
“Di nulla, ci vediamo in clinica.”
La seconda telefonata di John era per Sherlock: voleva informarlo di cos’era successo e forse il suo compagno avrebbe dedotto al volo chi poteva averlo spedito in quell’hotel in mezzo al nulla, perché a quel punto John brancolava nel buio.
Purtroppo Sherlock non rispose al telefono, anche se John chiamò tre volte di fila: dunque era ancora nel suo Mind Palace, pensò il dottore. Pazienza, avrebbe risolto quel piccolo mistero l’indomani, una volta tornato a casa.
Uscì dalla cabina, ormai rassegnato a passare la notte lì, e vide che la padrona si era eclissata nel nulla un’altra volta.
“Di sicuro non avranno una mia recensione positiva su TripAdvisor” borbottò John.
“Signore” disse una voce impassibile, di nuovo alle sue spalle, e ancora una volta John si ritrovò a sussultare per la sorpresa: perché il personale di quell’albergo sembrava specializzato in agguati?
Questa volta si trovò davanti un uomo sulla sessantina, con i capelli bianche e impomatati, rigido e impettito quanto la sua controparte femminile, che teneva in mano il suo bagaglio.
“Ehm…” balbettò John, sperando che l’uomo non avesse udito il suo commento sarcastico.
“Se vuole seguirmi, le mostro la sua stanza. L’orario della cena è già passato, ma se desidera, tra mezz’ora posso portarle qualcosa di caldo” disse, controllando un orologio da panciotto.
“Sì, grazie mille...”
“Edwin, signore.”
L’uomo salì le scale e percorse un lungo corridoio, fiocamente illuminato da alcune applique a muro, la cui luce si alzava e si abbassava di continuo, segno che la corrente elettrica arrivava a sbalzi: il tempo in quel luogo sembrava essersi fermato ad almeno cento anni prima. Dai quadri appesi alle pareti, uomini e donne in abito vittoriano parevano scrutarlo e giudicarlo, e John non riusciva più a togliersi di dosso una strana sensazione di inquietudine, che lo accompagnava fin da quando era sceso dal treno.
Edwin aprì l’ultima porta in fondo al corridoio e poi si allontanò in silenzio.
La stanza era piccola, conteneva solo un letto singolo, uno scrittoio e un armadio, la finestra affacciava sul giardino e, per un istante, John restò a guardare i rami nudi di un albero che gettavano le loro ombre sul vetro, simili a dita scheletriche, poi scrollò la testa con vigore: era solo stanco per il viaggio e aveva bisogno di una doccia.
Il bagno era ancora più piccolo, con un lavandino, un water e una doccia nell’angolo chiusa da una tendina in plastica: squallida, ma meglio di niente. Aprì l’acqua, temendo di doversi rassegnare a lavarsi con acqua appena tiepida, invece divenne calda in poco tempo: per lo meno l’impianto idraulico funzionava a dovere.
Si era già spogliato, quando gli parve di sentir chiamare il suo nome: si affacciò sulla soglia della stanza, trovandola deserta, e aggrottò la fronte: era più stanco di quel che pensasse.
Uscì dal bagno dieci minuti dopo, decisamente rinfrancato; si stava strofinando vigorosamente i capelli con un asciugamano, quando sentì uno squillo vivace: nella stanza era presente lo stesso, vecchio telefono a disco dell’ingresso.
“E adesso cosa c’è?” pensò, e sollevò la cornetta.
“Pronto?”
Non udì altro che un fruscio.
“Pronto?” disse più forte.
Questa volta sentì un debole sospiro e poi qualcuno, non capì se un uomo o una donna, sussurrò “Sto arrivando…”
“Chi parla?”
Chiunque fosse, riagganciò immediatamente.
“Ma che cavolo…?”
Dei passi strascicati provenienti dal corridoio attirarono la sua attenzione: non poteva già essere il servizio in camera, erano passati solo cinque minuti.
I passi si fermarono proprio davanti alla sua stanza, John poteva vedere l’ombra di due gambe proiettata sotto la porta, e la stessa voce enigmatica di prima mormorò: “Per te.”
Sembrava la voce di un serpente, se i serpenti avessero avuto una voce.
Deciso a far luce su quella situazione bizzarra, John si diresse a passo deciso verso la porta e la spalancò: non c’era nessuno.
“Ma che…?”
Era assai improbabile che qualcuno avesse percorso tutto il corridoio o si fosse nascosto in una stanza nei pochi secondi che gli erano occorsi per aprire la porta. Inoltre, John non aveva sentito alcun passo allontanarsi di corsa.
Per scrupolo bussò a tutte le altre stanze, abbassando le maniglie delle porte (tutte chiuse) e tendendo l’orecchio per captare qualche rumore, Nulla.
Dall’alto del suo ritratto, la regina Anna lo guardò malevola.
John tornò nella sua stanza, ora apertamente turbato, e rimpianse di non aver portato con sé la sua pistola.
Una folata di vento mandò a sbattere il ramo di un albero contro il vetro della sua finestra, come la mano della morte che veniva a bussare.
Per lui.
“È ridicolo” si rimproverò, ma dentro di sé non vedeva l’ora di andarsene da quel posto.
Venti minuti più tardi Edwin gli portò la cena: sotto la cloche metallica c’era una zuppa di pollo e due fette di roast-beef con patate.
“Grazie mille, è molto invitante.”
“La signorina Leighton è un’ottima cuoca. Ora la lascio cenare, si ricordi che la colazione è servita dalle sette alle nove e trenta e la stanza va lasciata entro le undici.”
“Sarò fuori di qui molto prima” pensò John, ma non voleva risultare offensivo o paranoico, quindi lo tenne per sé. Tuttavia, prima che Edwin uscisse, gli chiese se era stato lui a chiamarlo al telefono.
“No signore, ero in garage a fare alcune riparazioni.”
“La sua collega, forse?”
“No, la signorina Leighton era in cucina a prepararle la cena. Non l’abbiamo chiamata, non ne avremmo avuto ragione.”
“Allora forse c’è stato un contatto… qualcosa… con questi vecchi telefoni…”
“Se lo dice lei, signore” rispose l’uomo nel tono di voce più educato che gli riuscì, ma dal suo viso era chiaro che pensava che il telefono di John non avesse suonato affatto e che l’uomo soffrisse di allucinazioni.
John ingoiò la silenziosa accusa.
“Uno di voi due è salito sul piano poco fa?”
“No signore.”
“Qualcun altro può averlo fatto?”
“Come le ha già detto la signorina Leighton, lei è l’unico ospite questa sera. Ora, se vuole scusarmi, devo finire quelle riparazioni.”
“Certo, certo, e grazie ancora per la cena.”
“Buonanotte, signore.”
Rimasto solo, John scoprì che aveva completamente perso l’appetito: non se lo era sognato, dannazione! Il telefono aveva squillato e qualcuno si era fermato davanti alla sua stanza. Forse i proprietari erano due psicopatici che attiravano vittime ignare nell’albergo e poi le facevano a pezzi con l’ascia, o avvelenavano loro la cena, come nei vecchi film dell’orrore.
Richiuse la cloche senza toccare nulla e controllò di nuovo il cellulare: niente campo.
Oramai si era convinto che ci fosse qualcosa di strano in quei due e nello stesso albergo, ma tornare a piedi in paese con quella nebbia era sconsigliabile: non conosceva la zona e si sarebbe perso.
Decise quindi di barricarsi nella sua stanza, incastrando una sedia sotto la maniglia della porta per bloccarla e svitando dal muro del bagno il portasciugamani, una barra di metallo che avrebbe calmato un eventuale malintenzionato.
Si avvicinò alla finestra, scrutando il triste giardino: le luci esterne dell’albergo erano accese, ma la luce era talmente fioca che a malapena fendeva l’oscurità; stava per tirare il pesante tendone damascato, quando qualcosa attirò la sua attenzione: una figura avvolta in una veste bianca, la stessa che aveva visto appena arrivato, scivolò veloce ed eterea tra gli alberi. Subito dopo una luce brillante si accese in lontananza e John strizzò gli occhi per capire cosa fosse.
Era una fiammella azzurra che fluttuava placidamente a mezz’aria; alla prima se ne aggiunse una seconda e poi una terza.
La visione gli provocò un brivido di paura lungo la schiena, prima che la parte razionale del suo cervello gli ricordasse che era un medico.
“Sono solo fuochi fatui - esclamò nella stanza deserta, mortificato dal tremore della sua voce - materia organica in decomposizione che prende fuoco a contatto con l’ossigeno nell’aria, un fenomeno perfettamente normale in prossimità di paludi e stagni.”
“Non proprio - ribatté una voce nella sua testa che, senza troppa sorpresa, era quella saccente di Sherlock - prima di tutto i fuochi fatui sono osservabili in estate, mentre adesso siamo in autunno inoltrato, in secondo luogo essi si manifestano a livello del terreno, non a mezz’aria, e soprattutto non si muovono.”
“Cosa cazzo…?” John deglutì a fatica alla vista delle fiammelle che formavano una linea ordinata e si allontanava lentamente, come in una lugubre processione.
Qualcosa grattò all’interno della parete dove era appoggiato il letto e John si ritrasse di scatto, andando a sbattere contro lo scrittoio.
“Ratti. Nelle vecchie case le intercapedini dei muri sono piene di ratti” mormorò, ma la sua voce suonava sempre meno convinta alle sue stesse orecchie, e l’idea di tornare a piedi in paese non sembrava più così brutta.
Un tonfo pesante fece scricchiolare le vecchie assi del pavimento del corridoio: forse uno dei due proprietari stava venendo a sparecchiare. Molto bene, avrebbero parlato da persone razionali e civili e John si sarebbe fatto spiegare che accidenti stava succedendo in quel dannatissimo posto.
Passarono svariati secondi prima che il tonfo si ripetesse e John si rese conto immediatamente che quella non era la cadenza dei passi di una persona. Era… non aveva idea di cosa fosse, ma strinse più forte la barra di metallo, asciugandosi con la manica della camicia un velo di sudore attorno alle labbra.
Un terzo tonfo, più vicino alla sua porta fu seguito nuovamente da un sospiro pesante ed un macabro sussurro: “Sto arrivando… sto arrivando…”
“Bene, io sono pronto” pensò John con determinazione e sollevò la spranga sopra la testa, assumendo la posa di un battitori di baseball. Tese l’orecchio e trattenne il respiro per captare anche il minimo rumore, ma i tonfi sembravano essere cessati.
Stava per rilassarsi appena, quando il telefono squillò di nuovo e la luce si spense; per la paura John lanciò un urlo e l’arma improvvisata gli sfuggì di mano. Nel buio cercò il telefono e sollevò la cornetta, accostandola all’orecchio con mano tremante.
“Pronto? Pronto? SI PUÒ SAPERE CHE DIAVOLO VUOI?” Il dottore inveì con voce isterica contro il silenzio, finché la solita voce sussurrò ancora “per te.”
Sto arrivando per te.
“Cazzo… cazzo…” John si buttò in ginocchio sul pavimento, cercando a tentoni la spranga metallica, ignorando la voce della ragione che gli suggeriva che doveva esserci una spiegazione razionale: era troppo terrorizzato per ascoltarla.
C’era una fottuta presenza in quel posto (la sua mente ancora si rifiutava di chiamarlo fantasma), una presenza che stava arrivando per lui, e John non aveva alcuna intenzione di aspettarla.
Le luci si riaccesero e John individuò la spranga di ferro per terra, la afferrò, balzò in piedi, spostò la sedia incastrata sotto la maniglia e spalancò la porta, pronto a colpire chiunque (o qualunque cosa) ci fosse in corridoio.
Ma non c’era nessuno.
Si mosse a passo veloce verso le scale, quando qualcosa di appiccicoso gli sfiorò il viso e se ne liberò con un gesto isterico, gridando di disgusto: era una enorme ragnatela.
Guardò il pavimento e le scale davanti a sé: erano ricoperte da uno spesso strato di polvere bianca, come se quel luogo fosse abbandonato da decenni. Eppure quando era salito in camera non c’erano ragnatele, né tutta quella polvere, ne era certo, l’avrebbe notata di sicuro.
O forse era stato vittima di una allucinazione e aveva solo creduto di vedere quel posto pulito e abitabile. Qualcuno (qualcosa) gli aveva fatto credere che fosse così.
I suoi timori furono confermati nel momento in cui arrivò davanti alla reception: era imprigionata in una spessa rete di ragnatele che nessuno toccava da anni.
“Edwin! Signorina Leighton!” gridò con voce strozzata. L’eco delle sue parole rimbombò sinistro nell’ingresso, ma nessuno arrivò, nessuno rispose.
Nemmeno i due proprietari esistevano. Non in carne e ossa, almeno.
John corse verso il portone d’ingresso, quando sul muro alla sua destra notò un enorme dipinto: nemmeno quello si trovava lì quando era entrato: ritraeva i due proprietari, lei seduta su una sedia stile impero, lui in piedi, con le braccia dietro la schiena. Una targhetta di ottone sulla cornice riportava la data del dipinto: 1895.
A quel punto John perse la testa, lanciandosi fuori dalla porta.
Nel giardino le fiammelle dei fuochi fatui galleggiavano spettrali e si mossero per andargli incontro non appena John fu fuori dalla porta.
Corse via a perdifiato nell’unica via di fuga libera, incurante del buio e della nebbia fitta e gelida che gli schiaffeggiava il viso, e se non urlava istericamente era solo perché non aveva fiato a sufficienza per farlo.
Inciampò in una radice sporgente e finì lungo disteso a terra, annaspò e scalciò nel tentativo di rimettersi in piedi; le sue mani toccarono una pietra liscia e squadrata e John la usò come sostegno per rimettersi in piedi. Mosse alcuni passi e incespicò in un’altra grossa lastra di pietra.
Usò la torcia del cellulare per capire dove fosse: lo stretto raggio di luce illuminò le lapidi di un vecchio cimitero di campagna.
“Grandioso… davvero grandioso…” ansimò l’ex soldato: non poteva capitare in un luogo peggiore, in una notte terribile come quella. Si guardò attorno freneticamente, temendo di veder emergere il fantasma dalla nebbia.
“No no, i-i fantasmi non-non esistono, non esistono, non esistono…” balbettò, e non sapeva se stesse battendo i denti più per il freddo o la paura. Udì uno sfrigolio sinistro proprio davanti a lui e, dal nulla, un cerchio di fuoco azzurro si accese, illuminando una buca rettangolare nel terreno e una lapide bianca, sulla quale era vergato in caratteri rosso sangue

“John Watson
1971 - 2017”

“Non mi avrai mai!” urlò John. Scappò via di nuovo alla cieca, ma la sua corsa durò molto poco e questa volta finì dentro un basso acquitrino di acqua melmosa.
Una luce più intensa, come quella di una torcia, si accese all’improvviso e dei passi si avvicinarono di corsa.
“Ho detto che non mi avrai!” ringhiò John: afferrò due grosse pietre e le scagliò in successione verso il fascio di luce, che ballonzolò vistosamente. “Vattene! Lasciami in pace!” Le sue mani trovarono un ramo e un altro sasso e li scagliarono contro il presunto fantasma.
Un suono sordo seguito da un mugolio di dolore lo avvisarono che almeno uno dei suoi colpi era andato a segno.
Un momento… ma i fantasmi non erano incorporei? Be’, fa niente, anzi: meglio così se poteva colpirlo. Cercò nell’acqua ulteriori munizioni.
“Non ti avvicinare - minacciò - o per te finisce male, mi hai capito?”
“John! Calmati John, non c’è alcun fantasma, sono io” disse una voce a lui ben nota da dietro la luce abbagliante di una torcia.
John si schermò gli occhi con la mano e riemerse dallo stagno sulle gambe malferme. “S-Sherlock? Cosa ci fai qui? Cosa… cosa…?”
Il viso di Sherlock si aprì in un sorriso smagliante.
“Buon Halloween, John! Ti è piaciuto il mio spettacolo?”
John sentì mancare le forze e ripiombò in ginocchio nell’acqua putrida, mentre la paura lasciava rapidamente il posto a una punta di incredulità, seguita da uno tsunami di furia cieca.
“Sei… sei stato tu a organizzare tutto questo?” domandò incredulo.
“Sì, mi sono preparato per una settimana intera e ho studiato tutto nei minimi dettagli: ti ho inviato la mail di una finta conferenza medica e ho istruito due attori della locale compagnia di teatro a fingersi i proprietari dell’albergo: trovo che lei sia stata particolarmente brillante nel fingersi un fantasma, non pensi anche tu? Per dare un aspetto spettrale all’edificio sono bastati qualche vecchio quadro, ragnatele finte, farina e un po’ di sostanze chimiche sopra a dei droni per simulare i fuochi fatui galleggianti. Il palazzo è usato spesso come set cinematografico negli sceneggiati tv e temevo che l’avresti riconosciuto subito, ma contavo sul fatto che, essendo buio-”
“MA TI HA DATO DI VOLTA IL CERVELLO? PERCHÈ LO HAI FATTO? - urlò John, così forte che due civette si alzarono in volo da un vicino albero, spaventate dallo schiamazzo - Stavo per restarci secco dallo spavento, idiota! È un altro dei tuoi esperimenti del cazzo?”
Sherlock aggrottò la fronte, confuso dalla reazione di John, che evidentemente non era quella che si aspettava.
“Ma… ma no, io volevo solo essere premuroso e farti una sorpresa per Halloween.”
Basito, John si passò una mano nei capelli.
“Premuroso? Come hai solo potuto pensare che spaventarmi a morte fosse premuroso?”
“Lo dice qui” disse Sherlock, sempre più incerto, e porse a John una rivista arrotolata dalla tasca del cappotto.
Era una copia di Cosmopolitan, che riportava cinque consigli infallibili per dimostrarsi un partner attento e premuroso: il primo era quello di non dimenticarsi mai ricorrenze e festività, e di celebrarle con fantasia e un pizzico di follia.
Di follia Sherlock ne aveva avuta fin troppa e a causa di essa John si era preso un colossale spavento ed era finito in una pozza acquitrinosa e puzzolente. Accartocciò il giornale e lo scaraventò in acqua con un ringhio animalesco, sollevando uno schizzo poderoso.
Sherlock sussultò e si ritrasse.
“Sei arrabbiato.”
“Ma che deduzione brillante!”
“Perché sei arrabbiato? Ti ho offerto una vera esperienza halloweeniana, completa e realistica, invece del banale ‘dolcetto o scherzetto’. Il giornale dice che questo metodo è infallibile” borbottò Sherlock, imbronciato.
John si avvicinò a Sherlock con fare minaccioso e gli puntò l’indice contro il petto.
“Numero uno: il realismo estremo della tua geniale trovata è infallibile solo per procurare un infarto a qualcuno, non di certo per uno scherzetto di Halloween, e numero due, Sherlock…”
“Sì?”
“Halloween era il 31 ottobre, cioè ieri!”
Sherlock spalancò la bocca e sbatté le ciglia.
“Il 31 ottobre, sei sicuro? Non il 1° novembre?”
“No, oggi è Ognissanti.”
Sherlock si schiarì la gola, imbarazzato e portò le mani dietro la schiena.
“Ah.”
“Ah? È tutto quello che hai da dire dopo questo?” ringhiò John indicando se stesso, fradicio e infreddolito.
“Ecco, è probabile che il mio profondo disinteresse per le festività in generale e questa festa in particolare mi abbia portato a confonderle. E tuttavia-”
Sherlock non finì mai la frase, perché John lo afferrò per il bavero del cappotto e lo spinse nell’acqua gelida della pozza, tenendogli la testa sott’acqua svariati secondi, per sciacquare via eventuali altre idee balzane come quella.

Dopodiché, senza troppa sorpresa, i due trascorsero la settimana successiva confinati a letto con febbre, tosse e raffreddore.
Mentre appallottolava l’ennesimo fazzoletto usato nel cestino e prendeva la temperatura al suo riluttante fidanzato, John avvertì: “Da ora in poi ti è proibito occuparti di qualsiasi festa per sempre.”
“Sono assolutamente d’accordo” rispose Sherlock tirando su col naso e seppellendosi sotto le coperte.

   
 
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