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Autore: ntlrostova    30/10/2017    1 recensioni
Pensò ai duecentomila yen che doveva raccogliere per i Lil Tykes. Pensò che Sawamura era uno studente dell’università. Pensò a se stesso e Iwaizumi, sei anni, o forse di meno, che si lanciavano un pallone e ridevano.
Era impossibile.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Soles occidere et redire possunt;
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum;
dein, cum milia multa fecerīmus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum. 

- Carmen V / Gaio Valerio Catullo


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Ryuu si grattò la testa e sospirò rumorosamente, augurandosi che Oikawa, seduto accanto a lui, ne venisse infastidito.

Il sole del mattino allungava i suoi raggi roventi, minacciando di ghermirli da un momento all’altro. Già lambiva la punta delle scarpe di Ryuu e un angolo dello sghembo tavolo di legno che il coach Ukai aveva scovato per loro.

Presto l’ombra del tendone del Sakanoshita Store sarebbe retrocessa troppo e non li avrebbe più protetti.

L’aria era immobile e pesante, un silenzio fluido come miele gocciolava dai tetti di una città di campagna addormentata nell’estate.

Ronzando, un enorme coleottero lucido danzò nel cielo, seguendo una traiettoria complicata, ipnotica, e si andò a posare sul bordo del barattolo dei soldi.

Oikawa lo osservò con una certa curiosità, ma distolse immediatamente lo sguardo quando l’insetto riprese il suo viaggio, diretto chissà dove.

Ryuu incrociò le braccia e si accasciò scompostamente sulla sedia pieghevole, curvando le labbra in una smorfia.

Se nel barattolo c’erano degli spiccioli, era per miracolo.

E se il miracolo era successo, era grazie a Oikawa.

Tante persone facevano la spesa di mattina, anche d’estate. Quindi la loro postazione era più che adatta per attirare l’attenzione.

Tante persone erano passate nelle ore in cui erano stati lì, seduti dietro a un cartellone con su scritto — Chiosco dei baci — in rosa e fissato al tavolo con il nastro adesivo.

Tante persone si erano fatte una risata guardandoli e avevano proseguito per la loro strada, senza badare all’espressione minacciosa di Ryuu.

Alcune, però, soprattutto ragazze che passavano a prendere un gelato con le amiche, si erano fermate per baciare Oikawa e avevano lasciato un’offerta.

Nonostante fosse stato Ryuu a ideare l’attività, a chiedere il permesso di posizionarsi davanti al supermarket e a disegnare i cuori sul cartellone, Oikawa aveva più successo e si sarebbe preso il merito del loro misero guadagno.

La cosa lo irritava parecchio.

Ad enfatizzare il suo stato d’animo, Oikawa non era di gran compagnia. Non rispondeva se non in  maniera sarcastica, oppure piagnucolava, e Ryuu già non riusciva a sopportarlo più.

Ed era solo il primo giorno.

“Potresti smetterla di fissarmi in quel modo?” Oikawa si passò una mano tra i capelli.

Non sta sudando, si disse Ryuu, incredulo, sentendo un rivolo di sudore scivolargli lungo la spina dorsale.

La sua maglietta era zuppa, ormai; inoltre aveva dovuto arrotolarsi le maniche fino alle spalle, per cercare di combattere il calore in qualche modo.

Ma Oikawa era completamente asciutto. Anche sulle tempie e sulla nuca. Quella nuova scoperta lo fece infuriare ancora di più.

Continuò a guardarlo in cagnesco, fino a quando quello non si girò in un moto di stizza, “Ho detto pot—”

“Ehm…” Una ragazza si schiarì la voce. La sua sagoma alta incombeva su quel tavolo dalle dimensioni ridicole e su di loro.

Ryuu ci mise un po’ a riconoscere in lei la sua amica d’infanzia. “Kanoka,” esclamò poi, affrettandosi ad alzarsi in piedi. “Da quanto tempo.”

“Ryuu-chan!” lo salutò, sorridente. Anche così, Anamai Kanoka lo superava di quasi tutta la testa.

“Che stai facendo?” gli chiese.

“Raccolgo fondi per i Lil Tykes,” disse Ryuu, gonfiando il petto. “Gratuitamente.”

Lo sbuffo di disappunto di Oikawa venne oscurato dalle parole di Anamai. “Sei un eroe.”

Ryuu scoppiò a ridere. “Certo, lo sono!”

“Allora…” Anamai chinò la testa e i corti capelli neri le sfiorarono gli zigomi. “Posso contribuire?” chiese, mentre un rossore soffuso le si disegnava sulle guance.

“Un bacio sulla guancia costa sessantacinque yen, sulle labbra centotrenta,” la informò Ryuu.

Anamai guardò Oikawa sbattendo le ciglia e Ryuu, rassegnato, fece per sedersi di nuovo.

Mentre si piegava, però, Anamai afferrò il collo della sua maglietta stringendolo in un pugno e attirò Ryuu a sé, mandandolo a sbattere contro il bordo del tavolo.
Lo baciò, prendendogli il volto tra le mani e dischiudendo le sue labbra con la lingua, lasciandogli assaggiare un po’ di quel miele che permeava i silenzi estivi e la nostalgia dell’infanzia.

Fu un bacio duraturo e, quando finì, tutti gli anni trascorsi insieme indugiarono nello spazio tra di loro.

Ryuu borbottò qualcosa di incomprensibile e Anamai liberò una risatina nervosa. Lasciò cadere diverse monete nel barattolo. Tintinnando, fecero da sottofondo alla sua voce mentre diceva, “Ci vediamo, Ryuu-chan.”

Ryuu la guardò andare via e si afflosciò sulla sedia.

Poi si voltò verso Oikawa, permettendo a un sorriso sornione di segnargli il volto.

Oikawa ignorò deliberatamente la sua espressione e allungò una mano per afferrare il barattolo. Con un gesto fluido sparse tutti gli spiccioli che avevano guadagnato davanti a lui e prese a contarli.

Quando ebbe finito emise un altro sbuffo sonoro dal naso. “Che spettacolo osceno.”

Ryuu si strinse allegramente nelle spalle e indicò con il mento il mucchio di soldi. “Quanti sono?”

“Ti ha pagato il doppio,” Oikawa arricciò il naso, increspando la pelle della fronte in una singola, piccolissima ruga indignata e mise su il broncio più grande che Ryuu avesse mai visto.

Dopo un po’ si alzò e, senza rimettere il barattolo a posto, cominciò ad incamminarsi sotto il sole, il viso altezzosamente rivolto altrove.

Non salutò.

Ryuu osservò le sue scarpe da tennis bianche, immacolate, calcare il suolo polveroso con una certa fretta stizzita mentre si allontanavano.

Voleva chiedergli dove stesse andando e ricordargli che la giornata non era ancora terminata, ma, osservando il mucchio di denaro si disse che non aveva bisogno di lui.

Tanaka Ryuu era un uomo, un eroe, a detta di Anamai, ed era più che capace di far funzionare un chiosco di baci da solo.

 
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Hajime strofinò con la spugna insaponata il parabrezza dell’auto che gli era stata affidata quella mattina — sinistra, destra, sinistra, destra. La stringeva forte nella mano per bloccare l’impulso di tirare un pugno in faccia a Kageyama o Hinata (probabilmente Hinata, perché era il più irritante dei due e quello che Hajime conosceva di meno), che stavano discutendo ininterrottamente dall’inizio della giornata.

Il sole picchiava, e Hajime sentiva gocce di sudore scivolargli lungo la schiena, e il movimento regolare della propria mano — sinistra, destra, sinistra, destra — accompagnato dal pensiero, per Tooru, era l’unica cosa che gli impediva di impazzire completamente.

Hajime non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma fu estremamente sollevato quando sentì il sospiro afflitto di Oikawa a mezzo metro di distanza.

Non l’aveva visto arrivare, ma comunque non fu sorpreso quando, alzando lo sguardo dal lavoro che stava svolgendo meticolosamente, lo vide appoggiato con la schiena alla macchina. Oikawa dava sempre l’impressione di appartenere al luogo in cui si trovava: il suo posto era in un campo da pallavolo, ed era ai piedi del divano nel loro appartamento, ed era su un sedile della metropolitana con la spalla premuta contro quella di Hajime.

Il suo posto era anche contro un’auto sporca, con le braccia incrociate sul petto e le sopracciglia aggrottate e le sue stupide scarpe da tennis ai piedi.

Hajime lo amava.

“Che ci fai qui?” chiese ad Oikawa.

Oikawa tirò un altro sospiro teatrale. “Mi annoiavo.”

Hinata strillò qualcosa; Kageyama urlò qualcos’altro.

Hajime e Oikawa li ignorarono.

“Lo dici soltanto perché nessuno vuole baciarti.”

“Tutti vogliono baciarmi, o mi sbaglio, Iwa-chan?” disse Oikawa, sfoggiando un sorriso che significava, Ti conosco. “Sono io che mi rifiuto.”

Hajime rispose soltanto, “Ha!” e poi, perché sapeva che c’era qualcosa che non gli stava dicendo, gli diede una gomitata nel fianco.

Oikawa guardò Hajime dritto negli occhi, poi si guardò le unghie. “Non è abbastanza. Non guadagniamo abbastanza.”

Ah, pensò. Ecco cosa c’è.

“Troveremo qualcos’altro. Quella del chiosco dei baci era un’idea stupida comunque.”

“Oh, Iwa-chan è geloso!” cantilenò Oikawa. “Aspetta, noi?”

“Sì, non li sopporto,” disse Hajime guardando Kageyama e Hinata. “Non c’è niente di utile che sai fare, vero?”

Oikawa rise, rise per davvero. Afferrò Hajime per la maglietta e, tra le risate, ansimò, “Come ti permetti?!” ma era luminoso, e improvvisamente erano vicini.

Quella risata, nasale e imperfetta, gli ricordò Oikawa a tredici anni, che piantava con delicatezza dei boccioli di rosa nel giardino di casa sua come gli aveva insegnato la mamma di Hajime, e che chiedeva di non essere disturbato perché era un lavoro che richiedeva tutta la sua attenzione ma, nonostante ciò, dava corda ad Hajime se faceva una battuta poco intelligente.

Premette i polpastrelli sul pallido avambraccio di Oikawa. “Giardinaggio?”

“Non ci posso credere, tra tutte le cose, hai pensato a quello?” fece Oikawa. “Però hai ragione! Sei un genio, Iwa-cha, un genio.”

“È vero,” disse Hajime. “Nessuno lo capisce.”

Oikawa scosse la testa. “Insieme?”

Non aspettò che Hajime rispondesse. Non ne aveva bisogno.

Allontanandosi dall’autolavaggio, si portò una mano alla bocca, per poi staccarla con uno schiocco e muoverla nella direzione di Hajime.

Hajime afferrò il bacio volante, lo strinse in un pugno, forte come aveva stretto la spugna, e finse di lanciarlo via, lontano da sé.

Oikawa si esibì in un broncio e mimò con la bocca, Iwa-chan!

Hajime lo amava.

 
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Chikara li detestava.

Di solito, passare del tempo con Sawamura e Sugawara non gli pesava. A volte era persino piacevole. Ma questa mattina, questa mattina in particolare, Chikara li detestava.

Se non li stava guardando, o non gli stava parlando, i due, convinti di non essere notati, coglievano l’occasione per baciarsi o fare qualsiasi altra cosa smielata da coppia.

A dire la verità, erano quasi carini, ma c’era una quantità limitata di zucchero che lo stomaco di Chikara poteva sopportare.

Una signora si fermò davanti al loro stand per comprare una busta di biscotti, presumibilmente al bambino che teneva per mano. Chikara portò a termine la seconda vendita di quella giornata e, mentre posava i duecentosessanta yen nel salvadanaio che faceva loro da cassa, vide con la coda dell’occhio Sawamura sussurrare qualcosa all’orecchio di Sugawara.

Sarebbe stata un’estate lunga.
 
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Hitoka si strinse il blocco da disegno al petto e corrugò le sopracciglia, osservando intensamente l’ennesimo passante che lanciava un’occhiata nella loro direzione e si affrettava altrove.

Espirò rumorosamente e si posizionò meglio sul piccolo sgabello di legno, provocando uno scricchiolio.

La piazza era vuota e assolata, ma lei e Shimizu avevano trovato ombra sotto i salici, poco lontane da un ruscello che scorreva vivace alle loro spalle. Un vento impalpabile scuoteva le foglie degli alberi e faceva tintinnare debolmente i campanelli che avevano legato ai rami appena arrivate.

Hitoka non credeva possibile che nessuno fosse incuriosito abbastanza da loro da avvicinarsi.

Strinse le labbra con aspettativa quando vide una donna portare il suo cucciolo a giocare sul prato, ma curvò le spalle non appena passò senza neanche girarsi a guardarle.

“C’è qualcosa che manca,” disse Shimizu, riflessiva.

Sorrise un po’, atteggiando le labbra in una posa seria e pacata, ma nello sguardo che rivolse a Hitoka c’era una luce particolare, affilata, che le ricordò la luna quando in cielo era sottile come un’unghia.

“Potresti farmi un ritratto.”

Hitoka si girò, confusa. “Shimizu-senpa—san, non devi. Voglio dire: la situazione non è tanto disperata. Siamo solo al primo giorno, non c’è bisogno che tu contribuisca.”

Shimizu rise sommessamente, chiudendo gli occhi e nascondendosi le labbra con una mano.

Hitoka si zittì di colpo.

“Non intendevo quello,” disse Shimizu. “Magari se le persone vedessero cosa facciamo e che aspetto hanno i tuoi disegni avranno voglia di comprarli, perciò se vuoi io potrei essere la prima a posare per te.”

Hitoka la guardò a bocca aperta. “Sei un genio, Shimizu-san! Certo, certo che voglio, lasciami prendere le matite!”

Shimizu rise, di nuovo. “Hitoka-chan, fai con calma.”

Poi si sporse dal suo sgabello e si chinò. Un’ondata di profumo, dolce come zucchero filato, investì Hitoka e senza che lei se ne accorgesse, Shimizu le stava posando un bacio sul naso, leggero quanto il tocco di un ladro.

“Abbiamo tutto il tempo.”


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Kenma sfiorò il pelo del cucciolo acciambellato sul suo petto.

Era sdraiato sul divano di Azumane, concentrato nel respirare il più piano possibile per non svegliare Aoi.

Akaashi e Azumane, in cucina, stavano cercando di preparare il biberon della cagnolina, per la seconda volta.

La padrona di Aoi era stata categorica in proposito: doveva bere un litro di latte al giorno e dormire per il resto del tempo, salvo per la passeggiata pomeridiana.

Adesso mancava poco alle cinque, orario in cui aveva detto che sarebbe tornata dalla riunione fuori città che l’aveva tenuta impegnata per tutta la giornata, e loro dovevano ancora darle la sua prima dose di latte quotidiana.

C’entrava Nishinoya, che era riuscito a far esplodere il barattolo di latte in polvere e a perdere il ciuccio in quello che a Kenma era sembrato un solo gesto.

Dopo aver fatto una corsa al più vicino supermercato e aver recuperato il materiale necessario al nutrimento di un cane praticamente appena nato, Nishinoya era stato allontanato dalla cucina e da Aoi.

Ora stava ripulendo il disastro che aveva combinato sul pavimento di Azumane. “Ma non fa niente!” si lamentò, gesticolando nella sua direzione.

Per un attimo Kenma si sentì offeso dall’accusa, poi si rese conto che era ad Aoi che si riferiva.

“Che ti aspetti?” gli chiese.

Per tutta risposta, Nishinoya sbuffò e strinse la scopa con stizza, spazzando con più foga del necessario.

Kenma sentì il cellulare vibrargli nella tasca. Con un po’ di difficoltà, riuscì a districarsi e a estrarre l’oggetto dai jeans. Sullo schermo, brillava l’avviso di arrivo di un messaggio.

da: Kuro

Guarda che roba, Kenma.

In allegato al messaggio c’era una foto di Bokuto, mossa e parzialmente in controluce. Sembrava stesse gesticolando ampiamente con le braccia. Sullo sfondo una coppia di mezza età con un’espressione sconcertata sul volto lo fissava.

Kenma trattenne una risata.

a: Kuro

Si è scritto “Asso della Limonata” sulla maglietta?

da: Kuro

Con un pennarello indelebile.

da: Kuro

Bokuto porta le cose a un livello superiore.

a: Kuro

Dillo che sei invidioso che l’idea non sia venuta a te.

da: Kuro

No.

a: Kuro

Invece sì.

da: Kuro

Invece no.

a: Kuro

Sì.

da: Kuro

No.

 Akaashi sbucò fuori dalla cucina, un’espressione trionfante in volto e i capelli schiariti dalla polvere bianca della formula.

Stringeva il biberon in una mano. “Dovremmo svegliarla?”chiese.

Kenma scrollò le spalle. “Mi sembra anche ora.”

“Con chi parli?” Akaashi accarezzò con delicatezza Aoi fino a quando quella non aprì gli occhi e sbadigliò, mostrando una dentatura quasi inesistente.

“Kuroo,” disse Kenma, raddrizzandosi dopo che Akaashi ebbe preso in braccio la cucciola.

Notò che Azumane aveva recuperato una paletta e stava aiutando Nishinoya a ripulire, cosa che sembrò mettere quest’ultimo di ottimo umore.

Mostrò la foto ad Akaashi che scosse la testa e distolse immediatamente lo sguardo, concentrandosi sul nutrire Aoi, ma Kenma lo vide sorridere e cercare di nasconderlo.

Gli arrivò un altro messaggio.

da: Kuro

Comunque la risposta è no.

a: Kuro

Ti stai annoiando, Kuro?

da: Kuro

No.

a: Kuro

Sì.

da: Kuro

No.

a: Kuro

Bene. Allora vado. Ci vediamo dopo. (ΦзΦ)

da: Kuro

Aspetta, Kenma. È un bacio, quello?

a: Kuro

No.

da: Kuro

Oh, sì che lo è. Non cercare di prendermi in giro.

a: Kuro

Ti sbagli.

da: Kuro

(~ ̄³ ̄)~

da: Kuro

|( ̄3 ̄)|

da: Kuro

( ̄ε ̄ʃƪ)

a: Kuro

Smettila.

 
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Kuroo stava sorridendo allo schermo del suo cellulare.

Gli fece uno strano effetto. Tadashi sapeva che era perché non lo conosceva, ma quel sorriso così affezionato sembrava non appartenergli. O, perlomeno, non all’idea di Kuroo che si era fatto.

Si chiese se era così che gli altri vedevano Tsukishima.

Bokuto, dalla sua postazione d’attacco di fianco al cartello che riportava nella calligrafia di Tadashi — Limonata artigianale a 130 yen! — lanciò un’occhiata a Kuroo. Dopodiché, si sporse oltre il bancone per dire qualcosa a Tsukishima, che se ne stava seduto con il mento appoggiato alla mano e un’espressione annoiata in volto.

Il suo intento era, evidentemente, quello di sussurrare, ma tutti e tre lo sentirono quando disse,  “Kuroo e Kenma si stanno baciando.”

Tadashi fece strisciare la sua sedia vicino a quella di Tsukishima.

“Ricordami perchè sono qui,” disse Tsukishima quando Tadashi gli fu abbastanza vicino da poter sentire la sua voce sottile sopra il battibeccare di Bokuto e Kuroo.

“Perchè sei una brava persona.”

Ghignò quando sentì Tsukishima sbuffare e aggiunse, “E anche perchè vuoi stare con me.”

Tsukishima, in risposta, scrollò soltanto le spalle, ma aveva le orecchie rosse mentre lo faceva. Poi si aggiustò gli occhiali sul naso, e la pelle sulle braccia di Tadashi prese a formicolare.

Due ore dopo, sulla strada di casa, erano lenti e muti e Tadashi formicolava ancora.

La giornata era stata estremamente noiosa. Avevano venduto soltanto due limonate: una ad una bambina con le ginocchia sbucciate e soltanto cento yen alla quale Tadashi non aveva saputo dire di no; l’altra ad Akiteru: aveva scompigliato i capelli al suo fratellino, e chiesto a Tadashi come stava, e alla fine aveva stretto la mano a Bokuto tre volte come se avesse portato a termine l’affare migliore della sua vita.

Ma nonostante ciò, Tadashi fremeva.

Era la sua reazione naturale a Tsukishima, ai suoi occhi dorati e alle sue sopracciglia aggrottate.
 
Voleva fare qualcosa.

“Tsukki?”

“Mh?”

Tadashi gli strinse il polso con l’indice e il pollice.

Tsukishima si fermò e si voltò per guardarlo negli occhi. Tadashi sentiva il proprio cuore battergli in gola, quello di Tsukishima battergli sotto i polpastrelli.

Molto lentamente, la mano a cui Tadashi era ancora aggrappato si mosse per spostargli una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Tadashi se la portò alle labbra, e vi stampò un bacio al centro del palmo. Tsukishima gli strofinò il ponte del naso con il dito medio.

Tadashi gli sorrise, trasparente ed onesto, e Tsukishima tremò alla sensazione di denti contro pelle.

Tum, tum, tum — erano così vivi.

 
______________


Aspettavano Bokuto da più di un’ora nel salotto di Asahi.

Nishinoya, disteso sullo stomaco, sfogliava svogliatamente le pagine di un fumetto sul pavimento; Akaashi era seduto a braccia conserte sul divano e continuava a lanciare occhiate al suo cellulare, che aveva posato sul tavolino.

Asahi si era offerto di ospitarli per tutto il tempo della raccolta fondi, dato che Kozume si era già messo d’accordo con Hinata e loro erano arrivati a Miyagi con le valigie e senza nessun posto dove stare. Bokuto ci aveva già passato una notte, quindi avrebbe dovuto conoscere la strada.

Eppure non tornava.

Asahi camminava a passo cadenzato davanti alla finestra, guardando la strada con insistenza e mangiando nervosamente dei cereali direttamente dalla scatola.

La padrona di Aoi era venuta a prenderla esattamente due ore fa, consegnando i tremilatrecento yen che doveva loro per il servizio, e Kozume era andato via quando Kuroo aveva chiamato per dirgli che stava andando al ristorante per incontrare Hinata.

“Sei sicuro che non si sia perso?” chiese ad Akaashi, masticando rumorosamente.

L’altro emise un mezzo sbuffo. “Oh,” disse. “Ma lui si è perso.”

Il suo tono lanciò un brivido lungo la spina dorsale di Asahi, che rimase fermo per un istante, stringendo una manciata di cereali nel pugno bloccato a mezz’aria.

“E non vuole chiamarmi perchè ha paura che io gli faccia la predica. Ma dovrà farlo, prima o poi.”

“Perchè non lo chiami tu?” Nishinoya rotolò sulla schiena, sollevando le gambe. Cominciò a pedalare per aria, raggiungendo una velocità tale che i suoi piedi non erano quasi più visibili.

“Perchè—”

In quel momento, il telefono di Akaashi si illuminò, rivelando una foto di Bokuto con un sorriso aperto e fiducioso, grande quanto il sole.

Akaashi scattò verso il telefonino, interrompendo la bicicletta di Nishinoya, e lo afferrò.

“Bokuto-san?” disse nel ricevitore. Ci fu una pausa, Asahi riusciva a sentire la voce di Bokuto dal suo posto vicino alla finestra, anche al di sotto dello scricchiolio dei cereali che stava masticando, ma non riusciva a comprendere ciò che stesse dicendo.

Akaashi sospirò. “Arrivo.”

Allontanò il telefono dall’orecchio e si rivolse ad Asahi. “Vado a recuperarlo. Dice di essere vicino alla drogheria dove ieri abbiamo preso i mochi.

“Ma quella è dietro l’angolo!” esclamò Nishinoya.

Per tutta risposta, Akaashi sollevò un braccio e lo lasciò ricadere lungo il fianco come a dire, cosa vuoi che faccia?

Uscì dalla porta, riportandosi il cellulare all’orecchio. Prima che la chiudesse, Asahi riuscì a sentirgli dire, “Sì, Bokuto-san, sono ancora qui.”

Nishinoya si sollevò sui gomiti per osservare la porta che sbatteva e reclinò il collo all’indietro per posare gli occhi su Asahi. “Ti preoccupi troppo.”

Asahi mise da parte la scatola di cereali mangiati a metà scrollando le spalle.

Scostò il tavolino e si sdraiò accanto a Nishinoya, che sorrise in quel modo che squarciava il petto di Asahi, solo a metà, solo uno spiraglio che fendeva la notte.

Il cuore prese a battergli più forte quando Nishinoya gli poggiò i polpastrelli su una tempia e fece scivolare le dita nei suoi capelli, in parte sfuggiti all’elastico. “Se continui a stressarti diventerai calvo.”

“È per non stressarmi che ho preso un anno di pausa,” gli rispose Asahi, guardandolo negli occhi. Di solito erano due fuochi divampanti, in incessante movimento, ma quando erano soli diventavano silenziosi e attenti, come un paesaggio venato di malinconia.

“È perchè hai paura di non farcela.”

Asahi deglutì. Non avevano mai affrontato l’argomento direttamente, ma Nishinoya lo conosceva. Con lui le parole diventavano superflue.

Gli sfiorò le ciglia. “Ti va di restare, stasera?”

“Il tuo appartamento è troppo affollato, Asahi-san.” Nishinoya districò le dita dai suoi capelli e si chinò lentamente, toccando appena con le labbra la pelle del suo zigomo per poi risalire lungo la curva del naso. Lo baciò in mezzo alla fronte per un lungo istante, prima di staccarsi con uno schiocco.

“Vado a casa,” disse. Lo baciò ancora, nello stesso punto in cui bruciava l’impronta che aveva lasciato prima, poi si mise in piedi velocemente.

“Ci vediamo domani, Asahi-san!” Quasi lo strillò e Asahi dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere.

Nishinoya era il fuoco. Indomabile, irrequieto, irruente.

Aprì la porta e si ritrovò davanti un Akaashi con il pugno sollevato, pronto a bussare, e un Bokuto che si torceva i lembi della maglietta, blaterando concitatamente.

Si bloccò quando vide Nishinoya e, più in là, Asahi, ancora sdraiato sul pavimento.

Fece un passo indietro e mise su un sorriso presuntuoso. “So benissimo cosa stavate facendo.”
 

______________


Akaashi non aveva detto una parola da quando era andato a prenderlo davanti alla drogheria, né durante il percorso del ritorno, assurdamente breve, né mentre salivano le scale.

Perciò era stato Koutarou a rompere il silenzio, parlandogli di quello che aveva fatto in giornata, di tutti i potenziali clienti che si erano lasciati sfuggire l’irripetibile occasione di assaggiare la limonata di Yamaguchi (“sul serio, Akaashi, è un nettare!”), di come aveva detto a Kuroo di poter ritrovare facilmente la strada per arrivare da Azumane e di come invece era finito a vagare per Miyagi, nonostante Akaashi l’avesse chiamato poco prima per chiedergli se lui e Azumane dovessero venirgli incontro (“no, Akaashi, so benissimo che strada fare.”).

Si era fatto prendere dal panico quando aveva visto tutte le saracinesche dei negozi abbassate. Solo allora aveva deciso di ingoiare il suo orgoglio e chiamare aiuto.

Ora, nella stanza degli ospiti di Azumane, spoglia tranne che per un letto, un cassettone e le loro valigie, Bokuto sedeva a gambe incrociate sul futon che Azumane gli aveva procurato, scusandosi profusamente perchè non aveva un altro letto.

I capelli umidi gli ricadevano in ciocche scolorite sulla fronte e lui guardava assorto le goccioline d’acqua cadere sulla stoffa del futon e disegnare cerchi scuri.

La porta si aprì, spinta da Akaashi, che sbadigliò, tirandosi un asciugamano attorno al  collo.
 
Koutarou sollevò la testa e sorrise. “Akaashi, ti ho lasciato il letto stasera. Hai detto che avevi mal di schiena.”

Akaashi lo guardò. “Il futon non c’entra nulla con il mio mal di schiena, Bokuto-san.”

“Non puoi saperlo, magari quel letto fa miracoli.”

“Mh.” Akaashi si sedette sul bordo del letto in questione e, senza una parola, si sdraiò su un fianco, dandogli le spalle.

“Grazie,” borbottò, rivolto ostinatamente al muro e tirandosi le ginocchia al petto.

“Devo… spegnere la luce?” chiese Koutarou.

“Fa’ un po’ come vuoi,” rispose Akaashi, la voce già impastata dal sonno. “Non c’è differenza.”

Akaashi riusciva a dormire a qualsiasi ora del giorno, in qualsiasi situazione. Persino sulle scale della Fukurodani durante la pausa pranzo.

Koutarou lo riteneva una specie di superpotere. Akaashi ne aveva tanti. Poteva fare un castello di carte in dieci secondi, disegnare un gufo con solo un tratto di penna e, due volte su tre, indovinava correttamente cosa sarebbe uscito dal lancio della moneta.

Riusciva sempre a capire la causa dei malumori di Koutarou e a trovare una soluzione.

Il suo era un superpotere.

Akaashi era bravo anche a nascondere i suoi sentimenti, ad accumulare la frustrazione e a tenersi dentro tutto, rischiando di esplodere.

“Ho fatto qualcosa, Akaashi?” gli chiese. “Sei arrabbiato?”

Koutarou lo guardò di sottecchi e lo vide alzarsi a sedere, stropicciandosi con forza gli occhi. Si sentì immediatamente in colpa perchè si vedeva che era stanco e forse era per quello che non voleva parlargli ed era del tutto comprensibile.

Anche se Koutarou aveva voglia di un abbraccio e di inventarsi una storia della buonanotte da raccontargli, una che l’avrebbe fatto ridere, come succedeva sempre ai campi di allenamento, quando Akaashi era costretto a nascondere la faccia nel cuscino per non rischiare di svegliare gli altri con le sue risate.

 Akaashi scosse la testa. “Mi manchi.”

Il cuore di Koutarou smise di battere per un secondo a quell’affermazione. “Ma sono qui,” sussurrò.

“Lo sai cosa intendo.”

Koutarou lo sapeva. Akaashi era occupato con la scuola e la squadra e lui con i suoi studi e con il capire cosa volesse fare della sua vita.

Non c’era tempo per loro.

Per quanto Koutarou provasse a fermarlo, a mandarlo indietro o a dilatarlo, non aveva quel superpotere.

E neanche Akaashi.

Annuì. Provò a dirgli che lo amava, ma Akaashi riprese a parlare e incrociò le braccia. “Volevo stare con te.”

Improvvisamente, Koutarou capì. “Akaashi!”

Sorrise. “Sei geloso!”

Akaashi emise un piccolo sbuffo dal naso. “No,” disse. “Non capisco perchè non possiamo badare ai cani assieme. Tu li adori.”

“È che io non sono bravo a prendermi cura di nessuno,” rispose Koutarou. “Ho paura di mandare all’aria tutto.”

Si strinse nelle spalle e prese a mordicchiarsi una vecchia pellicina.

Koutarou sollevò lo sguardo su Akaashi, che distese le braccia verso di lui, inclinando leggermente la testa da un lato, vieni qui.

Si sollevò dal futon e andò sedersi sul letto, provocando uno scricchiolio delle molle. Cinse la vita di Akaashi e incastrò la testa nell’incavo del suo collo. Il suo cuore batteva forte e regolare sotto il tessuto del pigiama, scontrandosi con il timpano di Bokuto.

Sentiva il respiro di Akaashi e l’odore del suo bagnoschiuma. Tentò di dirgli che lo amava.

Appena le parole gli affiorarono alle labbra, però, perdevano di significato e Koutarou restava muto, sopraffatto da quel sentimento soffocante e totalizzante.

“Se proprio non vuoi posso venire io da te,” Akaashi prese ad accarezzargli una guancia con le nocche, tanto delicatamente che Bokuto quasi non avvertiva il contatto.

“No, Akaashi.” Koutarou sollevò il volto per guardarlo negli occhi e si ritrovò a pochi centimetri dalle sue labbra. “Ti conosco. Tu adori i cani.”

Akaashi gli poggiò il palmo sul volto e rise piano. “Hai rubato la mia battuta.”

Koutarou sollevò una mano e percorse con le dita il profilo liscio di quella di Akaashi. Scese lentamente, sfiorandogli il polso e risalì lungo il dorso della sua mano. Con il pollice, Akaashi prese a disegnargli dei piccoli cerchi sulla pelle. Koutarou lasciò andare un respiro tremante.

Voleva dirgli che lo amava, ma aveva la gola riarsa, perciò girò il volto nel suo palmo e gli baciò il polso.

Una, due, tre volte, sperando di lasciare il segno, sperando che i superpoteri di Akaashi gli permettessero di capire anche ciò che lui non riusciva a dire.

“Dovremo trovare un altro modo per vederci, allora.”Akaashi appoggiò la fronte contro quella di Koutarou e chiuse gli occhi.

Koutarou lo vide sorridere. “Speravo che avessi una storia da raccontarmi,” disse, l’ombra di una richiesta nella voce.
 

______________


Erano diretti alla fermata dell’autobus.

Dopo aver passato l’intera giornata a strofinare finestrini di auto e a litigare con Kageyama, Shouyou non si sentiva per niente stanco.

Anzi, sperava che, una volta a casa, Kenma avrebbe avuto voglia di fargli qualche alzata e Kuroo di murare le sue schiacciate.

I due lo stavano seguendo, chiacchierando sottovoce.

Kageyama, invece, gli camminava a fianco. Aveva borbottato qualcosa sul fatto che casa sua era da quella parte ed era stato in silenzio per tutto il tragitto, procedendo con le mani infossate nelle tasche e un enorme cipiglio sul volto, come quando doveva decidere che tipo di latte prendere ai distributori durante la pausa pranzo.

“Pensi che Iwaizumi-san voglia cambiare lavoro perchè preferisce stare con il Grande Re?” gli chiese, tanto per riscuoterlo da ciò che stava pensando.

Kageyama distese i lineamenti, solo un po’, e lo guardò di traverso. “È colpa tua se se ne va. Non ti sopporta.”

Shouyou si fermò di colpo. “Eh?”

“Continuavi a urlare di voler usare la canna dell’acqua.”

“Questo perchè l’hai tenuta tu per tutto il tempo.”

“A lui danno fastidio i litigi.” Kageyama sollevò un angolo delle labbra.

Shouyou si rese conto che si erano fermati nel mezzo della strada solo quando Kenma e Kuroo li raggiunsero.

“Che succede?” chiese Kuroo, facendo oscillare lo sguardo tra loro due.

Shouyou riprese a camminare. “Non stavamo litigando.”

“È bello essere ignorati,” esclamò Kuroo.

“Di solito due persone che si insultano a vicenda stanno litigando,” ribatté Kageyama.

“Non noi.” Shouyou scosse la testa. “Non sul serio.”

Stavolta fu Kageyama a fermarsi. Sollevò la testa e fissò il vuoto per qualche secondo, pensando probabilmente a quella volta in cui avevano litigato davvero, quella volta in cui Shouyou aveva temuto di aver perso il suo miglior alleato; poi si girò a guardarlo, le rughe tra le sopracciglia completamente scomparse, un’espressione sorprendentemente vulnerabile in viso.

“Già,” disse solo.

“Ehi, ragazzi.” Kuroo li raggiunse di nuovo. “Dovete smetterla di fermarvi all’improvviso.”

“Andiamo avanti.” Senza staccare gli occhi da cellulare, Kenma strattonò Kuroo per il lembo della maglietta e lo costrinse a seguirlo.

Shouyou e Kageyama rimasero a fissarsi dai bordi opposti della strada.

“Come sanno dove andare?” chiese Kageyama, dopo un po’.

Shouyou scrollò le spalle. “GPS o qualcosa del genere, credo.”

Ripresero a camminare di nuovo.

“Perchè hai accettato di partecipare alla raccolta fondi?” domandò Shouyou, affrettandosi per tenere il passo.

“Perchè non avrei dovuto?” Kageyama se ne accorse e camminò più velocemente.

Shouyou lo maledisse mentalmente, pronto a disputare l’ennesima gara di velocità.

“Per via del Grande Re,” rispose Shouyou. “Non ti spaventa più?”

“È ancora terrificante.” Kageyama rallentò un po’. “Però i Lil Tykes sono davvero importanti.”

“Importanti?”

“Sì. Aiutano gente come noi a capire cos’è che vogliono veramente, chi vogliono essere fin da bambini.” Per la terza volta, si fermarono.“È una cosa importante, no?”

Dal modo in cui Kageyama posò lo sguardo su di lui, Shouyou capì cosa voleva dire. Loro erano uguali. Sapevano di voler giocare a pallavolo, solo quello. Senza non avrebbero avuto un obbiettivo. Senza non si sarebbero trovati.

“Non dovresti aver paura del Grande Re,” disse Shouyou, di getto. “Non dovresti aver paura di niente.”

Kageyama si avvicinò di un passo. “Vuoi giocare?”

“Eh?” Shouyou rimase interdetto per un istante, chiedendosi se avesse sentito bene. “Ora?”

Kageyama sembrò arrossire di colpo e si coprì la bocca con una mano. Emise una serie di versi concitati e incomprensibili, ma infine riuscì a sibilare tra i denti. “Lascia perdere.”

A testa bassa, le sopracciglia aggrottate e le spalle curvate, per la terza volta, Kageyama riprese a camminare.

Per la terza volta, Shouyou lo seguì.















 
   
 
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