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Autore: Avareil    06/11/2017    5 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“E’ fatta?”.
Mani tremanti ancora sporche di terra.
“Suppongo di sì”.
Una voce profonda ma morbida, quasi emozionata.
“Supponete?! Non ne avete la certezza?” in quello scambio di battute a mezza voce Persefone gli aveva rivolto uno sguardo dubbioso e quasi sconcertato.
“Perdonami mia signora-“ un sorriso storto aveva illuminato il cupo volto del dio,
“vorrei farvi notare che questa è anche per me la prima volta. Nessuna divinità prima d’ora aveva compiuto un siffatto rito né mai prima d’ora io ne avevo sentito il bisogno”.
Un sorriso genuino questa volta aveva contagiato gli occhi solitamente tristi del sovrano; non vi era furore o brama in quello sguardo indirizzatole senza imbarazzo, quanto piuttosto una sottile delicatezza.
 
Lei gli si era promessa, lui le si era promesso.
 
Con le gote di un leggero colore rosato, la dea aveva ricambiato quello sguardo fatto di incredulità e al contempo emozione.
“Avete ragione. Perdonate la mia superficialità… vorrei solamente avere la certezza che quanto è stato compiuto sia stato fatto nel modo giusto”.
“L’Averno non segue queste categorie: l’Erebo non conosce il giusto di superficie”, la solenne affermazione del dio ctonio aveva ricevuto in risposta uno sbuffo di Persefone che, tiratasi su dal terreno umido con ancora le mani leggermente bagnate, l’aveva schizzato in volto sorprendendolo oltre misura.
“Allora spero di averlo fatto come esige l’Averno, mio promesso sposo”.
Era raggiante.
 
 
 
Era stato strano. Un dio come lui, avvezzo ai tradimenti e alle menzogne, avrebbe ritenuto quella celebrazione fin troppo semplice.
Non avevano chiamato nessun testimone, solo lo Stige avrebbe presenziato quel rito.
 
Persefone aveva preso con delicatezza il frutto dalle mani del signore dell’Averno e con riguardo ne aveva osservato la forma, soppesato il peso, odorato il profumo così fresco e diverso dal tanfo avernale. Aveva gustato quel melograno con gli occhi, persa in una sorta di limbo nostalgico che l’aveva trascinata nuovamente sulla superfice, di fianco alla madre, dinnanzi a distese di campi arati e ricchi di colori caldi.
 
“Venite Ade, dovete starmi di fianco” un sospiro morbido aveva ridestato Ade, perso nell’osservare i movimenti lenti della dea davanti a lui.
 
“Non credo sia una buona idea… voi siete la vita e io… esattamente l’opposto.” Un sorriso sghembo si era allargato su quel volto triste e pallido.
“Temo che anche semplicemente la mia presenza possa distruggere quel soffio vitale”.
“Non siate sciocco” cristallina lei lo aveva apostrofato con impeto.
“Come potete nuocere se io e voi siamo i beneficiari di questo dono? Il vostro nome è scritto su questo frutto, proprio di fianco al mio. Fatevi avanti, vi prego”.
Una mano reggeva il melograno, l’altra si era stesa verso di lui: invitante, innocente, speranzosa.
Con un sospiro strozzato in gola Ade aveva accettato quell’invito e, mossi due passi, le si era fatto di fianco.
Lei piccola e sorridente stava dinnanzi a lui, cupo in volto e con l’ansia dipinta in ogni ruga intorno agli occhi.
“Porgete le mani, dio”. Un sopracciglio sollevato a quella richiesta, il dubbio palesemente espresso con un “uhm” sfuggito dalle labbra strette.
“Fidatevi. Io di voi mi sono fidata”, un cipiglio gentile, quasi materno, aveva rassicurato impercettibilmente il dio che, con le mani davanti a sé, attendeva qualsiasi destino.
Persefone aveva sorriso e, allungato il frutto sopra quelle, ne aveva forzato la scorza dura svelandone il contenuto rosso scarlatto.
Preso un chicco tra le dita aveva mormorato un caloroso saluto, come quando si rivede un caro amico dopo tanto tempo e, con grande stupore del dio, lo aveva avvicinato alle labbra saggiandone il sapore fresco.
“Mia signora?”
“Shh…”, con gli occhi ancora chiusi aveva sollevato un indice verso il dio avernale, chiedendo solo un secondo per poter assaporare le meraviglie di quel chicco succoso. Solo dopo, quando la lingua aveva trovato soddisfazione, aveva preso un altro chicco per avvicinarlo questa volta alla bocca del dio.
Non aveva dovuto dare alcuna spiegazione: Ade, serio in volto, quasi colto da una bramosia sacra, aveva schiuso le labbra accettando quel dono di superficie.
Una scossa aveva percorso la spina dorsale della dea quando le dita avevano sfiorato la pelle insolitamente calda dell’avernale mentre una serpe dalle mille spire aveva stretto il cuore del dio portandolo a gemere per un desiderio primordiale che gli comprimeva il basso ventre in una dolorosa costrizione; ma non solo lì sentiva affluire il nero sangue. Il suo cuore pompava forsennatamente mentre il succo del melograno bagnava la sua lingua.
 
Come folgorato, capendo il senso di quel gesto, di quella offerta dolciastra, aveva preso quella mano tra le sue e ne aveva sfregato la pelle contro la guancia: un gesto carico d’amore e devozione.
“Vi sono legata-” un bisbiglio solenne che solo lui, a pochi centimetri da lei, avrebbe potuto udire.
“vi sono legata. In superficie questo è un rito di fedeltà e io mi lego a voi. Vi sono fedele, mio sovrano”, ora Persefone ne aveva preso una mano e stretta tra le sue, ne aveva baciato il dorso freddo.
 
Ora capiva perché la dea gli aveva offerto quel frutto prima di qualsiasi rito avernale: voleva legarlo a sé già nella sua dimora, portarlo con sé anche in quei due mesi di distacco: era sicura che non avrebbe cambiato idea.
 
E lui lo sperava, maledettamente.
 
Con sentimento aveva pronunciato a sua volta quel voto semplice e sentito
“Mia signora, vi sono legato. Il mio cuore è vostro.
La superficie che già ci vede uniti sia testimone all’Erebo di questo patto. Sono perdutamente vostro”.
Avevano giurato entrambi dinnanzi allo Stige che ode ogni vincolo e lì, proprio di fianco alla vita di Ade, Persefone si era inginocchiata per scavare il riparo del frutto.
 
Aveva mosso le mani in silenzio: esperta nell’arte e guidata dal proprio dono aveva visto in quel guscio di terra il nucleo della sua felicità.
“Siete sicura?” una domanda formulata quasi con timore.
“Di noi sono sicura”.
Ricoperto il melograno con la brulla terra della sponda, si era tirata su.
Ora, ammantata del silenzio del rito, la dea aveva mosso dei passi verso la conca dei quattro fiumi avernali per raccogliere nelle mani a coppa quanta più acqua possibile.
Aveva infine versato il liquido denso sul piccolo cumulo di terra smossa mentre le labbra bisbigliavano il nome del suo promesso.
Poi, in silenzio, si erano presi per mano.
 

---
 
 


Perché era scappata?
Non lo sapeva.
Perché soffriva?
Il suo cervello si rifiutava di trovare una qualche scusa valida.
Perché quell’organo in pieno petto le doleva come se fosse stato appena frantumato in mille e più pezzi?
Disperata e con la mano artigliata all’altezza del cuore Estia si era data alla fuga. Una fuga folle e immotivata: questo le diceva la mente fredda e razionale. Una fuga dal dolore: questo invece le suggeriva l’animo turbato e sofferente.
Quelle parole, scagliatele contro con rabbia e angoscia, l’avevano ferita in maniera disumana: un cuore umano non avrebbe retto quella sofferenza e lei, per sua fortuna, era una dea, una dea di fuoco. Quel muscolo, fatto di fiamma a sua volta, avrebbe resistito a qualsiasi dolore anche contro la sua stessa voglia di spegnersi.
Aveva solo bisogno d’ossigeno.
Aveva solo bisogno di stare da sola.
Come sempre.
 
Per questo aveva abbandonato il braciere dell’Erebo e sempre con questa giustificazione impressa nella mente aveva riguadagnato la consistenza corporea per fiondarsi fuori dal tempio desolato.
 
Se avesse avuto ancora una voce avrebbe urlato.
Ma ella non aveva un fiato in corpo che potesse essere distolto dai singhiozzi che le sconquassavano il petto.
Rabbia e dolore, sentimenti diabolici.
Persa in lande disabitate più sentiva il tintinnare delle cavigliere più un’ira cieca le montava nel petto soffocando qualsiasi barlume di lucidità.
“Vi odio…vi odio…”
Un mantra spietato le riempiva la mente mentre le immagini di Radamanto in piedi dinnanzi a lei le scorrevano davanti agli occhi bagnati e vacui.
Un mantra che presto si era spento in un “mi odio” mormorato a mezza voce.
Sfinita, infine, si era lasciata cadere al suolo: il viso stretto tra le mani mentre lacrime calde come lapilli di lava le solcavano le guance pallide e tirate.
 
“Sorella?-”
Una voce lontana la chiamava.
“Estia, mia dolce sorella? Anche voi distrutta?!”

 
Con gli occhi sgranati, la dea di fuoco aveva sollevato il viso verso quella voce così tanto familiare e così a lungo cercata.
Una Demetra insolitamente magra e smunta era davanti a lei, anche ella recava i segni di una pena indicibile in ogni ruga, in ogni smorfia di quel viso funereo.
 
“Demetra? Siete voi?” Estia, incredula e ancora scossa dai singhiozzi, le aveva rivolto uno sguardo implorante mentre le mani, tremanti, si erano fatte strada verso la veste sgualcita e logora della dea minore.
“Capisco il vostro sconcerto…non sembro più io, lo so”, un sorriso amaro aveva irrigidito il viso scarno di Demetra che, come presa da un ‘infinita stanchezza si era inginocchiata al suo cospetto.
“…Un dolore atroce mi avvelena il cuore. Mi è stato tolto tutto cara Estia e voi ben sapete a cosa io mi riferisca. Mia figlia è smarrita”, a quel punto aveva allungato le braccia per accogliere contro il suo petto la sorella persa nel dolore a sua volta.
“Ma voi invece? Perché vi disperate?”
“Vi prego-“Estia, come improvvisamente focalizzata su questioni ben più importanti del suo sconcerto, si era asciugata il volto bagnato con il dorso della mano e, riguadagnato un briciolo di contegno, aveva pregato la sorella.
“non badate al mio dolore, piuttosto ascoltate bene: Persefone sarà felice. A lei, almeno a lei, questo destino non è stato sottratto: la sua unione sarà lieta. Ve lo prometto, la stessa Era ne ha sposato la causa. Parlate con Ade, vi supplico. Vostra figlia è ancora vostra. Nessuno potrà portarvela via.”
Demetra, scossa da quelle parole, l’aveva afferrata saldamente le spalle e, quasi con mal grazia, aveva sollevato il viso bagnato della sorella cercandone lo sguardo.
“Che intendete?”
“Persefone è libera di scegliere. E se sceglierà Ade questo non vorrà dire che non la vedrete più. Nostro fratello è un dio buono”.
“Nostro fratello ci ha traditi per brama di potere”.
“Non è vero Demetra. Vi ostinate a credere questo per colpa del vostro amore per Zeus ma sapete bene quale sia la verità.”
“Ade me l’ha sottratta con l’inganno”.
“E’ stata la vostra follia a farvela perdere!”
Stanca di sentire quelle parole Estia aveva reagito prendendo le difese del fratello assente.
“Voi non siete diversa da me, sorella! Siete stata illusa, soggiogata da quel dio luminoso e per colpa vostra e sua avete consumato un tradimento già scritto nel destino di Persefone! Il Fato le concede la felicità, non siate così stupida da sottrarglierla”.
Pietrificata Demetra aveva deglutito, quasi avesse l’acqua alla gola; le mani strette in pugni lungo i fianchi.
“State forse dando a me la colpa di questo rapimento sebbene sappiate che la stessa Era le ha rifiutato protezione?”
“In cosa siete diversa voi? State facendo morire migliaia di esseri innocenti quando sapete bene che la colpa è di un Fato ben più grande di noi”.
 
A quelle parole la dea minore si era alzata di scatto, corpo fiacco permettendo e, con rabbia, aveva mosso dei passi indietro rispetto alla sorella ancora in ginocchio al suo cospetto. Gli occhi di Demetra stretti in due fessure
“Non permetterò che mia figlia marcisca nell’Erebo, sarei disposta a sacrificare tutti i mondi possibili piuttosto che la mia unica Kore”
“Intraprendete una strada infelice, sorella”.
“Sono già infelice, che lo siano tutti”.


Con quel mormorio digrignato a denti stretti, Demetra era nuovamente sparita lasciando erba marcia dietro di sé.
“Ade, vi prego, trovatela”, aveva sospirato esangue la dea maggiore.
 
Sentiva il profumo di catastrofe aleggiare per i campi deserti.
 
 ---



Morto.
Forse avrebbe fatto un piacere a tutti gli esseri viventi e non.
Forse, se la sua vita si fosse conclusa in una tomba, nessuno avrebbe sofferto.
 
Radamanto era ancora lì, in piedi davanti al braciere quasi spento: le mani strette in pugni serratissimi, il volto una maschera di cera.
 
Merito solamente la morte e un nero buco nel quale giacere freddo.
Un cane, un cane rabbioso, ecco cosa hai mostrato a quella stupida dea.
 
Lei era svanita e con sé aveva portato via quella strana sensazione di calore che da qualche tempo gli riscaldava l’animo smorto. Era corsa via perdendosi nella cenere del suo stesso fuoco ma lui aveva visto.
Aveva visto come quel volto di fiamma si fosse corrucciato, come gli occhi, un tempo vispi e luminosi si fossero invece ridotti a due fessure strette e addolorate.
Era scappata via, e aveva fatto benissimo.
I denti stretti in un digrignare silenzioso erano gli unici testimoni di uno strano rodimento interiore.
 
Dea stupida e fragile.
Un pensiero saettante capace di fargli aggrottare impercettibilmente le sopracciglia.
Era vero, non avrebbe dovuto scagliarsi in quel modo contro quella strana creatura fatta di fumo e cenere; non avrebbe dovuto rinfacciarle la stupidità e la bontà con le quali aveva accettato consapevolmente un destino di solitudine dal quale mai avrebbe potuto avere scampo.
Ma a te che importa? Sei morto Radamanto… e lei non è il tuo signore.
 
Giustizia. La sua è una sorte ingiusta.
È solo per la giustizia che il tuo cuore batte nuovamente?
No.
Radamanto era un giusto. Un giudice severo e apodittico ma, ben sapeva che non solo giustizia muoveva il suo comportamento.
Avrebbe voluto consolarla ma era evidente che la morte, insieme al suo soffio vitale, si fosse presa anche la delicatezza dei modi.
 
Ricorda Radamanto, sei morto.


L’aveva odiata così tanto quando aveva osato andargli contro nel suo dominio, davanti al suo seggio sacro, in quella circostanza così delicata.
Eppure era stato strano tenerla inerme tra le braccia, sentire quel calore diramarsi dalle sue mani solitamente gelide fino alla punta dei capelli.
Lui era stato abilissimo nel negarsi tutto, nel negare l’evidenza.
 
Un campione, proprio.
Hanno fatto bene ad ammazzarti. Codardo.
 
Come definirsi altrimenti? Se anche dinnanzi a quei radicali cambiamenti aveva il coraggio di tenere gli occhi chiusi, coperti da una finta patina fatta di regole e norme, come altro poteva definirsi?
Lui sapeva di sentire; anzi, sentiva chiaramente che qualcosa nel suo corpo morto iniziava a prendere vita.
 
Non è permesso.
Radamanto, a te non è permesso. A lei men che meno.
Sei un giudice, morto. Resta tale e non esigere nulla di oltre.
 
Quegli ammonimenti mentali non erano però riusciti a distoglierlo dalla realtà circostante: era ancora solo nella sala del giudizio, il fuoco rosso, un tempo ardente, campeggiava mogio al centro della sala; una strana nube dolciastra iniziava a levarsi dalle offerte intorno all’altare.





 
Continuava quel lento ciclo distruttivo che nel giro di poco tempo avrebbe consumato l’essere vivente.
Una smorfia gli aveva corrucciato la fronte quando un eco gli aveva trapassato le orecchie.
 
Anche gli dei pregavano.

 
Sentiva quell’essenza balorda e sovrana ergersi sopra le altre che, disperate, invocavano la sorella Demetra affinché smettesse col proprio incedere folle.
 
Guarda dove ti ha spinto la bramosia di potere, folle di un dio.
 
Un coro fatto di mille voci sacre scongiuravano la fine del gelo e lì, in quel caos sonoro, finalmente riusciva a captare il gemito addolorato della dea fuggitiva.
 
-“Ade, vi prego, trovatela”- il bisbiglio di Estia chiaro e forte fin alle ossa.
 
Stava male, era chiaro.
 
Anche un morto l’avrebbe capito. E lui lo era, morto e insensibile inoltre.
 
Biasimando sé stesso e la propria mancanza di delicatezza, aveva prontamente riordinato le carte sullo scrittoio e, preso un respiro profondo, aveva osservato le fiamme ora sottili.
 
Doveva parlare col suo signore, metterlo al corrente di quanto successo presso la sala delle offerte così come in superficie, dove una dea addolorata pregava accoratamente l’intervento dell’avernale.
Ecco ciò che avrebbe potuto fare.
Avrebbe potuto solo limitarsi a riferire, rimanendo impotente in un angolo del nero Erebo.
E anche se lei soffriva, e anche se lei si spegneva lentamente sotto i suoi occhi, non poteva fare nulla.
Un ghigno nero e terribile aveva trovato posto sulle labbra secche:
anche lui indossava delle cavigliere invisibili che non gli avrebbero mai permesso di varcare quel regno fatto di morte e desolazione.
 
Complimenti Radamanto, con molta probabilità non la vedrai mai più.
 
 
----




"Sapete cosa ho intenzione di dirvi, mio signore”.

“Avreste potuto aspettare”. Ade, avvolto nel suo mantello nero, non nascondeva il fastidio dato dalla situazione.
Discutere col suo giudice dopo aver celebrato un rito d’unione non era esattamente ciò che il suo cuore bramava.
Avrebbe preferito passare quei momenti compagnia dell’unico essere per lui prezioso e invece, il suo fedele Radamanto, l’aveva intercettato lungo i sentieri neri della dimora e una volta fattosi vicino aveva formulato quell’unica asserzione.
“Sapete cosa ho intenzione di dirvi, mio re”.
Certo che sapeva. Come poteva anche solo per un secondo dimenticarsi di quanto scompiglio quella folle della sorella stesse causando? Come poteva ignorare il dolore dei suoi fedeli: lo sentiva nelle orecchie, lo percepiva fin dentro le ossa.
Morti ingiuste.
Ecco cosa non avrebbe potuto a lungo tollerare.
“Dovete cercare Demetra, vostra sorella, mio signore. Dovete, prima che sia troppo tardi”.
 
Ade aveva digrignato i denti in cuor suo ben conscio della possibilità di dover “cedere” qualcosa per non scontentare nessuno.
Sapeva che non per suo tornaconto ma per volere degli altri “divini” doveva esser pronto a scendere a compromessi con la madre della sua futura sposa.
Futura sposa
Forse solo per amor suo avrebbe fatto un passo indietro.
Ma mai, mai avrebbe rinunciato alla sua Persefone.
Quel pensiero, quella sola vaga possibilità di dover anche sacrificare un solo giorno di compagnia della sua amata, l’aveva fulminato con una tale intensità da contrargli le viscere e scurirgli gli occhi, riportandolo a quella massa fatta d’odio e rancore che era solito essere in passato.
Irriconoscibile a sé e al suo secondo, aveva stretto le labbra mentre un ruggito roco gli risaliva dal petto con fare bestiale.
“Mio signore, voi sapete cos’è giusto a differenza dei superficiali”, Radamanto, a capo chino, aveva pronunciato quelle parole come una sentenza.
“Si”, secco e terribile Ade gli aveva voltato le spalle.
“Preparate i miei cavalli, giudice. Stasera stessa mi recherò sull’Olimpo”.


----

 
 
Bussavano alla porta.
Due colpi dati con fermezza che però non avevano turbato la strana miscela fatta di quiete e impazienza che le inondava l’animo.
 
Sapeva chi vi era dietro quel legno robusto.
 
Non sapeva se la sua fosse certezza o sola speranza: forse aveva desiderato con una tale intensità che dietro la porta vi fosse il suo signore che, non appena scostato l’uscio, aveva accolto con un sospiro quel dio nero che l’avvolgeva in silenzio tra le sue braccia.
 
Eppure non da molto i loro cammini avevano imboccato strade diverse: lei scortata nelle sue stanze, lui nella sala della sentenza. Non sapeva con certezza quando avesse iniziato a sentire la sua mancanza: era lì, da un po', un vuoto celebrale che poteva essere soddisfatto esclusivamente da quelle labbra sottili e calde.   Il sovrano dell’Averno non aveva esitato un istante e, nemmeno varcata la soglia della camera subito le si era stretto contro, esigendo quella bocca rosea e succulenta.
Non la stava baciando, la stava possedendo con le labbra, la stava sciogliendo mentre le mani, abili e gelide, le strappavano gemiti impudichi.
Con che cuore staccarsi da quel corpo?
Erano promessi eppure qualcosa in lei la portava a fermare quell’intrusione brutale e al contempo desiderata. Qualcosa nell’atteggiamento del dio la portava a ritrarsi, a chiedere spiegazioni.
Per questo, forzando sé stessa e la propria volontà – completamente persa su quelle labbra da gatto fameliche- aveva posto le mani tremanti sopra il petto del dio e con una leggera pressione l’aveva allontanato da sé.
Non era servita forza. La sola intenzione di allontanarlo aveva immediatamente placato Ade che, con un respiro leggermente affannato, ora stava ad occhi chiusi con la fronte poggiata sulla sua.
Persefone non aveva avuto bisogno di parole. L’aveva letto su quel viso turbato, su quei gesti frenati a stento, negli occhi angosciati del dio:
stava andando via.
Avvolto nel suo mantello nero, rivestito con piastre di metallo finemente lavorate e con ai piedi la kunee rosso sangue poggiata di fretta per prendere invece lei, aveva capito.
Quello era un addio, l’addio di un re che va in guerra.
“No” aveva mormorato cercando il suo sguardo, ostinatamente celato dalle palpebre,
“No, vi prego” aveva nuovamente pregato mentre le mani stringevano il tessuto morbido del mantello.
“Devo. Lo sapete”.
“Portatemi con voi. Lei soffre indicibilmente”.
“E io? Non sono forse turbato alla sola idea di perdervi per sempre per il volere di una folle?”. Solo allora il dio l’aveva guardata in volto, gli occhi furenti, i capelli lunghi e neri scomposti sulle spalle. Trasudava rabbia e angoscia.
“Non potete perdermi. Mi sono promessa a voi”, un sorriso tenero era stata l’arma di Persefone ma il signore dell’Averno, fin troppo avvezzo alla sofferenza, l’aveva osservata con dolore dipinto in volto.

"Vostro padre mi ha bandito per secoli dai cieli luminosi solo per un sospetto. Non oso immaginare cosa sarebbe capace di fare se solo sapesse che vostra madre sta decimando i suoi preziosi fedeli. Senza preghiere noi non esistiamo”.
Cupa in viso e con una opprimente sensazione di abbandono che le gravava sulle spalle, aveva stretto Ade contro il suo petto tremante, silenziosa e rassegnata.
“Tornerò presto e solo allora sarà il vostro turno: andrete da vostra madre e se dopo due mesi avrete ancora questo desiderio nel cuore allora sarò vostro. Per sempre”.
Un sorriso mesto aveva illuminato il viso di Ade nascosto nella folta chioma della giovane.
Nel silenzio della camera il signore dell’Averno le aveva mormorato all’orecchio con voce bassa
“cosa desidera il vostro cuore, mia dea?”
 “Io…desidero…” Persefone sorrideva tristemente, “voi”.
 
Malizia?
Si. Malizia nella sua voce.
 
Non solo quella. Anche una dolce nota di paura e apprensione avevano arrochito la voce della dea mentre Ade, scosso nei suoi istinti, l’aveva osservata famelico.
“Noi siamo già uniti, in superficie” aveva puntualizzato con fare perso la dea e, a quella sottile allusione Ade aveva risposto con un bacio vorace.
 
Lei era già sua. Era mostruosamente vero.
 
Quella dea era sua, pronta per lui e quando quella aveva afferrato le sue mani e con devozione ne aveva baciato i palmi anziché i dorsi, egli aveva completamente perso il senso di sé.
La sua lingua aveva varcato la soglia delle sue labbra schiuse e mentre il bacio si faceva più profondo il dio la sospingeva verso l’immenso letto al centro della stanza.
Nessuna parola, solo sospiri mentre quelle mani gelide si insinuavano sotto le vesti alla ricerca della pelle calda.
Persefone sentiva il tormento nei gesti del sovrano, la bramosia trapelare dai suoi sospiri mentre qualcosa di turgido premeva contro il suo ventre con fare impudico. Un imbarazzo virginale le aveva imporporato le guance accaldate: sentiva le mani del dio esplorare il suo corpo con una reverenza senza pari.
“Persefone, vi voglio maledettamente”. Un ruggito basso e roco mormorato contro il suo orecchio l’avevano fatta inarcare contro Ade che, sopra di lei, si beava della vista di quell’essere tremolante e travolto dalla passione. Con lentezza e sempre fissando quel volto arrossato alla ricerca di un qualche dubbio, aveva mosso la mano verso l’interno coscia della dea che, a quell’inaspettata pressione, aveva aperto gli occhi cercando il suo sguardo. E sempre con gli occhi incatenati l’uno l’altra Ade si era spinto più su verso la sua femminilità calda e invitante.
 
Non avrebbe osato prenderla. Non avrebbe osato possedere quel corpo prima che la loro unione fosse legittima agli occhi dell’Averno, ma le avrebbe dato piacere. Le avrebbe dato piacere rispettando il corpo di vergine desiderosa che sentiva pulsare sotto le proprie dita.
 
“Guardatemi mentre vi sfioro”, le aveva mormorato tra un bacio e l’altro provando a rassicurarla, mentre le dita, oramai calde, si insinuavano sotto il delicato tessuto che avvolgeva le sue zone più nascoste.
L’aveva vista sgranare gli occhi, l’aveva sentita stringere impercettibilmente le gambe come risposta incondizionata a quella nuova invasione; e più la guardava più pregava che il proprio istinto si saziasse di quell’assaggio che con grande sforzo concedeva a entrambi.
“Ade io ho paura…” aveva mormorato Persefone con un filo di voce: gli occhi languidi e lucidi alla disperata ricerca di sicurezza.
“Sono vostro. Non oserò violarvi”, mormorando contro le sue labbra quelle dolci raccomandazioni, aveva iniziato a sfiorarla intimamente: una carezza superficiale ed esterna ma non per questo incapace di far tremare la donna sotto di sé.
Persefone lo sentiva. Sentiva quegli occhi divorarla mentre dita gentili le sfioravano il centro caldo del corpo.
Milioni di piccole scariche elettriche si diramavano dal punto sapientemente accarezzato dal dio, Ade sapeva come darle piacere e sfregando con movimenti circolari la sentiva bagnarsi, prepararsi.
Avrebbe voluto prenderla così: calda, inesperta, e gemente.
Ma non l’avrebbe fatto.
Si sarebbe limitato a accarezzarla con amore e a vederla contorcersi contro la sua mano oramai bagnata di umori.
Vergine e appassionata.
Vergine sarebbe rimasta ma sapendo che gli apparteneva; che solo le sue mani avrebbero accarezzato il suo corpo e fatto in mille pezzi la sua anima.
“Persefone, siete mia. Sentite come reagisce il vostro corpo, sentite come tremate, sentite come vi voglio- “un gemito roco era sfuggito dalle sue labbra mentre col bacino aveva fatto pressione contro di lei per farle capire quanto anch’egli, a sua volta, fosse perso.
“Ade, Ade…mio signore”, usciva infine sconfitta da quella tortura.
Stringendo gli occhi e allungando le sue braccia verso il collo del dio l’aveva tirato contro di sé mentre spasmi muscolari la travolgevano come onde.
Il suo cuore batteva forsennatamente e il seno si abbassava ritmicamente contro il petto del dio. I capezzoli turgidi non erano però sfuggiti alla sua attenzione e ben deciso ad annullarla regalandole altri gemiti si era chinato sul suo petto ansante.
Scostata la veste leggera e scomposta aveva assaporato ogni dettaglio di quell’immagine divina: la sua Persefone gli si offriva ad occhi chiusi.
Così, con delicatezza, aveva infine poggiato le labbra sulla punta e lentamente aveva iniziato a leccare e a succhiare. Un gesto intimo e devoto.
 
La deva gemeva tenendo quel capo stretto contro il seno. Godeva mentre tra le gambe sentiva distintamente un liquido calda riscaldarla.

----



….
……
Giacevano scomposti sul letto sfatto, o per lo meno, lei era scomposta.
I capelli sparsi sui cuscini, la veste gualcita e gli occhi languidi guardavano con affetto il signore sedutole di fianco.
Amore, ecco cosa dicevano i loro sguardi.
 “Sarò presto di ritorno, mia signora”. Il suo cervello, ancora stravolto da quanto successo, era riuscito solo a proferire quella vaga e debole rassicurazione accompagnandola con una carezza al volto rosato e leggermente accaldato della sua amata; un gesto tenero al quale la dea aveva risposto socchiudendo leggermente le palpebre e umettando le labbra: un chiaro invito ad essere baciata prima di sprofondare in un sonno ristoratore.
Lui aveva eseguito l’ordine e carezzando la sua bocca in un bacio intimo le aveva infine mormorato all’orecchio
“Sarò ragionevole, per voi e voi soltanto, lo prometto”.  L’aveva vista accennare un sorriso e abbandonare delicatamente il capo contro il suo petto.
 
Solo tempo dopo Ade aveva avuto il coraggio di alzarsi.
Il cuore in fiamme pronto a difendere ciò che gli apparteneva.












L'Angolo di Avareil
Credo che delle scuse siano d'obbligo. Avevo promesso una presenza costante e invece eccomi qui con almeno 5 giorni di ritardo. Mi spiace sebbene in mia difesa possa dire che il ritardo è dovuto ad un problema di vista. Ho iniziato un lavoro che prevede lo stare al pc otto ore al giorno quindi, una volta a casa, i miei occhi sono letteralmente a pezzi.
Sperando di avervi mosso a pietà ( ehehe ) vi saluto con affetto, con la speranza di sentire presto qualche vostro commento, positivo o negativo non importa.  Desidero sapere cosa ne pensate di questo caos ^^.


 
  
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