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Autore: yonoi    09/11/2017    3 recensioni
Estate 1920: Hansi Wallemberg, cinque anni aggrappati a una grossa cornice col ritratto del padre decorato al valore, arriva dal suo paese di montagna a casa di Iolanda e Arrigo Drusiani. Sarà il loro piccolo affido per questa estate. Arrigo Drusiani ha combattuto nella Grande Guerra, sua moglie Iolanda è esperta nell’arte di riparare le cose. Con i Drusiani, Hansi stabilirà quel rapporto di affetto di cui ha così intensamente bisogno: partito per il fronte, suo padre non è più tornato, e sua madre, che non ha mai smesso di attenderlo, trascorre le giornate sulla soglia di casa.
Col tempo, si prefigurano per Hansi lunghi inverni in collegio, e in seguito l’Accademia militare: qui, si lega sempre più ad un coetaneo che suscita in lui una forte ammirazione, fino ad abbracciarne i valori e ad arruolarsi nelle SS. Sarà l’incontro - fugace e irrepetibile - con il vero amore della sua vita, a provocare in Hans un cambiamento sofferto, eppure definitivo.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo il conflitto, Arrigo si era adoperato per ricondurre a casa la sua compagnia di uomini sfiduciati dalla stanchezza, falciati dalle perdite, apparentemente sconfitti in tutti i modi possibili. Di nuovo s’era fatto carico dei suoi, per dar pace a se stesso: proprio come il giorno in cui era arrivato al fronte fresco di nomina e con l’uniforme ben stirata, e i soldati si erano aggrappati a lui subito, e lui a loro come alla sola certezza, presenza viva e affettiva, unico riferimento e barlume di chiarezza. Di giorno in giorno, s’erano consegnati la vita nelle mani, s’erano sostenuti facendo fronte comune non contro al nemico ma all’assedio dell’abitudine, che li aveva ridotti a consumare il rancio nelle trincee con i morti, quando non c’era modo di trasportarli fuori; e a bere l’acqua putrida delle fosse comuni durante il più lungo attacco, quand’erano rimasti accerchiati in una valle piena solo dell’eco dell’artiglieria tra le montagne.
         Tutto s’era concluso da un giorno all’altro, con l’annuncio di una vittoria che li aveva colti del tutto impreparati e sembrò subito estranea, come la vincita ad una lotteria incomprensibile: qualcosa che non aveva nulla a che vedere con gli sforzi prodigati per mesi.
         -“Abbiamo vinto, sior tenente”- commentava il sergente La Valle -“anche se no gho mica capio come abbiamo fatto”-
         Ad Arrigo, la vittoria rimase impressa nella memoria con l’immagine delle lunghe colonne di prigionieri in transito per le piazze, a gruppi polverosi nelle periferie di paesi morti: come fantasmi dai volti grigi e le uniformi senza colore, le mani umiliate e scarne a riparare le strade, gli sventramenti dei ponti, a riempire di ghiaia le brecce e a collocare i lastroni con pazienza, in silenzio o cantando nelle loro lingue remote.
         I volti debilitati e le divise logore, esattamente come le loro: in tutto questo, Arrigo non vedeva differenze, come del resto non le vedeva neppure la gente, che a Bologna e nelle altre città e nelle campagne si fermava alla spicciolata per guardarle passare, quelle colonne tristi dirette alla stazione, ai lavori forzati. E nessuno inveiva contro quella gente stanca perché tutti erano stanchi, e la pace veniva ad aprire un tempo atteso di cui, in realtà, non si sapeva che fare: né cosa fare di sé, né da dove cominciare.
         Nel tentativo di riscattare i suoi dal disorientamento che li aveva colti all’annuncio della smobilitazione, Arrigo era rimasto aggrappato agli ultimi relitti della guerra, rinviando ogni decisione sulla sua vita futura: restare sotto le armi oppure congedarsi, e in quel caso che fare. Per lui non c’era ancora una casa a cui tornare, con la Iolanda ad abbracciarlo sulla soglia: e la sua famiglia d’origine era un posto assai meno accogliente dell’esercito.
         S’era così smarrito nei meandri delle pratiche, dei verbali necessari per fare decorare al valore i suoi soldati, i vivi e i morti. Con la sua bella calligrafia d’altri tempi, aveva inoltrato richieste di pensioni per gli invalidi, di assegni per i superstiti. Aveva visitato i feriti senza illusioni, li aveva assistiti solo col suo silenzio al capezzale delle febbri, delle ferite infette, nella dispersione dei grandi ospedali della città: dove giungevano le mogli, le madri dalle campagne con le uova nei panieri e soltanto col dialetto, senza saper parlare con i medici e gli ufficiali di sanità, senza averne il coraggio.
         Toccava al signor tenente reperire informazioni, trattenere i chirurghi indaffarati ed esausti, andare a cercare la suora per una medicazione, recuperare un bicchiere, un catino per il vomito. Assorbito da tutte queste necessità, Arrigo s’era dimenticato di sé stesso: mentre la decisione di restare nell’esercito prendeva forma da sé, non essendoci un altro posto dove andare, e soprattutto dove poter essere accolto. Negli ultimi mesi decisivi per la guerra era stato informato della malattia di suo padre, ma la situazione del fronte gli aveva impedito di ottenere una licenza in tempo per rivederlo. La stessa notizia dell’infermità di Emilio Drusiani, un uomo taciturno che l’amava più di se stesso, gli era giunta in ritardo, dopo lo sfondamento del fronte in quella valle remota e indimenticabile, dove lui e i suoi uomini si erano ridotti a bere l’acqua dei morti. 
         Dopo quattro settimane di fuoco di sbarramento, quando già le facce iniziavano a somigliare a quelle dei caduti, si era aperta una breccia ed erano arrivati i rinforzi e il rancio, i collegamenti con le retrovie, i muli della posta: il sergente La Valle aveva appreso il lieto evento della nascita del suo quinto figlio, e rifaceva i conti e non si dava pace, perché non ricordava d’essere stato a casa in licenza, in quel periodo. Con due mesi di ritardo, Arrigo aveva appreso dell’infermità di suo padre, da una lettera gelida scritta dalla sorella, che sottolineava soprattutto la sua assenza. Subito aveva chiesto una licenza straordinaria, e altrettanto rapidamente il permesso gli era stato negato:
         -“Ma dove vuole andare, Drusiani”- il colonnello Riccadonna era intento a firmare le circolari per le famiglie dei caduti, in totale duecentocinquanta -“siamo in piena offensiva, le linee sono interrotte, ci vogliono due giorni soltanto per uscire dalla zona operativa. Con tutto il rispetto per suo padre, ad assisterlo ci penserà la famiglia. A ciascuno il suo compito”- 
         -“Faccio rispettosamente notare che era comunque mio dovere chiedere”-
         -“Il suo dovere è qui, Drusiani. E adesso, si levi dai piedi”- 
         Quando finalmente era riuscito a rientrare a Bologna, dopo un viaggio estenuante su una tradotta deviata senza misericordia: una volta per il bombardamento dei binari, due volte perché la stazione era un cumulo di macerie, tre volte per dar la precedenza ai rincalzi diretti al fronte. Con l’uniforme buona già annerita di polvere, la barba e la faccia già lunghe un’altra volta, Arrigo era arrivato giusto in tempo per assistere alla spicciolata dei parenti che uscivano dalla Certosa.
         Mentre zii e cugini si avvicinavano per stringergli la mano, la sorella fece addirittura finta di non vederlo. Quando proprio non poté più ignorare la sua presenza, gli si rivolse con durezza: -“È arrivato finalmente, l’eroe. Facile fare gli eroi fuori da casa propria. L’hai fatto morire tu, nostro padre, per il dolore di non averti rivisto, nell’unico momento in cui era nel bisogno”-
         Quel pomeriggio, finché ci fu luce, Arrigo si trattenne nei viali bianchi del cimitero. Camminò nel respiro leggero dei cipressi, nelle loro ombre lunghe mentre scendeva la sera: simile al ritirarsi del mare su una spiaggia era la sera in cielo, con il sole che si disfaceva all’orizzonte e il cielo terso come una tavola di luce. Spesso l’aveva visto stemperarsi così, nelle nebbie del fronte, ma mai con tanta quiete, e talmente indolore.
         Tra le aiuole ordinate, per i sentieri nitidi di ghiaia e nel ristagno aromatico dei fiori, s’aspettò di sentire le campanelle impercettibili dei mughetti. Pensò ai corpi dei morti, che avvizzivano lentamente tra le corolle, nelle fodere rosse, in quel silenzio confortante anche per i vivi: e d’un tratto lo colse la nostalgia del sonno, del riposo profondo, senza i risvegli di soprassalto e il crepitio, i tuoni cupi del fronte.
         Smarrendosi per i chiostri pieni d’ombre, per i corridoi di polvere dove a tratti giungevano ventate imputridite, continuò per un tempo imprecisato a cercare suo padre: e si sentiva stranamente rinfrancato, smaltendo per il solo beneficio del silenzio la stanchezza e la pena, che si portava addosso da chissà quanto tempo.
         Scoprì di trovarsi a suo agio nella solitudine del mondo, e che non esiste luogo più adatto all’uomo del profondo di sé: c’era un fondo dell’anima in cui nulla poteva entrare, né la rabbia né l’ansia, né la stanchezza fisica, e neppure il dolore. Là poteva cogliere tutti i significati: i propri sentimenti e il ricordo di suo padre, lo sguardo del Crocifisso che lo stava osservando dalla parete di fronte, con il volto reclino, il corpo dissanguato aperto in un abbraccio. 
         Lo ridestò dai suoi pensieri il custode, un omino affondato in un grembiule grigio, dietro ad una carriola colma di terra smossa: -“Soldato, è ora di chiudere. Cerca mica qualcuno?”-
         Soltanto in quel momento, Arrigo realizzò che dopo avere cercato per tutto il pomeriggio l’ultimo segno della presenza di suo padre, lo aveva ritrovato nell’intimità di se stesso: in un luogo raggiante come la pozza di foglie morte ai suoi piedi, dove si rispecchiava il volto buono del Cristo, e poi quel cielo immenso, di velluto e d’arancio. Là poteva ancora sentire la sua voce, rivedere i suoi gesti, i suoi occhiali rotondi mentre gli correggeva i compiti nelle sere d’inverno.
         -“Cercavo Emilio Drusiani”-
         -“Una tomba nuova? E’ lontano, soldato, bisogna prendere l’altro ingresso. E’ così lontano che le consiglio di tornare domani. Perché adesso si chiude”-
         Arrigo non tornò. Sul piazzale ormai buio, guardò il custode chiudere i cancelli di ferro battuto, i viali dei cipressi, i corridoi e le scale abitate dalle figure del dolore, dalle donne velate di marmo dei sacrari, dalle culle impietrite dei bambini prematuri. Restavano nell’aria migliaia di lumini accesi nella notte, come gli occhi dei morti. Gli restava nell’anima un principio di calore: lo sguardo di suo padre così come lo ricordava, la presenza del Cristo che l’aveva accompagnato per i corridoi umidi, con le palpebre chine come per l’imbarazzo di leggergli nel cuore. Quella sera stessa, Arrigo si presentò al Comando di presidio, per chiedere di tornare subito in prima linea:
         -“Ma tenente, lei ha una licenza straordinaria di cinque giorni”- persino all’imboscato dell’ufficio amministrativo, che il fronte non l’aveva mai visto neppure da lontano, la richiesta pareva assurda.  
         -“Non ne ho più bisogno, posso rientrare subito”-
         -“Cinque giorni di licenza non capitano spesso”-
         -“Ho intenzione di ripartire questa notte stessa”-
         -“Ci pensi bene, tenente, non le ricapiterà tanto presto”-
         -“Ci ho pensato, e mi auguro che non capiti più”.
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