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Autore: Adeia Di Elferas    10/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Giovanni Bentivoglio teneva gli occhi segnati da pesanti borse rivolte verso il figlio. Alessandro era arrivato da poco da Casteggio, dove aveva lasciato la moglie, e stava già per ripartire.

“Una sopravveste da quattrocento ducati è un ottimo dono.” disse il signore di Bologna, cercando le parole giuste per congedarsi dal ventitreenne che aveva davanti: “E anche il cavallo che la città ha deciso di donarti... Trovo sia stato un bel gesto.”

“Perché mi mandate a combattere contro Pisa? Lo sapete chi sta osteggiando i fiorentini, nel pisano?” fece Alessandro, le labbra che si increspavano di rabbia, mentre i tratti grossolani del suo viso tradivano tutta la sua contrarietà.

Padre e figlio, l'uno in abiti pesanti ed eleganti, con la catena da capofamiglia al collo, l'altro già in mezza armatura, erano nel vestibolo e stavano aspettando che l'attendente di Alessandro arrivasse a dirgli che i cavalli erano pronti.

“Certo che lo so, cosa credi.” ribatté il padre, mentre tutta la buona volontà di non urtarsi con il suo secondo figlio maschio andava vanificandosi: “Ma è giusto andare contro i veneziani. Siamo troppo vicini alle terre del Doge. Se Bologna dovesse mostrarsi troppo morbida con la Serenissima, ora che il Moro sta perdendo colpi, sarebbe la fine, per noi.”

“Perché state mandando me?” chiese ancora il figlio, appoggiando una mano sull'elsa della spada corta che portava al fianco, non riuscendo ancora a capacitarsi del fatto che il padre avesse deciso di accettare a nome suo quella condotta fiorentina.

“Perché il tuo mestiere sono le armi. E perché a Casteggio non stavi combinando nulla!” ribatté Giovanni, cercando di moderare il volume della voce, per evitare che i servi che si stavano affaccendando nella camera accanto sentissero qualcosa.

“Anche mio fratello Annibale fa il soldato, come me, però lo tenete qui a costruire... Cosa sta facendo?” chiese Alessandro, con una smorfia.

Il signore di Bologna non volle rispondere. Anche lui a volte pensava che il suo erede stesse spendendo soldi per niente, con il suo strano progetto. Costruire un palazzo per esercitarsi con le armi, secondo lui, non aveva molto senso.

Non lo diceva mai apertamente, ma gli sembrava tanto una scelta di comodo, soprattutto di quell'epoca.

Le armi, secondo lui, si dovevano usare all'aperto, nei cortili d'addestramento e nei boschi, non al caldo e protetti dalla pioggia e dalla neve.

“E poi così – riprese il Bentivoglio, guardando di traverso il figlio – almeno ti allontani dalla peste... Ho sentito che dalle vostre parti sta colpendo molto duramente la popolazione.”

Alessandro sbuffò, ripensando a come si era sentito a lasciare la moglie a Casteggio, poco prima che le porte venissero chiuse e lei decidesse di restare dentro le mura.

“Una Sforza fatta e finita – aveva commentato il loro segretario – com'era quel terremoto di suo padre Carlo. Se non fosse morto a ventidue anni, ve lo dico io che avrebbe combinato!”

Ippolita, che aveva perso il padre a un anno e la madre a sei, a volte sembrava incarnare davvero le qualità dei signori di Milano.

Come dicevano tutti, gli Sforza erano tutti o grandi guerrieri, o grandi seduttori o grandi mangioni.

E di norma, sostenevano quelli che avevano conosciuto i membri più rappresentativi della famiglia, uno Sforza degno di tal nome eccelleva per lo meno in due qualità su tre. L'unico che era riuscito a eccellere in tutte e tre le specialità di famiglia, sembrava essere stato il capostipite: Francesco Sforza.

Ippolita, benché non avesse mai avuto modo di mettersi alla prova su un vero campo di battaglia, pareva propendere per la prima dote. Alessandro sperava che con il tempo si mostrasse incline anche alla seconda, ma per ora la sua sposa aveva appena sedici anni. Per quanto lo riguardava, la poteva aspettare. L'apprezzava per quella che era e non aveva alcun interesse a usarle violenza.

“Chissà mai – sospirò Giovanni, mentre il portone si apriva ed entrava l'attendente di Alessandro per dire che tutti erano pronti a partire – che la peste non se la porti via, tua moglie...”

“Ma che state dicendo?” sussurrò il figlio, guardandolo con intensità, tenendo a distanza con un gesto della mano il suo soldato che iniziava a mettergli fretta.

“Siete sposati da quattro anni e non avete ancora generato un erede.” costatò il signore di Bologna, alzando le spalle: “Forse converrebbe a tutti che si togliesse di torno. Ti troverei una moglie migliore, e potremmo scrollarci di dosso questi maledetti Sforza...”

Alessandro gonfiò il petto e, come sempre quando provava a opporsi davvero al padre, gli sibilò contro: “Fareste meglio a pregare per la morte del marito di mia sorella Violante. È lei, quella che avete messo in prigione, dandola a quel pazzo. Se solo fosse abbastanza forte per farlo, dovrebbe ucciderlo lei stessa, come mia sorella Francesca ha fatto con quel fanfarone di Galeotto Manfredi!”

“Ti stanno chiamando.” fece con freddezza Giovanni, chiudendo subito il discorso.

Il figlio sospirò, abbattuto e, scuotendo il capo, lasciò il padre senza aggiungere nulla.

Troppe volte le sue sorelle gli avevano scritto per sfogarsi con lui delle loro infelici situazioni. Tra tutte, a conti fatti, la meno infelice era Isotta, che s'era fatta monaca e quella consapevolezza ad Alessandro dava il voltastomaco.

 

Era passato qualche giorno, da quando Giovanni si era sentito male e, seppur con grande fatica, si stava lentamente riprendendo.

Il medico l'aveva visto ancora un paio di volte, ma il fiorentino l'aveva convinto a concentrarsi sui malati di peste, che, a parer suo, erano molto più bisognosi di lui.

Lo stesso aveva fatto anche con Caterina che, dopo aver comunque passato accanto a lui un giorno intero all'inizio, aveva ceduto alle sue richieste ed era tornata a occuparsi anche dei forlivesi.

Tuttavia a Giovanni non era sfuggito come la moglie stesse passando ugualmente più ore con lui che non in città. E malgrado la sua indole lo portasse a dirle che avrebbe dovuto prodigarsi più per i suoi sudditi che non per lui, era così contento di averla vicina che dopo le prime rimostranze di norma si taceva.

“Senti...” disse il Medici, guardandosi le mani, un po' imbarazzato: “Ho pensato a una cosa, oggi, mentre ti aspettavo...”

La Tigre era coricata accanto a lui e stava leggendo ad alta voce una novella di Boccaccio, mentre il marito, che ormai riusciva a muoversi bene e non aveva più dolori addominali, ascoltava attentamente, commentando di quando in quando come se fosse la prima volta in assoluto che sentiva le prodezze di Don Felice e Monna Isabetta.

Chiudendo il libro e tenendo il segno con indice e medio, la Sforza attese che il marito proseguisse e così l'uomo, dopo un sospiro un po' roco, disse: “Adesso sto decisamente meglio. Oggi ho anche mangiato tutto quello che mi hai fatto portare e ho bevuto tutta l'acqua che mi hai detto di bere.”

Caterina non si pronunciava, non riuscendo a capire dove il Medici volesse andare a parare. Se aveva intenzione di proporsi di nuovo per accompagnarla a far visita agli appestati, però, sapeva già come rispondergli.

Anche se l'epidemia stava perdendo in fretta la sua virulenza, Giovanni era ancora troppo debole per poter sperare di andarvi in mezzo senza restarne colpito.

“Potrei aiutare almeno il castellano nel pianificare la distribuzione del pane.” riprese il fiorentino, dopo un paio di respiri fondi che lasciavano intendere ancora quanto fosse debole: “Se resterò ancora a lungo qui senza fare niente, impazzirò.”

La Sforza ci pensò un momento e guardò il profilo del Popolano. Come sempre, la luce impietosa delle candele lo faceva sembrare ancora più pallido e smagrito, tuttavia i suoi occhi quasi trasparenti erano accesi, come prima della sua ultima crisi.

“Se pensi che potrà farti stare meglio – concesse la donna, passandogli lentamente una mano sulla guancia coperta dalla barba cresciuta indisturbata per giorni – allora domani dirò al castellano di darti del lavoro da fare.”

Giovanni parve davvero rasserenato e, con un sorriso tranquillo, si sistemò meglio sul cuscino e allungò una mano sotto alle coperte, fino a sfiorare la coscia della moglie, coperta solo da uno strato sottile di stoffa: “Dai, vai avanti a leggere... Ho voglia di ridere un po'.”

La Sforza, metà dell'attenzione focalizzata sulle dita di Giovanni, che la sfioravano da sopra la sottoveste, fece del suo meglio per proseguire nella lettura con una certa vivacità, fino ad arrivare a una delle parti che sapeva essere tra le preferite del marito: “Com'è che ti dimeni? Che vuol dir questo dimenare?” lesse la donna, sbirciando con la coda dell'occhio l'espressione di Giovanni che cominciava a distendersi: “La donna ridendo, ché di buona aria e valente donna era, e forse avendo cagion di ridere, rispose...”

“Come non sapete voi quello che questo vuol dire?” si intromise il fiorentino, senza nemmeno bisogno di occhieggiare verso il libro in cerca di suggerimenti: “Ora io ve l'ho udito dire mille volte: chi la sera non cena, tutta notte si dimena!”

Caterina seguì la risata del Popolano senza troppo sforzo e poi, invece di continuare a leggere, ripose il libro al suo fianco e si mise sul fianco.

Con lentezza, sorprendendolo un po', mentre lui ancora aveva il sorriso sulle labbra, gli diede un bacio e poi, stando attenta a non pesare troppo su di lui, lo strinse a sé e gli sussurrò: “Come fai a ricordati tutte queste cose a memoria?”

“Anche tu hai un'ottima memoria.” disse l'uomo, socchiudendo gli occhi, godendosi il calore del corpo di Caterina, una panacea per ogni suo male.

“Tu ne hai molta più di me.” assicurò la donna, intrecciando le sua dita con quelle del marito.

“Quando vivevo con i miei cugini – confessò un po' a denti stretti Giovanni – non facevo quasi altro che leggere e andare a cavallo. E anche quando ero nei boschi fuori Firenze, a volte leggevo dei libri che mi ero portato appresso di nascosto.”

La Tigre cercò di immaginarsi Giovanni ancora bambino scappare da Palazzo Medici per andare da solo a leggere sotto la fronda di una pianta. Non le risultò poi molto difficile.

“E siccome a volte non potevo portare con me dei tomi che adoravo, mi sarebbe piaciuto poterli avere sempre con me lo stesso – soggiunse il fiorentino, mentre la moglie premeva le labbra sul suo collo, cominciando a distrarlo – e così un amico dei miei cugini, Giovanni Pico, mi aveva insegnato qualche trucco di memoria. Tutto qui.”

Caterina avvertiva nelle narici l'odore della pelle di Giovanni e, dopo quei lunghi giorni passati ad avere paura per lui e a vedere le brutture della peste, avrebbe voluto più di tutto farlo suo.

Più gli si avvicinava, più si rendeva conto di quanto quei giorni fossero stati lunghi e tormentati. Le era mancato tutto, di Giovanni. Stare al suo fianco ad aiutarlo, a dargli pozioni da bere e a leggergli le storie che preferiva, non le bastava più.

Il Popolano sembrava aver capito le sue intenzioni e stava quasi per dar retta all'istinto del suo corpo, che lo stava spingendo ad accettare la tacita richiesta della Leonessa di Romagna – benché non fosse del tutto certo di esserne in grado, visto quanto si sentiva ancora indebolito – senonché proprio lei, tenendo a mente le parole che il dottore le aveva rivolto il giorno appresso, in uno slancio di scrupolo, si fermò di colpo.

Rimettendosi dal suo lato del letto, la Sforza fece un paio di respiri profondi e poi, alzandosi per spegnere un po' di luci, disse: “Si è fatto tardi... Meglio dormire, o domani mattina non riusciremo ad alzarci e resteremo indietro con il lavoro... Sono stanchissima, stasera...”

Giovanni comprese il tentativo della moglie di non farlo sentire inadeguato e l'apprezzò. Sapeva che per lei non era facile, rinunciare a certe cose.

Trattenersi, aveva scoperto da quando la conosceva in modo più profondo, non era il suo forte, in nessun campo.

Perciò, vederla desistere in riguardo alla sua delicata condizione, era per il Medici una prova d'affetto impagabile. Una prova d'amore, anzi.

Tuttavia, mentre la Contessa si ristendeva al suo fianco e si sistemava accanto a lui per dormire, il fiorentino non poté fare a meno di odiare i limiti della propria salute, che anche quella notte stavano gravando non solo su di lui, ma anche sulla donna che amava.

 

Il Palazzo della Signoria era preso d'assalto da una folla incredibile. Non solo gli aventi diritto a sedere sugli scranni davanti al Gonfaloniere di Giustizia, ma un sacco di altri uomini di Firenze si stavano accalcando sulla porta per poter sentire cosa fosse successo.

Era il 12 maggio e la temperatura era appena tiepida, tanto che molti ancora indossavano spessi giubboni, retaggio dell'inverno rigido e delle lunghe piogge che avevano dato a Firenze una tregua solo nelle ultime ore.

“E levatevi dai piedi!” sbottò Lorenzo Medici, scansando di forza un uomo alto e magro che gli si era messo davanti appena dopo l'ingresso e gli impediva di andare oltre.

Il segretario Machiavelli si voltò appena, occhieggiando verso il Popolano e poi, con un ossequioso mezzo inchino che a Lorenzo sapeva più che altro di scherno, lo lasciò passare.

Niccolò guardò il Medici che continuava a sgomitare fino a farsi spazio e sparire dalla sua vista verso il cuore pulsante del palazzo. Era così basso e tarchiato che Machiavelli si chiese come avesse potuto risultare così carismatico.

Malgrado i tempi fossero difficili per la sua famiglia, infatti, quell'uomo era stato comunque in grado di catalizzare su di sé una bella fetta di Signoria e anche in quei giorni caotici, con il cugino che aveva cercato – stupidamente – di entrare armato in città e il fratello dileggiato da tutta Firenze per la sua ormai conclamata incapacità diplomatica in Romagna, Lorenzo non aveva mai perso del tutto i consensi iniziali.

La ressa era ormai immobile. Era chiaro che qualcuno doveva aver bloccato il flusso in entrata nella sala del Consiglio.

Machiavelli ribolliva. Prima di tutto, voleva raggiungere l'ufficio in cui lavorava, perché il giorno prima era rimasto molto indietro con i suoi doveri, e poi voleva sapere che cosa mai avesse causato quell'assembramento di gente.

“La scomunica! La scomunica!” arrivò una voce dalla testa del plotone di curiosi: “Il papa lo ha scomunicato!”

Il vociare che si sollevò divenne assordante in appena una manciata di secondi. Niccolò prestava l'orecchio a destra e a manca per sapere meglio che cosa fosse successo, anche se era semplice capire chi fosse il destinatario di quella scomunica.

“Allora, Macchia...” ghignò Giovanbattista Ridolfi, dandogli una pesante pacca sulla schiena: “Ci si aspettava tanto, dal papa diavolo?”

Machiavelli, che, come suo costume, voleva aver molto chiara la situazione, prima di sbilanciarsi, si sganciò dallo scomodo concittadino con un sorriso tirato e borbottando: “Devo andare a lavorare, perdonatemi...” e finalmente, sfruttando la convulsa confusione che aveva agitato la ressa, riuscì a scivolare in mezzo a quelli che discutevano, fino a raggiungere il suo polveroso stanzino.

 

Simone Ridolfi guardava da sopra il bordo del calice di vino la moglie, che prendeva un pezzetto di pane dopo l'altro, masticando con lentezza.

“Tuo fratello è ancora in giro per la città?” le chiese, tanto per rompere il silenzio.

Quando si era arrivati a dover chiudere le porte, Lucrezia Feo aveva – sorprendendo non poco il marito – deciso di restare dentro le mura e anche suo fratello Tommaso aveva preferito lasciare la tenuta del Bosco per dare una mano al nuovo Governatore.

“Non lo so... Non mi dice dove va, né cosa fa.” rispose la donna, con un sorriso: “Quando provo a fargli qualche domanda di questo tipo, mi dice che non è compito di una sorella, fare il cane da guardia.”

Simone immaginava molto bene il cognato dire una cosa simile, tuttavia trovava fuori luogo che in un momento di crisi come quello non li avvisasse almeno vagamente dei suoi spostamenti.

“Dopo cena, cosa ne pensi di metterci un po' davanti al fuoco a parlare?” chiese Ridolfi, scacciando dalla mente tutti i pensieri negativi su Tommaso, che, a parte quei dettagli, si stava dimostrando un collaboratore e un amico senza pari.

“Non vedo perché no.” accettò Lucrezia, facendo però cadere subito il discorso.

Il marito si sforzò di mangiare ancora qualcosa, anche se la loro tavola era molto povera in quei giorni.

In realtà gli aveva fatto piacere sapere che sua moglie voleva restare con lui, malgrado la minaccia della peste, eppure non aveva potuto evitare alla sua mente di tormentarsi con una serie di domande che a volte gli toglievano il sonno.

Perché Lucrezia non era rimasta al sicuro nella loro tenuta di campagna? Perché si era esposta così al rischio senza che ve ne fosse motivo? Dopotutto, lei non prendeva parte attiva né nell'organizzazione della città, né – Simone doveva ammetterlo – nella vita di famiglia.

Era come se non ci fosse, in quel palazzo. Passava le sue giornate a gironzolare da una stanza all'altra, riposandosi e guardando fuori dalla finestra. Solo raramente cuciva un po' o al massimo chiacchierava con una delle serve.

'Però, quando scende la sera – si diceva il Governatore, per tirarsi su da solo il morale – lei è qui con me.'

Finito di mangiare, come avevano deciso prima, si misero nel salotto, davanti al camino acceso.

Il ritorno di Tommaso, che fece una fugace apparizione per dire che era stato sulla tomba della moglie e della suocera prima di rientrare a palazzo, diede loro il pretesto per dire qualche parola con lui e ricordargli che nelle cucine c'era ancora qualcosa da mangiare, se aveva fame.

Uscito l'ex Governatore, però, marito e moglie avevano ripreso il loro mutismo, gli occhi di Lucrezia fissi al fuoco e quelli di Simone fissi su Lucrezia.

“Io non ti conosco.” disse alla fine Ridolfi, allargando le braccia e lasciandosele ricadere sulle gambe con fare afflitto: “Sei mia moglie e praticamente non so nulla di te.”

“Sai le cose più importanti.” rispose lei, mentre il suo volto dai lineamenti statuari si animava appena, forse di tensione.

“Voglio sapere tutto, non solo le cose più importanti.” fece allora lui, scuotendo il capo.

“Nemmeno io conosco te.” ribatté la donna, il respiro un po' più frequente che le sollevava il petto, mentre riprendeva: “Ti ho sposato per convenienza, come tu hai fatto con me. Sappiamo dell'altro che ci interessano i soldi e una buona posizione sociale. E che ci capiamo, quando siamo in camera da letto. Ci serve sapere altro?”

Il Governatore non rispose e lasciò che la moglie intuisse da sola quello che lui avrebbe voluto dire.

Il lunghissimo silenzio che seguì, servì a entrambi per riflettere. Mentre il legno si consumava nel fuoco, entrambi stavano arrivando alla medesima conclusione, solo che Simone fu il più rapido a esporla.

“Io non pensavo che avrei provato qualcosa per te, quando ho deciso di sposarti.” disse, puntellandosi sulla poltrona e scostandosi una ciocca di capelli castano rossicci dal volto: “Ma adesso ho capito che non posso farci nulla: mi sono innamorato di te e adesso quello che abbiamo non mi basta più. Io voglio sapere chi sei.”

Lucrezia si premette le dita sulla fronte, con un'espressione un po' sconsolata. Per la prima volta da quando la conosceva, Simone ebbe l'impressione di veder cadere una maschera dal suo viso.

“Non c'è molto da sapere di me.” fece la donna, lasciando che la sua stanchezza trapelasse tanto dalla sua postura quanto dalle sue parole: “Se mi conoscerai, potresti renderti conto della mia pochezza e...”

“Niente mi farà cambiare idea.” mise in chiaro l'uomo, assaporando la svolta che la sua relazione con la moglie stava per subire: “Ti prego, parlami di te. Voglio sapere tutto. Raccontami com'eri da piccola, da ragazza, del tuo primo matrimonio, della tua vita... Voglio sapere ogni dettaglio.”

“Solo se poi anche tu mi parlerai di te.” contrattò Lucrezia, guardandolo con i suoi occhi scuri e improvvisamente timorosi.

“Ti racconterò tutto di me, te lo prometto.” accettò Simone e, prima che ci fosse bisogno di insistere, la sorella di Tommaso Feo iniziò a parlare di sé, senza più filtri né reticenze.

 

Per metà maggio, era parso a tutti che l'epidemia di peste che aveva colpito Forlì stesse definitivamente arrivando alla sua fine naturale, tanto che si parlava perfino di riaprire presto le porte.

Non aveva più piovuto, e la temperatura si stava facendo quasi primaverile. Non si registravano quasi più decessi e le guarigioni erano arrivate a essere maggiori dei nuovi contagi.

Caterina stava per cominciare a rilassarsi.

Giovanni stava molto meglio e si prodigava ad aiutare Cesare Feo con i lavori più noiosi, mentre il castellano si occupava di quelli più pesanti.

Bianca si era fatta in quattro per aiutare la madre, che ne era rimasta molto colpita e le aveva anche detto a mezza bocca di essere molto fiera per come si stava comportando.

Ottaviano, invece, con una scusa o un'altra, era sempre più o meno riuscito a scansare gli impegni che la sua carica portava con sé, ma almeno non aveva fatto danni e non si era messo in ridicolo il che, per la madre, era già un traguardo non indifferente.

Quando, quindi, tutti cominciavano già a pensare che il pericolo fosse scampato, in uno dei quartieri periferici della città si attivò un nuovo focolaio di peste e nel giro di un paio di giorni, la città ripiombò nell'incubo.

“Cosa significa che i lupanari hanno ripreso le loro attività?!” esclamò la Tigre, quando Luffo Numai le farfugliò quella novità: “Da quando?”

Il Consigliere cercò appoggio nell'Oliva che, per primo, si era accorto che molte case chiuse non si erano lasciate fermare nemmeno dalla peste, approfittando del principio per cui chi ha molta paura o scappa in chiesa a pregare, o a spendere soldi per godersela fino alla fine.

“Non lo sappiamo di preciso, ma siamo certi che un paio di uomini che poi si sono ammalati fossero stati in uno dei postriboli che...” iniziò a dire Numai.

“Andiamo. Facciamoli sfollare.” decise all'improvviso la Contessa, sorprendendo un po' i due uomini che le stavano davanti nel caldo dello studiolo del castellano: “Confiniamoli in angoli diversi della città e mettiamo i proprietari in isolamento. Voglio vedere che affari faranno, in questo stato... E, ovviamente, dite al medico di venire con noi. Dobbiamo controllare che non ci siano appestati tra loro...”

Appena prima di lasciare Ravaldino, seguita da Numai, dal dottore e da un paio di servi che l'avrebbero aiutata, Caterina trovò opportuno chiamare Ottaviano. Probabilmente il rischio di contagio sarebbe stato basso, ma almeno avrebbe potuto farsi vedere, una buona volta, mentre faceva il suo dovere.

Lo trovò nella sala delle letture, assieme a Bianca, che si stava riposando dopo una lunga mattina passata a distribuire il pane preparato con il grano comprato da Giovanni. Gli ordinò di seguirla e il ragazzo, a malincuore, non si negò.

“Controllate anche quei due...” fece la Leonessa, indicando due schiavetti, poco più che due bambini, che si stavano defilando insieme alla piccola folla del bordello più rinomato della città: “E se sono in salute, dite alla padrona di questo posto che li compro io. Faccia lei un prezzo.”

Numai conosceva la politica della sua signora, in merito agli schiavi, e sapeva che le cucine della rocca potevano vantare più di una ragazza liberata come aiuto cuoca. Perciò sorrise, mentre annuiva e raggiungeva la prosseneta del lupanare per avanzare la proposta della Contessa.

Il medico era sparito assieme a un monatto nelle stanze interne e stava controllando a uno a uno i ragazzi e le ragazze che lavoravano lì.

Man mano che quelli trovati sani tornavano nell'ingresso, Caterina li divideva in gruppi e diceva al Capitano Francesco Numai dove portarli, una volta finita quella ricognizione.

“Ma che cosa intendete fare di questo posto..?” chiese preoccupata la proprietaria, stretta nel suo abito volgare, con le guance cadenti che tremolavano a ogni parola: “Non potete certo costringermi a chiuderlo... Io...”

“Si tratta solo di una misura temporanea.” spiegò la Tigre, parlando sopra al Capitano, che aveva cominciato a rispondere: “E poi con tutti i soldi che avete da parte, potete permettervi una piccola pausa.”

“Ma io...” boccheggiò la vecchia, sbarrando gli occhi, che si stavano inumidendo come se stesse per mettersi a piangere.

“Mi pagate le tasse, conosco i vostri conti e so che siete quasi più ricca di me.” la zittì la Sforza, mentre qualcuno del suo seguito faceva un sorrisetto ironico per darle ragione: “Quindi, per favore, tenete le vostre lacrime per qualcosa di più serio.”

A quel rimbrotto, la proprietaria del lupanare non disse più nulla, ritornando nel suo angolino.

Ottaviano era accanto alla madre, in silenzio, in imbarazzo, incapace di sollevare lo sguardo da terra. Conosceva molte delle persone radunate in quello stanzone e un paio di loro portava ancora i segni delle sue ultime visite sul corpo.

La Contessa, che fino a quel momento si era lasciata distrarre dagli aspetti più prettamente amministrativi di quella visita, annoiata dall'attesa, cominciò a osservare chi le stava davanti. Erano quasi tutte donne, di età e aspetto abbastanza vari. C'erano solo un paio di ragazzi, uno molto giovane, l'altro più vecchio e virile.

Mentre indugiava su uno di loro, una giovane uscì dal corridoio per unirsi ai sani, ma alle sue spalle c'era il dottore.

“Io preferirei tenerla sotto osservazione.” spiegò il medico, parlando nell'orecchio della sua signora: “Non ha la peste, certo, né altre malattie, ma vedete il suo collo? Vorrei accertarmi che non abbia lesioni gravi... Quando respira le fa male il torace e credo che possa aver avuto qualche frattura di recente...”

“Come preferite.” annuì la Leonessa, pensando che un po' di riposo in un ambiente protetto come la casa del medico di cui si fidava ciecamente non avrebbe che fatto bene a quella sventurata ragazza.

Mentre il dottore tornava a parlare con la giovane per spiegarle che l'avrebbe tenuta qualche giorno con sé per sicurezza, Caterina si trovò istintivamente a guardare Ottaviano.

E il modo in cui il figlio stava fissando la ragazza fece capire subito alla Tigre chi fosse il colpevole delle lesioni di cui parlava il dottore.

“Sei una bestia.” sibilò la Sforza, avvicinandosi al giovane.

Questi arrossì violentemente, ma non controbatté. Difficile dire se per mancanza di scuse o per non scattare davanti a così tanti testimoni.

Le visite erano quasi finite, quando al gruppo dei non contagiati si unì anche il ragazzo biondo che Caterina aveva incontrato alla rocca più di una volta.

Egli parve quasi sorpreso di vederla e fu sul punto di salutarla con qualche parola, quando, per fortuna, si rese conto di quanto sarebbe stato sconveniente.

La Contessa, nel vederlo, avvertì un crampo allo stomaco molto spiacevole. Quel giovane uomo le ricordava dei momenti molto brutti della sua vita e allo stesso tempo le faceva anche tornare in mente i piccoli gesti di gentilezza che le aveva rivolto e che le avevano, in qualche modo, scaldato il cuore.

Desiderosa di muoversi da lì per non far notare troppo il rossore che le stava salendo dal collo verso il volto, Caterina disse: “Io comincio a uscire. Quando siete pronti, sappiate che vi aspetto in strada.”

Ottaviano attese qualche istante e poi scese anche lui nella via, mentre nella casa ancora si finiva di controllare lo squadrone di ragazzi e ragazze che la proprietaria aveva saputo selezionare nel tempo.

“Che c'è?” chiese la Sforza, con aggressività, quando si vide arrivare accanto Ottaviano.

Il cielo era terso e un sole malato gettava una luce strana su quel pomeriggio di maggio. Un sottile strato di polvere si sollevava di quando in quando dalla carreggiata e solo un paio di monatti con un carretto e qualche forlivese affaccendato stavano passando da lì.

“Quell'uomo vi ha guardata in modo strano...” iniziò a dire il giovane Riario, senza sapere nemmeno lui dove andare a chiudere il discorso.

“Vuoi sapere se l'ho pagato per avere la sua compagnia?” lo incalzò la donna, gli occhi verdi resi glaciali dalla rabbia che aveva messo in quella domanda.

Ottaviano tacque, ma Caterina non riuscì a controllarsi e così, torreggiando su di lui, gli disse con durezza: “Almeno io non cerco di ammazzare a botte quelli che mi porto a letto.”

Il diciottenne boccheggiò un momento, in cerca di una valida motivazione per quello che sua madre aveva intuito vedendo la ragazza che ancora mostrava le ombre sinistre sul collo, ma la donna stava già scuotendo il capo e sospirando: “Sei come tuo padre.” sentenziò, per la centesima volta.

Senza nemmeno più la forza di provare a contraddirla, Ottaviano la guardò mentre si allontanava dicendo: “Di' a Numai che continuino da soli. Ho una cosa da fare.”

Camminando a passo spedito verso la rocca, la Contessa si scoprì molto più scossa di quello che aveva creduto. Il vedere la città ritornare avvolta dal male, l'aveva abbattuta profondamente e ritrovarsi davanti quel ragazzo aveva fatto il resto.

Con la mente spaccata, divisa tra il ricordo pungente di Giacomo, che come sempre le si ripresentava nei momenti peggiori, e la paura per quella malattia che sembrava non voler finire mai, la Tigre passò senza rendersene conto davanti alla bottega di Bernardi.

Benché non fosse in attività, il Novacula era sempre lì, pronto a cogliere novità, apparentemente incurante del rischio del contagio, e così non gli sfuggì il passaggio della Contessa.

“Mia signora..!” provò a chiamarla, uscendo di corsa dalla barberia e raggiungendola.

“Bernardi...” ricambiò lei il saluto, continuando a camminare, scalciando in avanti il gonnellone scuro del suo abito da lavoro.

“Come sta messer Medici?” chiese Andrea, cercando di starle al passo: “Non lo si vede al vostro fianco da giorni...”

“Non sta morendo di peste, se è questo che sperate tutti.” disse Caterina, parlando d'istinto, senza ragionare, permettendo all'ira di governarla ancora una volta.

“Io non spero certo che...” cominciò a dire il barbiere, attonito davanti a quell'attacco verbale.

“Sta bene, come volete che stia!” lo liquidò la donna, accelerando ulteriormente: “E ora scusatemi, ma non ho voglia di parlare con voi, in questo momento.”

Il Novacula allora si fermò e si lasciò superare. Tenne gli occhi fissi sulla figura della Leonessa, così attraente, anche se con abiti pessimi e i capelli scompigliati e striati di bianco.

Con un sospiro dolente, il barbiere se ne tornò nella sua bottega e, appena prima di chiudersi dentro, un giovane uomo si affacciò sulla porta e chiese: “Sapete dove posso trovare la Contessa Riario, in questo momento?”

Bernardi, che cominciava a masticare le parole che la Tigre gli aveva rivolto e a trovarle più offensive di quanto non gli fossero parse all'inizio, rispose senza indugiò: “Immagino che la possiate trovare alla rocca.”

'Dove altro può andare, tanto di corsa?' concluse, solo nel pensiero.

L'uomo lo ringraziò appena e riprese a camminare, dirigendosi verso Ravaldino.

Solo quando fu di nuovo solo, Andrea si rese conto di non aver mai visto quel giovane prima di allora. Se fosse stato un abitante di Forlì, di certo prima o poi sarebbe passato sotto al suo rasoio, e lui non dimenticava mai un cliente.

Guardingo, si affacciò sulla porta e lo guardo mentre si allontanava. Aveva un fisico da soldato, uno di quelli belli muscolosi, addestrato di certo da tempo, ma zoppicava appena e in effetti sembrava un po' indebolito.

Chiedendosi se avesse fatto bene a mandarlo senza indugio alla rocca, il Novacula chiuse una volta per tutti i battenti e per quel giorno decise di non lasciare più la sua stanza da letto. Avrebbe passato il suo tempo a correggere le sue cronache e a scrivere un nuovo capitolo sulla recrudescenza di quella pestilenza che non voleva dare pace a nessuno, men che meno alla Tigre di Forlì.

 
   
 
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