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Autore: Adeia Di Elferas    12/11/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni attendeva di vedere rientrare Caterina. Voleva aspettarla per andare a mangiare qualcosa insieme, e così, chiusi i pesanti registri che il castellano gli aveva pregato di ricontrollare – più per concedergli qualcosa da fare che non per vera necessità – il Medici si era messo a una delle finestre interne che davano sul primo cortile.

Avrebbe preferito stare sulle merlature, ma la moglie lo aveva rintronato fin troppo con le sue raccomandazioni. Il vento che aveva cominciato a tirare, freddo e infido, avrebbe potuto portargli qualche dolore di troppo, dunque era meglio restare dov'era.

Anche se non sapeva a che ora aveva intenzione di rientrare, il fiorentino sapeva di non avere di meglio da fare e così si armò di pazienza.

Finalmente, quando ormai la posizione fissa gli risultava penosa, il Popolano la vide oltrepassare il portone e attraversare per metà il cortile, fermandosi a parlare con il Capitano Mongardini, che era lì con un paio di altri soldati.

Giovanni fu tentato di andare subito di sotto, per correrle incontro, ma qualcosa non lo convinse, nel modo in cui la vide gesticolare con i suoi sottoposti.

Era visibilmente tesa per qualcosa e, nel mentre in cui l'ambasciatore si lambiccava per immaginare quale potesse essere il motivo della sua agitazione, la sua attenzione venne catturata da una nuova figura che si univa al quadretto.

Proprio quando Mongardini e gli altri ripartivano con un cenno del capo, un uomo, abbastanza giovane e ben piazzato, era entrato nel cortiletto e si era diretto senza indugio verso la Contessa che, essendo di spalle, non l'aveva notato.

Caterina era appoggiata al bordo del pozzo e stava cercando di liberare la mente. La pressione a cui si sentiva sottoposta in quei giorni rischiava di toglierle di nuovo la lucidità che aveva così faticosamente ritrovato negli ultimi tempi.

Fece appena in tempo a fare un profondo sospiro, in cerca di calma, quando sentì alle sue spalle una presenza inquietante.

Si voltò di scatto e si trovò faccia a faccia con un uomo che non credeva di conoscere. Questi la fissava in silenzio, la barba incolta e il volto sporco, come se fosse stato in giro senza fissa dimora da settimane.

“Vi ho scritto, molte volte...” fece quello, con le pupille che lasciavano trasparire rabbia e disperazione in egual misura: “Non mi avete mai risposto.”

A quel punto, i sensi della Tigre si fecero più vigili. Si rese conto improvvisamente che, andati via Mongardini e i suoi due soldati, nel cortiletto in quel momento c'erano solo lei e quell'intruso. E poi si accorse anche che l'uomo le era molto vicino. Troppo, se avesse cercato di chiamare aiuto urlando qualcosa alle guardie che stavano sui camminamenti o accanto al portone, quello avrebbe fatto in tempo a farle qualsiasi cosa...

“Chi siete?” chiese a voce bassa Caterina, cercando in tutti i modi di ricollegare quel viso anonimo a qualche nome.

Mentre quello faceva una specie di sorriso sghembo, la donna se lo ricordò. Era stato uno tra gli ultimi che aveva condotto nelle sue stanze, prima di cedere a Giovanni. Quel viso senza attrattive e quel corpo statuario – malgrado gli abiti consunti e l'evidente stato di bisogno – non potevano essere di nessun altro.

“Non vi ricordate nemmeno chi sono...” fece quello, scuotendo piano il capo.

Appena la voce dell'amante deluso si spegneva, la Leonessa si avvide di uno strano luccichio che arrivava dal basso e, con un'occhiata velocissima, vide la lama del pugnale che l'uomo celava sotto il bordo della giacca sbrindellata.

“Non fate sciocchezze.” gli disse, con la gola secca, chiedendosi come uscire da quella situazione che trovava paradossale.

“Perché? Tanto che ho da perdere?” ribatté quello, sollevando le sopracciglia.

“La vostra vita, per esempio.” rispose la Tigre, convinta che farlo parlare gli avrebbe abbassato la soglia dell'attenzione tanto da permetterle di disarmarlo.

“Che me ne faccio, ormai?” soffiò l'intruso, facendo ancora un passo in avanti, tanto che la Contessa ne sentì il tanfo, riconoscendovi subito una nota che in quelle settimane aveva imparato ad avvertire prima di ogni altra.

“Come avete fatto a entrare qui?” chiese, rendendosi conto in quell'istante che se un appestato era riuscito a penetrare a Ravaldino tanto facilmente, significava che qualcuno non stava facendo il suo mestiere.

“Che ve ne importa?” fece l'altro, stringendo con più forza il manico del pugnale, celato sempre meno sotto la stoffa.

“Che cosa vuoi da me?” lo incalzò la donna, deglutendo a fatica e cercando di ragionare in fretta.

“La peste mi farà diventare carne per vermi...” soffiò il soldato: “E questa è la mano del demonio, che mi vuole punire per aver accettato le tue richieste...”

Per quanto fosse oltraggiata dall'accusa e dal tono dell'uomo, la Sforza fece buon viso a cattivo gioco e provò a lenirlo con promesse fasulle: “Posso farvi curare. Io so come fare. Venite con me, dentro alla rocca... Vi darò degli unguenti per...”

“Tutta colpa di quel vostro amante, del Barone – proseguì l'intruso, senza darle il tempo di dire altro – tutto è cominciato con lui. Il peccato è entrato nella carne di questa città quando voi avete cominciato a dare libero sfogo ai vostri istinti da animale assieme a quel maledetto pezzo di...”

Il soldato non riuscì a terminare la frase, perché un urlo di panico tramutò la sua filippica in un'agghiacciante richiesta d'aiuto.

Caterina, improvvisamente accecata dalla rabbia nel sentire nominare Giacomo, per di più in quel modo, aveva preso di peso l'uomo che aveva davanti e lo aveva spinto contro il pozzo.

E ora, aggrappato malamente solo con le mani al bordo, l'appestato si era messo a lacrimare e invocare perdono e pietà e che qualcuno lo afferrasse e lo tirasse in salvo.

Pietrificata, la Contessa restò immobile, mentre una mezza dozzina di uomini arrivava vicino al pozzo e si metteva a vociare e cercare di aiutare il malcapitato che stava per cadere di sotto.

“Non toccarlo!” esclamò a un certo punto la Tigre, quando riconobbe tra i soccorritori anche il marito.

Giovanni, che aveva capito tardi quello che la moglie stava per fare, non appena aveva visto l'uomo venire lanciato contro il parapetto del pozzo, aveva sceso le scale in fretta, con il cuore in gola, chiamando a sé un paio di soldati incontrati nel corridoio.

“Tiriamolo su!” insistette il Medici, senza dare peso né alle parole della Sforza, né alle sue mani che gli si erano aggrappate al braccio per trascinarlo via.

“Ha la peste! Non toccatelo!” corresse il tiro la Leonessa, convinta a quel modo di far desistere tutti quanti.

“Non lasciatelo cadere!” fu invece la reazione di uno dei soldati che erano accorsi: “Se cadrà nel pozzo avvelenerà con la peste le nostre scorte d'acqua!”

E così, tutti quelli che erano accorsi attirati dalle urla angosciate dell'appestato, lo afferrarono per le mani, per il polsi, poi per le braccia e infine per il busto e riuscirono a tirarlo fuori dalla trappola mortale in cui era stato gettato.

Caterina aveva assistito a tutta la scena senza riuscire più a dire o fare niente. Adesso l'uomo che poco prima teneva in mano il pugnale era accasciato in terra, senza fiato, con il viso sconvolto dalla paura.

Ci fu un breve momento di stallo, durante il quale i soccorritori, Giovanni compreso, ripresero fiato, piegati sulle ginocchia e nuovi curiosi si profilarono dai camminamenti e dalle finestre.

Forse smosso da quell'assembramento di spettatori, l'intruso sollevò il mento e, tirandosi su a fatica, indicò con un indice malfermo la Sforza: “Tutti voi vi chiedete qual è la causa della peste! E l'avete qui! Davanti a voi! Questa strega! Lei con i suoi peccati contro Dio! La lussuria e l'ira, i vizi capitali di questa bestia feroce! Ecco che cosa ha attirato la peste su tutti noi! Tutti gli uomini che ha sedotto e tutti quelli che ha ucciso! Lei ha...”

“Stai zitto!” sbottò a quel punto la Tigre, facendosi avanti e dandogli un forte colpo nella pancia con il pugno chiuso.

All'uomo mancò l'aria nei polmoni e, mentre ricadeva in terra, la signora di Forlì chiamò a sé un paio delle guardie accorse: “Quest'uomo ha la peste e sta mettendo tutti noi in pericolo. Portatelo via. Che venga messo in isolamento con gli altri.”

I due soldati non se lo fecero ripetere e, seppur con un'espressione guardinga, per paura di essere contagiati, presero il malato uno per parte.

“E se dovesse salvarsi dalla peste – aggiunse Caterina, guardandoli mentre si avvicinavano al portone – appena si sarà rimesso, voglio che venga portato in cella.”

Giovanni, intanto, si era messo in un angolo del cortile e la osservava da lontano, con uno sguardo strano. La moglie se n'era accorta, ma prima voleva portare a termine quello che aveva iniziato.

Il fatto che un appestato fosse entrato a Ravaldino era gravissimo e dunque qualcuno doveva pagare. Non era la prima volta che le guardie della rocca commettevano errori simili.

Anche quando il Medici era arrivato in città per la prima volta c'era stato un episodio simile. Dopo essere entrato dal portone, infatti, l'ambasciatore fiorentino era riuscito ad arrivare indisturbato fino al cortile d'addestramento e nessuno aveva pagato adeguatamente per quella falla nel sistema difensivo.

“Mongardini!” chiamò Caterina, guardando verso i camminamenti: “Mongardini!”

L'uomo, accaldato come se fosse arrivato lì dopo aver corso tutto il perimetro delle mura, guardò giù e così la sua signora gli ordinò di scendere immediatamente.

Gli spiegò in fretta quel che era successo e poi fece chiamare al suo cospetto le due guardie che stavano al portone, sostituendole con altri due soldati che al momento erano liberi.

I due uomini erano visibilmente terrorizzati e solo il più vecchio tra loro provò a discolparsi, dicendo che quell'uomo aveva detto di avere un impegno urgente con lei e il castellano.

Attonita davanti a una simile difesa, non riuscendo a capire quanta ingenuità e quanta faccia tosta ci fossero in quelle parole, la Tigre cominciò a imprecare a voce tanto alta e con termini tanto scurrili che perfino Bianca – che in quel momento era nella sala delle letture – fu attirata dalla confusione e si mise alla finestra per vedere che stesse accadendo.

“Metteteli nelle segrete per una notte.” disse alla fine la Contessa, parlando a voce bassa con Mongardini: “Ma che non sappiano che è per così poco. Domani mattina liberateli e mandateli dai monatti. Che si rendano utili con gli appestati.”

Il Capitano annuì, servile e poi diede ordine a qualcuno dei suoi di prendere le due guardie e di seguirlo nei sotterranei.

“Non c'è più nulla da vedere!” ruggì la Tigre, occhieggiando verso quelli che ancora ciondolavano nel cortile o affacciati alle finestre: “Tornate al lavoro!”

Incrociò solo per un istante lo sguardo della figlia che però, come tutti gli altri, si ritirò dalla finestra all'istante.

L'unico che non accennava ad andarsene era Giovanni, che restava ancora vicino al muro a fissare la moglie con uno sguardo indecifrabile e una linea dura dipinta sulle labbra carnose.

“Tu l'avresti davvero lasciato cadere, giusto?” chiese il Medici, quando la Sforza gli si avvicinò.

“Mi ha minacciata.” fece lei, a mo' di giustificazione.

L'uomo, che indossava abiti troppo leggeri per stare all'aperto, si strinse un po' nelle spalle e poi puntò le iridi chiarissime verso il pozzo e commentò: “Sarebbe stata una morte orribile.”

Caterina avrebbe voluto ribattere facendogli notare che in passato aveva fatto anche di peggio e che gettare un uomo in un pozzo, confrontato con l'impiccare una donna incinta o far uccidere un lattante, era poca cosa. Però, in quel momento, la paura di poter perdere Giovanni in qualche modo era troppo forte.

Suo marito evitava di guardarla e aveva l'espressione corrucciata di chi si sta chiedendo qualcosa di importante. Forse, pensò la Tigre, il Popolano si stava solo rendendo conto di chi aveva sposato.

“Hai fatto anche di peggio.” concluse Giovanni, sorprendendola un po' nel farle capire che stava facendo più o meno lo stesso ragionamento che aveva fatto lei.

La freddezza con cui l'uomo aveva parlato, comunque, agitò ancor di più la Sforza che non un suo eventuale sfogo di rabbia, tanto che, nel tentativo estremo di apparire meno violenta di quel che sapeva di essere, spiegò: “Aveva un pugnale e ha minacciato chiaramente di uccidermi. O lo uccidevo io, o lui uccideva me. Che dovevo fare?”

Giovanni, però stava scuotendo la testa già a metà discorso e, quando la donna pose l'ultima domanda, lui disse: “Ti stavo guardando dalla finestra – indicò in alto con la mano – e ho visto che stavi tenendo la calma, parlavi con lui in modo strano, eri tesa, ma lo stavi per portare via... Ma poi all'improvviso sei scattata. Perché?”

“Ha insultato Giacomo.” rispose in un sussurro Caterina, che cominciava a sentire il vento freddo gelarle anche il sangue nelle vene.

“E basta così poco per uccidere un uomo?” fece il fiorentino, ma senza usare un tono accusatorio.

Sembrava più qualcuno che cerca di capire una lezione molto difficile, ma senza riuscirvi.

La calma con cui suo marito le stava parlando, le fece perdere di nuovo la pazienza: “Prima di tutto non l'ho ucciso...”

“Solo perché siamo arrivati in dieci a tirarlo su da quel dannato pozzo...” fece notare il Popolano, incrociando le braccia sul petto.

“Quando mi hai sposata – inveì allora la Sforza, cercando di tenere la voce bassa per non attirare più curiosi nel cortiletto – sapevi benissimo cos'ero. Sapevi benissimo che sono capace di uccidere e che posso farlo anche per cose che a te sembrano sciocche, ma che per me non lo sono. Il nostro è stato uno scambio equo! Una merce difettata in cambio di un'altra! Sapevi che ero un'assassina, come io sapevo che tu eri malato!”

Quell'ultima esclamazione fece schiudere appena le labbra di Giovani che, dopo un momento di silenzio durante il quale si perse a guardare il volto della moglie, soffermandosi soprattutto sui suoi occhi verdi, in quel momento così distanti da sembrare disumani, sussurrò: “Perdonami... Ho... Ho bisogno di stare un momento da solo...”

Dopo quelle parole, l'uomo le sfilò accanto e torno dentro la rocca.

Caterina si passò con forza una mano sulla fronte e si accorse di essere stanchissima. Quello che era successo, così in fretta e così in modo assurdo, l'aveva stremata.

Decidendo all'istante che per quel giorno non avrebbe più fatto e ordinato nulla a nessuno, lasciò detto che si ritirava e andò nell'ala notturna della rocca.

Quando si trovò, ancora con i capelli umidi per il bagno nelle essenze e negli olii profumati, davanti alla porta della camera che condivideva con Giovanni, si fermò. Si chiese cosa fosse successo esattamente tra loro nel cortile e poi, cercando di non correre troppo in fretta a conclusione catastrofiche, si spostò di un paio di metri a lato ed entrò dalla porta di quella che era stata la sua stanza prima di risposarsi.

Il letto era stato rifatto, come sempre, benché lei non ci dormisse più. Coricandosi sulle coperte, la Sforza pensò fugacemente di accendere il camino, ma era tanto tremata che lasciò perdere e cercò solo di liberare la mente.

Quando si rese conto che era proprio in quella stanza che aveva incontrato anche l'uomo che poco prima aveva cercato di gettare nel pozzo, l'unica cosa che sentì il bisogno di fare fu andare a cercare un servo, chiedendogli di accenderle il fuoco nel camino e di portarle una brocca di vino caldo.

 

Lucrecia rise all'ennesima battuta salace di Sancha d'Aragona, imitata subito dalle sue altre dame di compagnia, però, mentre il sorriso lasciava il posto a un'espressione più neutra, le parve di sentire delle voci che conosceva molto bene.

Quando passò, assieme al suo codazzo di damigelle, nella stanza successiva, si rese conto di non essersi sbagliata.

Juan e Cesare, tanto vicini che i loro nasi quasi si sfioravano, stavano litigando in catalano, usando termini che, fecero arrossire tutte le presenti capaci di comprenderle.

“Juan!” esclamò allora Lucrecia, mettendosi subito in mezzo a loro per dividerli: “César!”

I due giovani continuavano a scambiarsi epiteti infamanti, incuranti delle donne che li fissavano e senza nemmeno rendersi conto che Sancha, uno dei motivi scatenanti del loro battagliare, era in prima fila e li guardava con un vago sorriso sulle labbra.

“Smettetela! Sembrate due bambini!” li rimbrottò di nuovo la sorella.

“Levati di torno!” esclamò Juan, spostando Lucrecia con uno strattone.

“Non azzardarti a toccarla!” tuonò Cesare, spintonando con tanta forza il fratello da fargli perdere l'equilibro.

Juan, sul cui viso asciutto spiccava la cicatrice guadagnata in guerra, si aggrappò fortunosamente a una delle credenze e riuscì a non cadere.

“Non finisce qui!” assicurò al fratello, mentre i suoi occhietti un po' incavati si accorgevano degli sguardi rapiti ed eccitati delle dame di compagnia di Lucrecia.

Quando, poi, incrociò quelli sempre famelici e aggressivi di Sancha, Juan non resistette più e, facendo andare a gran velocità le lunghe gambe, andò via.

“Ma che cosa vi è saltato in mente?” sussurrò Lucrecia a Cesare, il sussurro appena coperto dal chiacchiericcio delle sue dame che commentavano la scenetta appena vista.

“È colpa sua...” si difese Cesare, risistemandosi l'abito talare che si era sgualcito in quel mezzo scontro: “È solo... Solo invidioso... Solo invidioso.”

La giovane Borja era quasi certa che quel termine calzasse di più a Cesare che non a Juan, ma non voleva gettare legna nel fuoco, così, sforzandosi di sorridere, gli disse: “E tu non prestargli il fianco, allora.”

L'uomo annuì, sistemandosi i capelli scompigliati e poi, rivolgendosi con un sorriso affettato alle seguaci della sorella, disse: “Perdonatemi per questo spiacevole contrattempo. A volte mio fratello ha un carattere così intemperante...”

Lucrecia preferì chiudere lì quel siparietto e congedò Cesare con un semplice: “Questa sera nostra madre vorrebbe che cenassimo da lei.”

Il fratello annuì, valutando tra sé che la madre in quel periodo li voleva spesso a tavola con sé di sera, e poi soggiunse, in un bisbiglio: “Io, però, ci sarò solo se non ci sarà lui.”

 

Era ormai scesa la notte e Giovanni non aveva ancora avuto il coraggio di lasciare la stanza in cui si era chiuso a pensare.

Trovando la sala delle letture occupata, si era messo in quella dove tenevano di norma i consigli di guerra. Per fortuna nessuno era arrivato a disturbarlo.

Aveva passato tutto il tempo a rimuginare tra sé, valutando una miriade di fattori, senza mai riuscire a capire nemmeno perché lo stesse facendo.

Caterina aveva ragione. Entrambi sapevano che l'altro aveva dei punti deboli non indifferenti, eppure si erano scelti ugualmente. Solo, non poteva fare a meno di dirsi, lui non aveva potuto scegliere se essere malato o meno, mentre sua moglie era diventata un'assassina in modo del tutto deliberato.

Avvolto ormai nella penombra, rischiarata solo dalla luce del camino in cui stavano morendo le braci, il Medici passò l'indice e il medio sul nodo coniugale che portava all'anulare sinistro.

Mentre i suoi occhi vagavano spersi per la stanza, come avevano fatto molte volte da che si era rintanato lì, un ricordo improvviso lo colpì.

Il suo sguardo era stato attirato dal tavolo su cui ancora erano spiegate un sacco di cartine dell'Italia e della Romana nel dettaglio.

Si lasciò cullare un momento dalla poltrona in cui era sprofondato, al ricordo di quando lui e Caterina si erano amati proprio in quella stanza, sopra a quel tavolo e all'improvviso si rese conto che non gliene importava nulla.

Aveva ragione sua moglie, su tutta la linea. Lui l'aveva scelta e sapeva cosa stava scegliendo e non aveva alcuna intenzione di rinunciare a lei, qualunque cosa comportasse starle accanto.

Con un sospiro pesante, l'uomo si mise in piedi e si diresse con decisione verso l'ala più interna della rocca.

Si pulì accuratamente, come gli era stato tante volte spiegato di fare, anzi, con ancor più attenzione, visto che aveva toccato un appestato poche ore prima.

Quando fu pronto e con indosso abiti da notte puliti, andò senza esitazione verso la sua stanza. Per sicurezza, bussò, ma non sentì risposta.

Pensò che la moglie si fosse già addormentata, perciò aprì con lentezza l'uscio, ma, quando si trovò nella stanza buia e silenziosa, si rese conto che il letto era vuoto.

 

Caterina aveva finito il vino da un pezzo e ormai l'effetto benefico di quel nettare caldo stava svanendo. Non riusciva a dormire e si stava preparando a una notte insonne, quando sentì qualcuno che provava ad aprire la porta.

Saltando subito in piedi, andò a girare la chiave e non appena l'uscio si aprì di qualche centimetro, Giovanni spalancò la porta ed entrò, senza dire nulla.

Il camino acceso e le candele che brillavano per tutta la stanza avevano scaldato bene l'ambiente e il Popolano trovò quella camera incredibilmente accogliente. Inspirò con forza e avvertì in modo chiaro il sentore vinoso che ben si coniugava con il calice e la brocca abbandonati sulla scrivania.

Malgrado quell'indizio, però, quando guardò il volto della moglie, gli fu chiaro che fosse già tornata sobria.

Sempre senza aprire bocca, il fiorentino la strinse a sé e la baciò con una rabbia che Caterina non gli aveva mai sentito addosso.

La donna avrebbe voluto chiedergli qualche spiegazione, provare a capire che cosa avesse in testa, che cosa volesse fare, se aveva superato quello che aveva visto quel pomeriggio o se era solo in collera con lei e si sentiva in qualche modo in trappola.

Però, alla fine, non disse nulla.

Si lasciò spogliare e fece altrettanto con lui e, quando Giovanni la fece cadere sul letto, la Tigre non ebbe nemmeno la forza di rifiutarsi di amarlo lì, dove troppi uomini erano stati prima di lui.

Mentre il Popolano cominciava a muoversi sopra di lei con una forza che rendeva difficile pensare che fosse ancora in parte convalescente, la Sforza lo fermò un momento.

Nonostante l'ardimento che stava dimostrando, fedele alla sua indole, il Medici non si oppose e si arrestò un istante, guardandola. Appariva sconvolto e per poco Caterina non fu tentata di chiedergli di andarsene.

“Stai bene?” gli chiese, con un filo di voce, mentre sentiva la sua pelle scottare contro quella del marito.

“Sto bene. Ce la faccio, se è questo che ti preoccupa.” disse lui, con un che di piccato nella voce.

“Non è quello – fece subito la Contessa, che aveva capito benissimo che Giovanni la voleva e poteva averla, dopo tanti giorni di forzata attesa – ti sto chiedendo se stai bene.”

L'uomo aveva capito cosa intendesse e, deglutendo, assicurò: “Ci ho pensato e mi sta bene. Non mi interessa se l'avresti ucciso. Mi sta bene così. Io ti voglio così come sei. Se averti vuol dire dannarmi l'anima, allora andrò all'inferno. A me basta stare con te.”

A quel punto, la Tigre gli accarezzò la fronte e poi la guancia e lo baciò, permettendogli di ricominciare, benché quel discorso le avesse ricordato anche troppo da vicino un ragionamento fatto quasi due anni addietro da Giacomo.

Così, lasciando i suoi sensi liberi di godersi quell'inatteso incontro, la Sforza cercò con tutta se stessa di evitare i parallelismi tra il suo secondo marito e il terzo, ricacciando nel fondo della sua anima anche il ricordo di suo figlio Cesare che le aveva detto, a riguardo del Medici: “Rovinerete anche lui. Dio lo scampi dal vostro amore.”

Quando alla fine si ritrovò stremato e senza più forze, Giovanni le passò con lentezza le labbra sul collo e poi, ritrovando finalmente la sua consueta dolcezza, la strinse a sé e, dopo averle accarezzato a lungo la testa e averle dato qualche bacio sulla fronte e sulle labbra, si addormentò, dopo averle sussurrato: “Non se ne parla, che io ti lasci...”

 
   
 
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