Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    28/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Lorenzo era assorto nel guardare il figlio Pierfrancesco, non ancora dodicenne, che ripeteva alla madre la lezione appresa quel giorno.

Non era nulla di che, la solita accozzaglia di nozioni di politica che probabilmente quel ragazzino non avrebbe mai più rispolverato per tutta la sua vita.

Man mano che cresceva, al padre appariva sempre più chiaro che il suo primogenito non aveva la stoffa dell'uomo di Stato. Sarebbe stato un ottimo banchiere, quello sì. Aveva un istinto innato per i numeri e i calcoli, ma nulla di più.

Semiramide batté un paio di volte le mani e poi lasciò il figlio libero di ritirarsi, se voleva, o di restare, se gradiva la compagnia dei genitori ancora per un po'.

Pierfrancesco, pur tentato, guardò di soppiatto il padre. Da quando erano tornati a Firenze, il Popolano più vecchio era diventato man mano più scontroso e chiuso. Anche se coi figli riusciva, di norma, ad apparire più disteso, era arrivato a un punto in cui a volte rispondeva male pure a loro e senza che ve ne fosse motivo.

“Preferisco ritirarmi per la notte, madre...” disse il ragazzino, con un breve sorriso imbarazzato.

Non appena Semiramide lo salutò con un bacio sulla guancia, e altrettanto ebbe fatto Lorenzo, Pierfrancesco li lasciò soli e a quel punto il Medici si sentì finalmente libero di dare voce ai suoi pensieri.

Non voleva addensare nuvole sui suoi figli con i suoi tormenti, perciò era a sera, quando tutta la casa cominciava a dormire e lui e sua moglie restavano soli davanti al camino ancora acceso che si sentiva più incline a confidarsi, anche se non sempre ci riusciva.

“Hanno accettato la mia candidatura all'Arte della Seta.” disse l'uomo, con un tono un po' spento, guardando in terra.

Semiramide si sistemò un po' sulla poltroncina imbottita e commentò, per incoraggiarlo: “Questa è un'ottima cosa. Adesso potremo espandere i nostri affari...”

“Avrei voluto farlo con mio fratello.” la bloccò Lorenzo, scurendosi ancora di più: “Anche lui doveva iscriversi. Così come si era iscritto assieme a me all'Arte del Cambio e a quella dei Mercanti.”

“Vedrai che quando potrà si iscriverà anche lui...” tentò di mitigarlo la moglie, che non sapeva più come gestire il pessimismo che aveva colto il marito facendolo cambiare così tanto e così in fretta.

“Ma vedi, è che...” cominciò l'uomo, ma uno dei domestici batté con forza sullo stipite della porta e così il padrone di casa si fermò e gli chiese che avesse.

“Una staffetta ha appena portato una lettera.” disse il servo, tenendo il messaggio su un piatto.

“Se è una convocazione della Signoria, possono arrangiarsi. A quest'ora le strade sono buone solo per i ladri, gli assassini e le adescatrici. Che se la facciano da soli, l'ennesima riunione straordinaria per discutere della scomunica...” borbottò Lorenzo, agitando in aria la mano con impazienza.

“Si tratta di una lettera appena arrivata dalla Romagna.” precisò il domestico, ricordando le precise parole della staffetta che, ancora fradicia della pioggia incontrata per strada, aveva pregato di consegnare la missiva solo nelle mani di Lorenzo Medici: “Da Forlì.”

Il Popolano era già scattato in piedi e come lui Semiramide. Quando Lorenzo si accorse che il messaggio era tenuto chiuso dal sigillo degli Sforza Riario, per un momento temette che portasse con sé notizie tragiche.

Si risollevò subito, vedendo la grafia del fratello. Iniziò a leggere in fretta, mentre la moglie prima congedava il servo e poi si metteva a sbirciare da sopra la spalla del marito.

“Mi garberebbe veder versata tramite sicuro corriere la mia rendita dell'anno appena passato – lesse a un certo punto Lorenzo – giacché io e mia moglie di lavori abbiamo a farne e tanti e presto per risollevare i mercati e il popolo della nostra terra.”

Il Medici cercò lo sguardo della moglie che, per la prima volta, parve smarrita quanto lui dinnanzi a una richiesta che non sembrava nelle corde di Giovanni.

Benché fosse sempre stato conscio – nei momenti di magra come in quelli di benessere – delle proprie sostanze, il Popolano più giovane non aveva mai cercato apertamente i propri soldi, men che meno per usarli in modi tanto discutibili.

“Lo sta spennando come un pollo!” esplose Lorenzo, accartocciando di colpo la lettera, gettandola da parte e pestando un piede in terra: “Quella maledetta donna lo getterà sul lastrico e poi lo butterà via come un rifiuto!”

A quel punto la moglie, che aveva visto come la lettera proseguisse anche sul retro del foglio, la raccolse subito, e, mentre il marito continuava la sua personale filippica contro Caterina Sforza, affibbiandole titoli di ogni sorta, finì di leggere per conto suo.

Dopo un altro paio di frasi in cui rinverdiva il bisogno di avere presto i suoi soldi, Giovanni aveva aggiunto: 'Con mia moglie sono felice, più di quanto lo credessi possibile, più, mi ardisco a dire, di quanto abbia mai visto nessun altro.'

“Guarda.” disse Semiramide, indicando la frase a Lorenzo, che, però, la lesse in fretta e alzò le mani in segno di impazienza.

“L'avrà irretito con una delle sue pozioni da strega! Ne parlano, sai, anche nelle osterie di Firenze, di quello che fa quella donna...” fece il Medici, sempre più fuori di sé: “Stare nella sua casa è come venire rapiti dalla maga Circe e...”

“Ti ricordo che a Forlì ce l'hai voluto mandare tu.” fece allora la moglie, ripiegando la lettera e mettendola al sicuro nella tasca del suo abito.

“Lo so.” annuì mesto il marito: “E me ne pento ogni singolo giorno. Lo pensavo più sveglio. Se avessi anche solo immaginato che mio fratello potesse lasciarsi circuire così...”

“Quella che ti ha chiesto – lo interruppe Semiramide, che era stanca di vedere il marito trarre conclusioni senza nemmeno conoscere la verità o provare a capire la decisione di Giovanni – è nel suo diritto. Fagli avere la sua rendita, è giusto così. Non puoi negargliela.”

Lorenzo sbuffò e poi, improvvisamente desideroso di restare solo, si raddolcì per un unico istante, il tempo di dare un rapido bacio alla moglie, e poi annunciò: “Sono molto stanco, stasera. Starò in camera mia...”

 

Com'era da prevedere, al banchetto alla rocca di Ravaldino si presentarono tutti gli invitati, nessuno escluso. Perfino qualcuno di quelli che ancora non erano rientrati in città, appena saputo della festa, avevano fatto i bagagli ed erano ritornati a Forlì.

La Contessa aveva dato inizio al banchetto proponendo un brindisi all'estate ormai vicina e poi aveva attaccato, come tutti i presenti, i piatti gentilmente offerti dai possidenti forlivesi che non avevano dovuto patire la lunga pestilenza.

In realtà non si trattava di portate troppo ricche, ma dopo settimane di ristrettezze, a tutti parve un banchetto eccezionale.

Il tavolo d'onore aveva attirato molti sguardi, dato che alla destra della Tigre era seduto quello che agli occhi di tutti era ancora solo l'ambasciatore di Firenze, mentre Ottaviano, teoricamente il Conte, era stato fatto slittare di un paio di sedie, perdendo del tutto la sua centralità.

La Sforza indossava un abito molto elegante, uno di quelli che non le si vedevano addosso da molto tempo e la lucidità della stoffa lasciava intendere che l'avesse fatto da poco rinfrescare dai sarti migliori della città.

Ad accompagnare il vestito color sangue, c'erano i gioielli. Non aveva scelto quelli più vistosi e chiassosi, come invece aveva fatto per il corteo. Aveva preferito quelli più preziosi e ricercati, quelli che perfino in Vaticano, al suo tempo, avevano destato lo stupore di nobili ben più ricchi di lei.

Il cibo venne spazzolato via da tutti a una velocità ragguardevole e, finalmente, la Leonessa diede il via alle danze, stemperando una volta per tutte l'atmosfera che, malgrado tutto, era ancora un po' rigida.

“Dovevo esserci io alla sua destra, quando abbiamo riaperto le porte...” sussurrò Ottaviano, giocherellando con il coltello, mentre osservava la madre che parlava con il castellano e con Luffo Numai: “E anche stasera. Doveva tenere me al suo fianco...”

“Non cominciare.” lo ammonì Bianca, che, come lui, non si era ancora alzata da tavola, benché gli ospiti avessero già iniziato a ballare da un po'.

“Io sono il suo primogenito e...” riprese Ottaviano, corrucciandosi e premendo la lama di piatto contro un residuo di pane rimasto davanti a sé.

“Devo ricordarti com'è finita l'ultima volta?” lo bloccò la sorella, guardandolo di sottinsù: “Prova anche solo a pensare di fare del male a messer Medici, e stavolta dovrai vedertela anche con me.”

A quel punto il Riario maggiore sbuffò e si rilasciò contro lo schienale intarsiato del suo scranno.

Sulla pancia, i bottoni del giustacuore azzurro e oro tiravano un po'. La fortuna di Ottaviano, per il momento, era la sua statura notevole e il tratto longilineo ereditato dal padre. Se fosse stato più simile a Sforzino, pensava Bianca, sarebbe già diventato da tempo una palla.

Bianca, sicura, almeno per quella volta, di aver spento facilmente le rimostranze del fratello maggiore, cercò Giovanni con lo sguardo e lo vide in fondo, vicino alla porta, intento a dire qualcosa a uno dei musici.

Dopo che ebbe finito il suo breve discorso, sorrise e diede una veloce pacca sulla spalla del musicista, per poi tornare quasi di corsa verso il tavolo d'onore, schivando i ballerini che si stavano moltiplicando in mezzo alla sala.

“Ti va un ballo?” chiese il Medici, rivolgendosi alla moglie, che aveva appena concluso il discorso con il castellano e il Consigliere.

“Te la senti?” domandò di rimando la donna, alludendo sia alla forma fisica del marito, sia alle implicazioni che farsi vedere ballare di nuovo insieme avrebbe avuto.

“Mi sento bene.” confermò Giovanni, sistemandosi appena la giacchetta di velluto scuro che aveva scelto per la serata: “Va tutto bene. Se tu sei con me, va tutto bene.” sorrise.

A quel punto, dopo aver lanciato una breve occhiata ai figli maggiori, che stavano ancora al tavolo, apparentemente annoiati, seppur forse per motivi diversi l'uno dagli altri, la Sforza annuì: “Va bene.”

Il Popolano fece un gesto ampio con la mano e, seguendo evidentemente un piano preciso, i musici lasciarono sfumare la ballata popolare che avevano iniziato da poco e una musica molto diversa riempì la sala.

Caterina ascoltò con attenzione, mentre Giovanni la prendeva per mano, scendendo con lei il gradino e raggiungendo il centro della pista, che, nel vederli arrivare, era stato spontaneamente lasciato libero dagli altri danzatori.

“Il Cupido di Ambrosio...” sussurrò la Leonessa, scoccando uno sguardo divertito e compiaciuto al marito: “Sei incredibile.”

Il Medici accettò l'affermazione come fosse un meraviglioso complimento e fece un inchino profondo, prima di cominciare a muovere i primi passi.

Il fiorentino non conosceva benissimo le figure di quella particolare bassadanza, ma quando si era confrontato con i suonatori, gli era parsa la scelta migliore. Aveva avuto molto successo alla corte di Milano, una trentina di anni prima. Era certo che Caterina la conoscesse e che l'avesse sentita più di una volta, quando era piccola. Voleva farla sentire a casa.

I presenti si erano assiepati ai bordi della pista e li fissavano senza dire nulla. L'ambasciatore e la Contessa si fissavano intensamente, non curandosi – almeno all'apparenza – di quelli che li circondavano.

Le note del Cupido li accompagnavano un passo dopo l'altro e nessuno ebbe il coraggio di unirsi a loro. Erano uno spettacolo sufficiente a intrattenere tutta la sala.

Bianca, rimasta pietrificata al suo posto, si arrischiò a controllare le reazioni dei suoi fratelli. I più piccoli, come prevedibile, non parevano particolarmente scossi, anzi, Galeazzo e Bernardino si erano messi a tenere il tempo con le mani come stavano facendo altri convitati, mentre Sforzino, vicino a una delle balie, stava mangiando qualcosa, di buon umore.

Ottaviano, invece, accanto a lei, teneva le mani sul tavolo e gli occhi puntati sulla madre. Tuttavia Bianca si sentì pronta a tirare un sospiro di sollievo nel vedere il suo viso abbastanza disteso. Era solo un po' sorpreso, come molti altri presenti, ma non sembrava arrabbiato.

Alle loro spalle, appoggiato al muro, c'era Cesare. Teneva le braccia lunghi i fianchi e i suoi occhi un po' incavati non guardavano avanti, ma in terra. A Bianca sembrava più affranto, che non innervosito. In ogni caso, quando tornò a concentrarsi su sua madre e Giovanni, non poté reprimere un piccolo brivido.

Il Cupido era ormai finito e il Medici si stava esibendo in un ultimo inchino alla sua dama, quando i musici, forse desiderosi di far tornare la festa movimentata, attaccarono subito con una ballata dalla trama spagnoleggiante, molto più mossa rispetto alla bassadanza appena finita.

Dopo una breve occhiata d'intesa, il fiorentino e la milanese ricominciarono subito a danzare, questa volta in modo molto più veloce, come la musica imponeva. Stavano vicini, più di quanto fosse lecito, perfino per quel genere di musica, e ancora una volta il pubblico parve intimidito e non osò in un primo momento unirsi a loro.

Giovanni sentiva il respiro della moglie e vedeva il suo sorriso farsi più largo a ogni salto e all'improvviso, senza riuscire più a ragionare, si chinò appena su di lei, facendola fermare quasi di colpo, e la baciò.

Caterina non ebbe nemmeno l'istinto di allontanarlo. Registrò con distacco il boato che accolse quel gesto improvviso e sentì anche uno strano scrosciare di applausi e risate, mentre finalmente, come se tutti volessero togliere la Contessa e l'ambasciatore da un possibile attimo di imbarazzo, qualche invitato scendeva in pista e iniziava a danzare.

“Questa poi...” borbottò Cesare, che alla fine si era messo anche lui a guardare.

“Dove stai andando?” chiese Bianca, alzandosi e cercando di fermarlo prendendolo per un braccio.

“Le feste non fanno per me.” rispose il giovane: “Vado a dormire. Domani mattina voglio essere in Duomo presto per le orazioni...”

La sorella non lo fermò, lasciandolo andare via, convinta che forse fosse meglio così per tutti.

Ottaviano, ancora al suo posto, si era portato una mano alla fronte, come se avesse mal di testa, ma ancora una volta non sembrava sconvolto come avrebbe potuto essere un tempo, se al posto di Giovanni ci fosse stato Giacomo.

Con un sospiro profondo, Bianca osservò ancora un momento la madre, che stava ancora ballando in mezzo agli altri, stretta sempre di più al marito, infischiandosene di dare spettacolo.

Chiuse gli occhi e tentò di calmare il respiro. Malgrado tutto, i forlivesi presenti sembravano averla presa bene, o almeno non troppo male. Addirittura, Golfarelli e Rossetti, contro uno dei muri, si davano di gomito e ridacchiavano con fare cameratesco, forse commentando la novità, ma senza troppa malizia.

Decidendo che, anche volendo, lei non avrebbe potuto fare altro per arginare eventuali ripicche dei suoi fratelli, Bianca lasciò il tavolo d'onore e in pochi istanti trovò subito un cavaliere che le chiese di ballare.

 

Leonardo sobbalzò, portandosi una mano al petto per la paura. Nell'attraversare il corridoio quasi del tutto buio, non si era accorto che c'era qualcuno.

“State tranquillo, maestro...” sussurrò il Duca Sforza, con voce bassa e un po' roca: “Sono solo io.”

L'artista ebbe il sospetto che il suo mecenate avesse appena smesso di piangere. L'unica fonte di luce era una torcia in fondo alla parete, troppo lontana per permettergli di scorgere in modo nitido il viso del Moro.

“Che cosa ci fate, ancora in giro, a quest'ora?” chiese Ludovico, con un pesante sospiro, accennando a voler fare qualche passo.

Leonardo lo assecondò, cercando di andare verso la luce. Benché fosse certo che quello era davvero lo Sforza, la notte milenese e il tono dimesso del Duca gli stavano mettendo i brividi. Per quella notte, ne aveva abbastanza di avere paura. Aveva bisogno di luce.

Quando finalmente furono a tiro della torcia, il domine magister rispose, un po' vago: “Non riuscivo a dormire...”

“Eravate nel vostro laboratorio infernale?” chiese senza giri di parole il Moro, posando gli occhi appesantiti dalle occhiaie sulle mani di Leonardo.

Anche se la fiamma della torcia tremolava, il Duca poté scorgere ugualmente il sangue secco che Leonardo non era riuscito a togliersi dalle unghie.

“State attento a giocare troppo coi morti...” sussurrò lo Sforza, mentre passavano oltre la torcia, voltando l'angolo e raggiungendo, per fortuna, un'ala più luminosa: “Alla fine si finisce per non sapere più chi è di qua e chi è di là...”

“Io non so di cosa...” iniziò a dire il domine magister, desiderosissimo di chiudere la questione e rintanarsi nelle sue stanze.

“Dicono che sto trasformando Milano in un mortorio.” fece Ludovico, allacciandosi le mani dietro la schiena: “Dicono che stia dando più attenzioni alla chiesa in cui è sepolta mia moglie che non alle case in cui vivono i miei sudditi.”

Leonardo stava per fare qualche osservazione in merito, per risollevare un po' lo spirito del suo signore e anche per ricordare Beatrice Este, per lui sempre una donna ammirevole, morta troppo presto e in modo ingiusto, senonché fu il Moro a parlare di nuovo per primo.

“Solo che trasformare il Ducato in un mausoleo non è reato. Aprire cadaveri per disegnarli sì, invece.” disse il Duca, puntando gli occhi scuri in quelli del domine magister: “Per voi ho coperto anche altri crimini. Fingo di non vedere i giovinetti che entrano nelle vostre stanze. Non sono Dio, non voglio giudicarvi. Ma state attento alle cose che potrebbero mettere nei guai anche me. La mia pazienza ha un limite, e voi la state mettendo a dura prova. Sappiate che se non vi ho ancora cacciato, è solo in rispetto alle volontà di Beatrice. Fate in modo di finire il Cenacolo. È da troppo tempo che lo stiamo aspettando. Avete alte opere da fare, in memoria di mia moglie.”

Leonardo lo ringraziò sommessamente. Per la prima volta non aveva alcuna voglia di dar sfogo alla propria vena polemica e arrogante.

Ludovico parve convinto e lo salutò repentinamente, accelerando il passo, per sparire di nuovo nel buio del palazzo di Porta Giovia.

Scosso come se avesse visto un fantasma, il domine magister quasi corse nei suoi appartamenti e si chiuse dentro a tre mandate, andando poi subito a pulirsi le dita con la spazzola e l'aceto, maledicendosi per la fretta con cui faceva sempre quel genere di cose.

 

Benché Giovanni sembrasse animato da un'energia infinita – forse dovuta all'euforia per il bacio che aveva osato darle davanti a tutti – Caterina preferì non esagerare con le danze e così, a metà di un'Alessandresca, lo afferrò saldamente per mano e lo portò fuori dalla sala.

Il Medici, accaldato e rosso in viso, seguì la moglie di corsa, quasi travolgendo il Capitano Mongardini che stava scendendo le scale, impegnato nei suoi giri di controllo della rocca.

Il soldato guardò l'ambasciatore e la Contessa che, mano nella mano, l'una davanti e l'altro dietro, salivano i gradini a due a due, ridendo come ragazzini.

La strada che li separava dalla loro stanza parve a entrambi infinita, ma quando riuscirono ad arrivare in camera, e si furono chiusi dentro, per un secondo nessuno dei due seppe dire o fare nulla.

“Sei pazzo...” sorrise alla fine la Tigre, controllando che la porta fosse serrata a dovere.

“L'hai detto tu, che non vuoi nasconderti più...” si difese il Popolano, sorridendo ancor più di lei.

La sicurezza, così leggera, che il marito le stava mostrando, le diede la grandiosa sensazione di non avere alcun problema al mondo. Anche se si trattava di una cosa illusoria, alla Leonessa, per quella notte, bastava così.

Rimettendosi a ridere, sollevata come non mai, sentendosi libera, Caterina si gettò tra le braccia del marito e iniziò a baciarlo, mentre le sue mani iniziavano a cercarlo sotto lo spesso velluto fiorentino della sua giacchetta e sotto alla seta finissima della sua camicia.

 

“Dov'è andata nostra madre?” chiese pungente Ottaviano, appena rientrato nella sala, dopo aver controllato in pista e non averla trovata.

Bianca, sudata per il gran ballare che aveva fatto, si era da poco rimessa a sedere al tavolo d'onore, giusto per riprendere fiato in vista di qualche nuova danza di gruppo. Come capitava spesso, la festa elitaria si stava tramutando in un ballo di paese, visto che a quell'ora anche ai servi e ai soldati era stato permesso di entrare nel salone.

“Immagino che sia con messer Medici, a fare quello che tu stavi facendo poco fa con quella serva...” rispose altrettanto tagliente la ragazzina, indicando con gli occhi blu una delle giovinette che lavorava da poco alla rocca.

Li aveva visti uscire dalla sala, poco prima, quella ragazzina e suo fratello. Rivedendoli tornare a così breve distanza l'uno dall'altra ed entrambi abbastanza in disordine, aveva intuito cosa potesse essere successo. Da quello che sapeva, non era la prima volta che Ottaviano riusciva a trovare compagnia a quel modo, e immaginava pure che quella serva avesse avuto un buon compenso, tuttavia non poteva evitare di provare pena per lei.

Il giovane Riario strinse il morso ed evitò per un pelo di riprendere la sorella con qualche frase paternalistica in merito ai suoi modi e agli argomenti che trattava con troppa disinvoltura, per essere una nobildonna, e disse solo: “Nostra madre dovrebbe aspettare la fine delle feste, prima di defilarsi. Lascia sempre al castellano il compito di congedare gli ospiti...”

“Come se te ne importasse qualcosa...” sbuffò Bianca, che aveva visto un giovane soldato avvicinarsi con la chiara intenzione di chiederle un ballo.

Ottaviano schiuse le labbra per ribattere, ma la sorella aveva già accettato l'invito della recluta e stava tornando in pista.

Stanco e troppo angustiato con se stesso e con il mondo per desiderare di stare da solo in stanza fino al mattino dopo, il sedicente Conte si rimise seduto, chiese del vino a uno dei servi e, bevendo come mai in vita sua, decise di tirare mattino in compagnia della confusione.

 

“Ho voglia di andare a caccia.” disse piano Caterina, stringendosi a Giovanni, sotto alle coperte.

“Noi due da soli?” chiese il fiorentino, passandosi una mano tra i capelli umidi di sudore.

La moglie annuì e poi aggiunse: “Potremmo andarci dopodomani, o settimana prossima. Così avrò tempo di mandare qualcuno a sistemare la Casina. In queste settimane potrebbe esserci passato di tutto, da qualche viandante a qualche bestia selvatica...”

“Andiamoci domani.” propose il Medici, che, per quanto stanco, non si ricordava di essersi mai sentito bene come in quel momento: “La sistemiamo noi, se ce ne sarà bisogno.”

La Contessa ci pensò un po', poi, annusando la pelle del marito, che quella sera aveva addosso l'odore del trionfo, disse: “Domani mattina, mi sta bene.”

Giovanni, quella notte, si sentiva davvero un vincitore. Aveva avuto il coraggio di mettersi in mostra davanti a tutti e per la prima volta da tanto tempo il suo corpo gli aveva permesso di divertirsi a una festa senza fargli provare alcun tipo di dolore.

Era uno stato di grazia che probabilmente non sarebbe durato a lungo, quindi voleva sfruttarlo fino alla fine.

Dal canto suo Caterina si sentiva trascinata dalla forza vitale con cui il suo uomo la stava contagiando.

Anche se aspettava con ansia le novità da Tiberti e anche la risposta di Savonarola da Firenze, per la Tigre quella notte non esisteva altro se non quello che c'era tra lei e suo marito.

La Sforza si rendeva conto che quella bolla incantata si sarebbe rotta, probabilmente prima del previsto, e quindi voleva godersela finché poteva.

“Porteremo un po' di vino, qualcosa da mangiare, nel caso non dovessimo riuscire a cacciare nulla...” iniziò a dire il Medici, con la voce che si faceva sottile per il sonno che si avvicinava.

Il tepore della camera e il calore della pelle di Caterina lo stavano cullando, facendolo sentire protetto e tranquillo come un bambino. Il respiro della moglie era calmo e le sue dita passavano lente sulla pelle del suo petto, infondendogli un senso di pace assoluta.

“Io riesco sempre a cacciare qualche preda, non aver paura...” gli assicurò la Leonessa, mentre il movimento della sua mano andava via via spegnendosi, man mano che la stanchezza coglieva alla fine anche lei.

“Hai ragione...” convenne il Popolano, chiudendo gli occhi e facendo un sospiro: “A caccia con te, non devo avere paura di nulla...”

La Sforza sorrise e poi, accoccolandosi un po' di più contro il fiorentino, ribadì, ricalcando le sue parole: “Finché esci a caccia con me, non devi avere paura di nulla...”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas